Migranti ambientali

«È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciu­ti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa. Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo».

In queste poche parole della Laudato si’, l’enciclica che ha dedicato alla “cura della casa comune” (la Terra), papa Francesco ha toccato un problema emergente – quello dei “migranti ambientali” – in tutti i suoi aspetti principali. Pochi lo hanno fatto in passato. Nessuno al di fuori della cerchia degli specialisti. Eppure il problema – con i suoi rischi, i suoi drammi, le sue tragedie, ma anche con le sue opportunità – è tra i maggiori che l’umanità si troverà ad affrontare da qui alla fine del secolo.

Ma chi sono i “migranti ambientali”? Diciamo subito che già nella risposta a questa domanda i tecnici si dividono. E ancor prima si dividono sul nome e sull’aggettivo. Tanto che è possibile elencare una serie di coppie alternative più o meno analoghe: “rifugiati ambientali”, “rifugiati climatici”, “migranti climatici”. Sia come sia, prendiamo per buona le definizione della International Organization for Migration: «Migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, per cause impellenti di cambiamenti improvvisi o progressivi dell’ambiente che influenzano in maniera sfavorevole la loro vita e le loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare la loro dimora abituale o che, comunque, scelgono di farlo, temporaneamente o definitivamente, spostandosi altrove, sia all’interno del loro paese che altrove». Insomma, sono “migranti ambientali” tutti coloro che lasciano la loro casa per sfuggire a qualche rischio, nuovo o semplicemente inasprito, che non deriva dalla società (conflitti, condizioni economiche) ma dall’aria, dall’acqua, dalla terra, dagli habitat in cui vivono.

In realtà questa definizione è contestata. E anche giustamente. Perché non c’è mai (o quasi mai) una causa unica che spinge la gente a migrare. I cambiamenti ambientali possono entrare a far parte, spesso in maniera prepotente, di un insieme di cause, sociali e non, che concorrono alle migrazioni. Ed ecco la prima, significa, specificazione che ne dà papa Francesco e che coglie la complessità del fenomeno: i migranti fuggono spesso, insieme, povertà e degrado ambientale. Non c’è distinzione – o meglio, c’è un gradiente di interrelazione – tra cause sociali e cause ambientali che costringono gli uomini a lasciare, contro voglia, le loro case. Il fenomeno non è neutrale. Come sostiene Francesco, colpisce di più i poveri.

Lee cause sociali sono, in genere, di tre tipi: discriminazioni (politiche, di genere, religiose); guerre; economia. Le cause ambientali sono molte: riguardano la difficoltà a procurarsi il cibo per vivere, la degradazione dei campi da coltivare; la difficoltà di accesso a quantità sufficienti di acqua potabile, disastri naturali, inondazioni, desertificazione, aumento del livello dei mari. Tutte cause ambientali che sono inasprite, rese più frequenti e/o più estreme, dai cambiamenti del clima.

Ma quanti sono i “migranti ambientali”? Secondo le Nazioni Unite in tutto il mondo nell’anno 2013 le persone costrette a lasciare le loro case (anche) per motivi ambientali sono state oltre 22,4 milioni. Ma la cifra varia di anno in anno. Nel 2012 sono stare di più: 32,4 milioni; l’anno prima, nel 2001, “solo” 15,0 milioni; ma il 2010 è stato drammatici: i migranti ambientali sono stati ben 42,4 milioni. La gran parte nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia sud-orientale.

Sono cifre enormi, che fanno impallidire quelle relative ai migranti che attraversano il Mediterraneo e impauriscono l’Europa, sempre più chiusa nella sua fortezza. La gran parte dei “migranti ambientali” trova una nuova e più o meno provvisoria dimora nel suo stesso paese o, al più, in un paese vicino. Quasi mai fuori dal suo continente.

I “migranti ambientali” non sono pochi neppure in termini relativi. Nel mondo, in questo momento, ci sono all’incirca 250 milioni di persone che vivono e/o lavorano fuori dal loro paese: il 3% della popolazione mondiale è fatta di migranti. Ebbene, quelli ambientali (al netto delle considerazione fatte sulla difficoltà a distinguere tra le diverse tipologia) sono tra il 10 e il 20% del numero totale di migranti.

Un numero paragonabile ai cosiddetti “rifugiati”, ovvero ai migranti per cause politiche o per guerre, che nel 2013 sono stato 38 milioni (nel 2010 sono stati poco più di 22 milioni). Ma, senza voler minimamente mettere in competizione i due gruppi, per altro largamente sovrapposti, occorre rilevare, come ha fatto Francesco, che i migranti ambientali, a differenza degli altri, non sono riconosciu­ti nelle convenzioni internazionali. Eppure, come ricorda il papa, le sofferenze cui vanno incontro non sono meno gravi e i bisogni non sono meno impellenti. Questa condizione di “migranti senza tutele” va urgentemente modificata.

Tanto più che il fenomeno della migrazione ambientale, come ha denunciato papa Francesco, è in aumento ed è destinato ancora ad aumentare, anche a causa dei cambiamenti climatici. Di quanto? Le previsioni non sono facili e, comunque, sono quasi sempre al centro di formidabili polemiche. Diciamo che la maggior parte degli esperti sostiene che, intorno al 2050, i “migranti ambientali” saranno dieci volte tanto: 200 o forse 250 milioni. Pari, più o meno, al 50% di tutte le persone che si presume vivranno e/o lavoreranno lontano dai loro paesi.

O impareremo a governare il fenomeno oppure andremo incontro a tragedie più gravi e frequento di quelle che già oggi hanno trasformato il Mediterraneo (e molti mari orientali) in un cimitero; e a drammatici conflitti o a odiose discriminazioni di natura razzista come quelli che già oggi si verificano in Italia e in molti altri paesi d’Europa e del mondo.

Ma come si governa il fenomeno della “migrazione ambientale”? Non c’è un’unica cura, proprio perché si tratta di un fenomeno complesso che non può essere separato dalle sue componenti sociali. Si deve combattere su più fronti. Quelle della prevenzione dei cambiamenti climatici (importante sarà la conferenza della parti che si riunirà a Parigi a fine anno). Ma anche quella dell’adattamento ai mutamenti già avvenuti e/o ormai inevitabili del clima: da questo punto di vista le migrazioni governate potranno essere uno strumento efficace di adattamento. Occorrerebbe, infine, agire sulle componenti sociali delle migrazioni ambientali: la povertà di cui parla Francesco e che è quasi sempre correlata al degrado ambientale.

Vaste programme, avrebbe detto Charles De Gaulle. Già, impresa titanica. Ma non impossibile. Che può iniziare a patto che sia rimosso il primo ostacolo sottolineato da Francesco nella sua enciclica: la generale indifferenza di fronte a queste tragedie.

Il peso di tante vite abbandonate e persino finite di migranti (ambientali e non) non rompe il muro dell’attenzione di noi cittadini più fortunati e non ha peso sulle decisioni di un continente, l’Europa, che pure sul “welfare state” – che significa, non dimentichiamolo, stato assistenziale ovvero che assiste – ha fondato la sua civiltà.

Ma la soluzione del problema “migrazioni ambientali” non può prescindere da un’assunzione di responsabilità (il prendersi cura della Terra e dei suoi abitanti, anche umani) cui l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco richiama tutti, cattolici e non. Senza questa assunzione di consapevole responsabilità il problema, in un futuro che è già iniziato, ci sommergerà. E questa assunzione di responsabilità passa attraverso una piccola, grande rivoluzione culturale. Smettiamola di discriminare tra i vari tipi di migranti. Smettiamola di discriminare i migranti. E iniziamo a considerali tutti semplicemente persone. Che hanno dei bisogni. E, soprattutto, dei diritti.

* pubblicato su Rocca, n. 14 del 15 luglio 2015

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