Conoscenza, responsabilità e cultura: riflessioni sulla comunicazione scientifica *

Uno degli aspetti più paradossali, e forse più inquietanti, che ha caratterizzato il rapido sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi decenni è rappresentato dalla crescente divergenza tra l’incrementata importanza assunta dalla scienza nella vita economica e sociale e il persistere e persino il diffondersi, all’interno della società, di segnali di disistima, di sfiducia e soprattutto di disinteresse nei confronti della ricerca.
Si tratta di un fenomeno complesso e dai contorni sfumati. I rilevamenti di Eurobarometro continuano a segnalare come 9 cittadini europei su 10 giudichino positivamente il contributo dato dai ricercatori allo sviluppo della società; allo stesso tempo, però, in gran parte dell’Europa continentale, i giovani accedono sempre meno alle carriere scientifiche e la loro condizione professionale ed economica come ricercatori peggiora significativamente, almeno rispetto ad altre categorie professionali. I musei della scienza e i science centres proliferano e si riempiono di visitatori entusiasti, proprio mentre le facoltà scientifiche tendono a svuotarsi. La gente appare fiduciosa delle capacità della scienza e della tecnologia di migliorare la qualità della vita delle future generazioni, ma si mobilita veramente solo quando si tratta di esprimere il proprio dissenso nei confronti della localizzazione di impianti tecnologici e mai – a parte casi sporadici in campo medico – per sostenere la ricerca in questo o in quel settore.
Sembra quasi che esistano due piani distinti, tra loro scollegati. Finché la scienza è lontana e la si vede in vetrina, va tutto bene; appena essa si avvicina, non interessa più o, addirittura, trasmette un senso di inquietudine e di rifiuto; un po’ come gli animali, che affascinano e incuriosiscono finché sono dietro le sbarre di una gabbia e impauriscono se condividono il nostro stesso spazio.

Modelli di comunicazione scientifica
C’è, insomma, qualche cosa che non funziona e che lascia pensare all’esistenza di nodi non risolti ad un livello che potrebbe essere definito strutturale in senso lato; e questo, nonostante i successi della ricerca scientifica e tecnologica e l’emergere di una società definita “della conoscenza” proprio a partire da tali successi, che pervadono tutti gli ambiti dell’esistenza umana, dall’economia alla vita quotidiana.
Questo gap è stato spiegato, a cominciare dagli anni ’80, da una letteratura molto ampia ed autorevole, attribuendone la causa al deficit di conoscenze scientifiche che caratterizza la cultura di massa, con il rilancio contestuale del tema delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, la prima preferita e privilegiata, la seconda trascurata e periferizzata.
Fatta la diagnosi, la cura appariva evidente: promuovere la cultura scientifica per riposizionare la scienza al centro dell’attenzione del pubblico. Lo strumento primario da utilizzare non poteva che essere quello della comunicazione scientifica.
Il percorso della comunicazione scientifica si è dunque coerentemente svolto, abbandonando i lidi tranquilli della divulgazione, per passare al coraggioso Public Understanding of Science, che ha rappresentato il primo tentativo consapevolmente orientato a contrastare la disaffezione generalizzata della gente nei confronti della scienza e della tecnologia.
Frutto di un vero e proprio movimento di ricercatori e di esperti della comunicazione, il Public Understanding of Science ha avuto molti meriti: ha rappresentato, il quadro di riferimento utilizzato dai governi per definire, per la prima volta, proprie politiche pubbliche di comunicazione scientifica; ha favorito lo sviluppo e la diffusione di iniziative pioneristiche quali, ad esempio, i musei interattivi o le “città della scienza”; soprattutto, ha gettato le basi per rendere la comunicazione della scienza un oggetto di seria riflessione scientifica e politica.
Il suo limite – forse l’unico – è stato quello di fondarsi su un modello interpretativo – il ben noto deficit model – che si è rivelato, più che infondato, non pertinente. Esso si basava sulla tesi secondo la quale il disinteresse e la disaffezione del pubblico nei confronti della scienza fossero da attribuire unicamente alla mancanza di adeguate conoscenze su quello che la scienza fa e sui suoi risultati. Colmare questo deficit informativo, allora, sarebbe bastato per cambiare di segno gli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della ricerca scientifica e tecnologica.
Segnali di crisi del Public Understanding of Science sono forniti dalle numerose ricerche e sondaggi di opinione realizzati proprio per verificare l’efficacia delle politiche di comunicazione pubblica della scienza che lo avevano assunto come modello di riferimento. Salvo rare eccezioni, tali politiche avevano ottenuto risultati minori di quelli attesi: il pubblico continuava a mostrare un alto grado di indifferenza e, a volte, un orientamento ostile rispetto alla scienza; non si era registrato un significativo incremento delle immatricolazioni nelle facoltà scientifiche; il grado di comprensione della scienza rimaneva largamente insoddisfacente.
A seguito di questa crisi, verificatisi all’inizio di questo decennio, si è entrati, per così dire, in un’epoca “pre-paradigmatica” nel campo della comunicazione scientifica, che ancora perdura. Da una parte, si sta cercando di migliorare l’approccio del Public Understanding of Science, in modo da correggerne gli aspetti più problematici; allo stesso tempo, si sta tentando di definire nuovi modelli – come quello del Public Engagement with Science and Technology – volti, non più a favorire una semplice comprensione della scienza da parte del pubblico, ma a suscitare un impegno diffuso sui temi della ricerca, mediante una discussione aperta e paritaria tra scienziati e “non esperti”.
Occorre anche notare come la comunicazione scientifica, in questo suo percorso in favore della socializzazione della ricerca scientifica e tecnologica, abbia progressivamente adottato le migliori e più aggiornate teorie delle scienze della comunicazione, puntando sulla comunicazione a due vie o sulla comunicazione a rete, divenuti approcci teorici e metodologici imprescindibili.
Nonostante i progressi compiuti, tuttavia, gran parte dei problemi restano sul tappeto; e questo forse perché non si è ancora riflettuto abbastanza sulla natura, sul ruolo e sul peso oggettivo che, a prescindere dalla consapevolezza che se ne possa avere, ha assunto la comunicazione scientifica nella complessiva dinamica della ricerca scientifica e tecnologica.
Potrebbe essere utile in questo contesto proporre qualche spunto di riflessione.

L’ambito di intervento della comunicazione scientifica
Il primo spunto riguarda l’ambito di intervento della comunicazione scientifica. Quasi invariabilmente, quest’ambito tende ad essere identificato nelle relazioni tra la scienza, da una parte, e un non meglio determinato “pubblico”, dall’altra. Anche i modelli più avanzati (come il già citato Public Engagement with Science and Technology) danno per scontato che esista, da una parte, una comunità di esperti (i ricercatori), dall’altra quella dei “non esperti” (i cittadini) e, nel mezzo, un “divario” da colmare con la comunicazione.
In questo modo, tuttavia, si sottovaluta il fatto che, in misura crescente, la comunicazione gioca un ruolo decisivo anche nei processi di costruzione della ricerca scientifica e tecnologica, i quali vede coinvolta, mai come in passato, una pluralità di attori diversi (oltre ai ricercatori, anche decision makers, manager delle istituzioni scientifiche, “europrogettatori”, esperti di trasferimento tecnologico, valutatori, e così via), i quali sono portatori di differenti culture, svolgono ruoli diversi e hanno persino idee difformi riguardo alla scienza e alla tecnologia.
Questo fa pensare che l’ambito d’azione della comunicazione scientifica si sviluppi tra due poli, in forme altamente differenziate e, per così dire, frastagliate, come mai prima d’ora. Da una parte, c’è il polo della costruzione della scienza, che ha idealmente il suo centro nell’attività dei ricercatori. Dall’altra, c’è il polo della divulgazione della scienza, che ha il suo perno nel pubblico. Nel mezzo, vi sono tante situazioni intermedie, ognuna delle quali caratterizzata da specifiche dinamiche sociali, organizzative, culturali, politiche, ma anche, e inevitabilmente, comunicative.
Colta in questa prospettiva, la comunicazione scientifica presenta forti tratti di discontinuità, che è difficile ricucire tra loro, a meno che non si riesca a rintracciare una sua matrice più profonda, in grado 3 Conoscenza, responsabilità e cultura: riflessioni sulla comunicazione scientifica di interpretare la comunicazione scientifica come un processo unico, articolato in ambiti solo apparentemente lontani, ma in realtà intimamente interconnessi. Il rapporto tra scienza e pubblico sarebbe allora solo l’ultimo anello di una lunga catena di scambi comunicativi che penetrano fin dentro alla cosiddetta “scatola nera” della ricerca scientifica, vale a dire in quel luogo, allo stesso tempo fisico e sociale, da cui traggono origine e in cui si sviluppano i processi di ricerca.
Occorre a questo punto chiedersi se questa operazione di riscoperta di una continuità sia utile o quanto meno corretta. Perché unificare (fosse anche solo teoricamente) poli e situazioni tanto differenti tra loro? Quale vantaggio produce questa scelta?
La mission della comunicazione scientifica
Si inserisce qui un secondo spunto di riflessione, relativo alla mission della comunicazione scientifica.
Se questa mission fosse quella di favorire una trasmissione delle conoscenze prodotte dalla ricerca scientifica e tecnologica (a prescindere dalle finalità che si vogliono perseguire realizzandola, quali possono essere la semplice informazione o – cosa assai più complessa – la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali), allora non avrebbe molto senso pensare alla comunicazione scientifica come a un processo unico, nei termini così ampi appena descritti. In questo caso, infatti, il campo della comunicazione scientifica rimarrebbe, non solo altamente frammentato, ma soprattutto caratterizzato dalla dicotomia tra scienziati e “laici” e, sia pur in modi più o meno sofisticati, la questione da affrontare resterebbe necessariamente quella di come favorire una trasmissione di conoscenze tra “chi sa” e “chi non sa”.
Se invece interpretassimo la mission della comunicazione della scienza nei termini di una intersoggettivizzazione della scienza come impresa umana generale, di cui la conoscenza è solo un aspetto, il quadro cambierebbe di molto. In effetti, entrerebbero nel campo della comunicazione scientifica molte altre questioni connesse con la ricerca – quali, ad esempio, la integrazione tra conoscenza scientifica e conoscenza sociale, la praticabilità della ricerca, i meccanismi di finanziamento o l’accesso dei giovani alle carriere scientifiche – di fronte alle quali non è più rilevante la distinzione tra “scienziati” e “laici”, bensì quella tra attori interessati ad affrontarle, ognuno secondo una prospettiva differente e con competenze diverse, e attori che non lo sono.
Proseguendo con questo ragionamento, diventa forse più chiaro perché la comunicazione scientifica dovrebbe o potrebbe considerare, come proprio ambito di azione, “il polo” apparentemente più lontano dai suoi attuali interessi, vale a dire quello della costruzione della scienza. Anche intorno a questo polo, in effetti, si generano flussi di comunicazione che non concernono solo e strettamente i contenuti scientifici o tecnici, ma che hanno a che fare con l’avanzamento dell’impresa scientifica nel suo complesso e che pertanto mettono in gioco, magari su piani diversi da quelli della divulgazione scientifica, le relazioni tra scienza e società.
Se così fosse, la comunicazione scientifica potrebbe porsi alcuni obiettivi nuovi e ambiziosi, relativi ai cambiamenti che stanno interessando le modalità di produzione della ricerca scientifica e tecnologica e che impattano sul rapporto tra comunicazione e scientificità, quali, ad esempio: la formazione di reti di ricerca sempre più ampie, di natura trans-nazionale e trans-istituzionale; i paradossi legati alla comunicazione transdisciplinare; le nuove modalità di competizione scientifica, nella cosiddetta “era post-accademica”; la riduzione delle differenze tra ricerca di base e ricerca applicata o tra ricerca scientifica e ricerca tecnologica.
Nella prospettiva tracciata, potrebbero assumere rilevanza anche le dinamiche sociali che si sviluppano in quella “terra di mezzo” in cui la costruzione della scienza appare maggiormente condizionata da trend sociali più generali. Si pensi, ad esempio, alla discriminazione di genere all’interno della scienza o al già citato problema dell’accesso dei giovani alle carriere scientifiche. Si tratta di fenomeni che non riguardano solo il mondo della ricerca; tuttavia, essi, in questo specifico contesto, si manifestano nella forma di distorsioni dei meccanismi più elementari di costruzione della scienza, a cominciare da quelli che assicurano il rispetto del principio meritocratico, su cui l’intera impalcatura della ricerca si fonda. Tali distorsioni avvengono anche attraverso la manipolazione della comunicazione, la gestione dei canali di comunicazione, la produzione di immagini e di stereotipi, l’uso di simboli, e così via; tutti aspetti che hanno tipicamente a che vedere con la comunicazione scientifica.
Una volta che si assume, quale nucleo centrale di interesse della comunicazione scientifica, non la trasmissione della conoscenza scientifica, ma l’intersoggettivizzazione della scienza come impresa sociale, anche quel che avviene sui confini convenzionalmente tracciati (e ormai da ridefinire) tra la scienza e la società può essere letto all’interno di una visione un po’ più ampia. Per esempio, la comunicazione scientifica potrebbe porsi, tra i suoi obiettivi, quello di integrare tra loro dialogo sociale e sviluppo scientifico, quello di coinvolgere nella ricerca le leadership politiche (spesso impreparate e disinteressate) o quello di ricondurre a un unico ambito di indagine le molte funzioni organizzative e comunicative che rendono possibile all’attività di ricerca di prodursi e di “localizzarsi” (per esempio, la gestione delle risorse, la costruzione di ambienti organizzativi che facilitano la creatività, la fornitura di beni e servizi essenziali per l’attività di ricerca, e così via). Soprattutto, essa dovrebbe avere al suo centro il tema della promozione di una responsabilità universale di tutti i cittadini nei confronti della conoscenza e della ricerca scientifica e tecnologica come finalità generali e irrinunciabili di ogni collettività umana.

La cittadinanza scientifica
Queste considerazioni sulla mission della comunicazione scientifica conducono a un terzo spunto di riflessione, relativo, questa volta, a quale modello di comunicazione scientifica potersi riferire per affrontare questi aspetti della ricerca scientifica e tecnologica.
Esso, evidentemente, dovrebbe fondarsi su una interpretazione della comunicazione scientifica, più in chiave sociologica, che in chiave prettamente comunicativa. Dando per assodata la natura sociale della scienza e della tecnologia, tale interpretazione aiuterebbe a considerare la ricerca, in tutte le sue componenti e fasi, come un’attività che si sviluppa in un “bagno” di comunicazione e che si produce grazie ai flussi comunicativi che l’attraversano. Non esisterebbero, pertanto, nella scienza e nella tecnologia aree, momenti o settori in cui, per così dire, la società resti fuori dalla porta.
Questa interpretazione, tra l’altro, potrebbe consentire alla comunicazione scientifica di prendere le misure con la differente collocazione sociale assunta dalla scienza nel corso degli ultimi decenni.
In passato, il rapporto tra ricerca scientifica e società era regolato da un sistema di mediazioni istituzionali (per la prima volta, compiutamente analizzate dal Robert K. Merton) che creava una separazione abbastanza netta tra la prima e la seconda (separazione ben rappresentata dalla nota metafora della “torre d’avorio”). Non a caso, per lungo tempo si è immaginata la scienza come un mondo a sé stante, fondato su norme e valori che avevano poco o nulla a che fare con il resto della società. Tutto ciò ha peraltro alimentato l’idea – ancora molto diffusa – di un rapporto asimmetrico tra scienza e società, in cui la prima influenza l’evoluzione della seconda, ma non viceversa.
Oggi queste mediazioni istituzionali sono saltate o si sono molto indebolite; gli spazi “sociali” (ma anche fisici) sui quali si muove la ricerca sono gli stessi in cui agiscono molti altri soggetti, in grado di incidere sulle traiettorie e sui destini della scienza e della tecnologia; il tutto sta, inoltre avvenendo in un contesto di crescente centralizzazione della scienza, colta come prioritario fattore di sviluppo sociale ed economico, con il conseguente progressivo spostamento del locus of control sulla ricerca dai territori della comunità scientifica a quelli della politica e dell’economia.
E’ in questo quadro che la ricerca scientifica e tecnologica ha assunto quel carattere di “impresa sociale” alla quale si faceva già cenno. Per funzionare, essa richiede una mobilitazione più ampia e differenziata di risorse, di più alti livelli di coordinamento, di maggiore consenso pubblico e di una più sofisticata articolazione di competenze; e questo, oltretutto, in un contesto sociale – quello della cosiddetta “modernità riflessiva” – in cui mobilitare risorse o orientare il consenso è diventato particolarmente difficile.
La divulgazione scientifica o la partecipazione dei cittadini rimangono ambiti essenziali di intervento; ma forse, quel che più occorre è una comunicazione in grado di incrementare il livello complessivo di responsabilità sulla ricerca, il quale oggi appare pericolosamente deficitario, non solo tra il pubblico, ma anche tra coloro che, invece, avrebbero già precise responsabilità a questo riguardo.
Si potrebbe parlare, in proposito, della opportunità di prendere in considerazione un modello comunicativo di tipo circolare – differente dai modelli lineari, come quelli citati in precedenza – incentrato sulla “cittadinanza scientifica”, proprio per significare il fatto che, di fronte al tema della responsabilità, la distinzione tra scienziati e laici, tra esperti o non esperti, non ha più molto senso; esiste solo la dimensione della cittadinanza, che si costruisce intorno alla “conoscenza”, riconosciuta, appunto, come bene comune, da preservare, da potenziare e da far fruttare, a beneficio di tutti.
In cosa differisca questo modello rispetto agli altri, lo si capisce se si considera il ruolo dei ricercatori. Nel contesto del Public Understanding of Science o anche dei modelli più aggiornati, essi fungono comunque da centri d’irradiazione della comunicazione, in quanto portatori di conoscenze specialistiche e tecniche da condividere. Nel modello della “cittadinanza scientifica”, i ricercatori non hanno più una posizione specifica e pertanto devono essere colti, oltre che come attori, anche come target della comunicazione scientifica, visto che molti tra loro si stanno misurando con le imponenti e complesse modificazioni che interessano, sia la produzione di nuova conoscenza, sia le relazioni tra scienza e società, vivendo in un contesto di incertezza sulla propria identità e sulla responsabilità che ne consegue. Si tratta di una situazione molto simile a quella vissuta dai cittadini comuni, che devono misurarsi con una generale chiamata alla responsabilità – potremmo parlare, al riguardo, di una “responsabilità tecnologica” – con il rischio, in caso di mancata risposta, di diventare complici del declino del proprio Paese. Tra scienziati e cittadini comuni, insomma, ci dovrebbero essere, nel contesto della cittadinanza scientifica, differenze di ambito, ma non di essenza.
Se questo discorso vale per i “soggetti esperti”, ancor di più varrà per gli altri attori, quali gli operatori politici, le imprese e le associazioni imprenditoriali, il settore non profit, gli insegnanti, i sindacati, i manager della ricerca, gli amministratori locali o, infine, il pubblico in generale.

La doppia dimensione della cultura scientifica
Seguendo il filo di questo ragionamento, si arriva all’ultimo spunto di riflessione – il quarto –, che riguarda la natura della cultura scientifica, la quale costituisce uno strumento indispensabile per la costruzione di una universale “cittadinanza scientifica”.
Certamente, per “cultura scientifica” si può intendere una dimestichezza con la scienza, costruita a partire da una conoscenza di base dei suoi metodi, della sua storia e dei suoi contenuti. Intesa in questo senso, diffondere la cultura scientifica rappresenta un passo necessario per rendere tutti sufficientemente consapevoli delle potenzialità e dei rischi connessi con la scienza e con la tecnologia, per favorire la partecipazione della gente alle scelte che concernono lo sviluppo scientifico e tecnologico, per diffondere un senso di appartenenza a una “tradizione” scientifica (che, nel caso italiano, è particolarmente ricca) e per trasmettere, soprattutto ai giovani, una passione verso la scienza e verso il metodo scientifico. Rispetto a questa dimensione della cultura scientifica, i musei della scienza, i science centres, le riviste, i libri e le trasmissioni televisive di divulgazione scientifica, i festival della scienza o le iniziative pedagogiche rivolte ai bambini rappresentano, forse ancor più che in passato, strumenti indispensabili di intervento.
Tuttavia, a partire dalle osservazioni fatte in merito alla cittadinanza scientifica, si può quanto meno intravedere una seconda dimensione della cultura scientifica, che mette l’accento, non sui contenuti della scienza, quanto sulla scienza come “impresa” collettiva. Nell’ambito di questa seconda dimensione, allora, si tratta di far emergere, ad esempio: il rafforzamento della cosiddetta “terza missione” delle università; i legami della ricerca con lo sviluppo economico e politico; gli intoppi e gli ostacoli di natura politica, organizzativa, culturale o sociale che si frappongono al suo sviluppo; le istituzioni e le reti di ricerca che la realizzano; le infra-strutture di cui necessita; i fattori che possono metterla in pericolo nel prossimo futuro. Tutto questo serve, come minimo, per evitare il rischio che la gente conosca Galileo o Newton, ma non sappia nulla di come funziona la ricerca nel proprio Paese. In una prospettiva più strategica, puntare su questa dimensione della cultura scientifica appare necessario perché ognuno possa essere messo in condizione di “posizionarsi” rispetto alla scienza e alla tecnologia, capendo quale ruolo debba o possa giocare, magari rimanendo all’interno della propria vita professionale o dei propri interessi personali.
Anche su questo secondo versante, la comunicazione scientifica ha un peso potenzialmente decisivo. Essa è infatti necessaria, ad esempio: per identificare in modo appropriato i diversi soggetti ai quali rivolgersi; per capire quale sia la percezione della scienza e della tecnologia di cui essi sono portatori; per elaborare gli strumenti più adatti per raggiungerli; per favorire una assunzione di responsabilità sulla ricerca da parte dei differenti attori; per sostenere, attraverso la comunicazione, una rete di relazioni che permetta di tradurre questa assunzione di responsabilità in nuovi comportamenti e in nuove forme di azione sociale. Si tratta di un terreno in gran parte ancora da dissodare; ma occorre farlo in fretta, considerando i ritardi che la ricerca europea rischia di accumulare rispetto ad altre aree continentali in cui la responsabilità sulla ricerca è forse più sentita, diffusa e concretamente praticata.

* Pubblicato su JCOM, Journal of Science Communication, dicembre 2007, http://jcom.sissa.it/