L’accordo di Parigi sul clima, da disastro annunciato a risultato insperato

Introduzione
Il 12 dicembre, a Parigi, la COP21, ossia la 21a sessione della conferenza dei Paesi che hanno sottoscritto la convenzione ONU sui cambiamenti climatici (UNFCCC), ha trovato un accordo, in qualche modo storico, per contrastare la minaccia del cambiamento climatico.  L’accordo, denominato Paris Agreement, entrerà in vigore nel 2020 quando decadrà il Protocollo di Kyoto.
La COP21  costituiva il culmine di un processo di negoziazione lanciato a Durban (Sud Africa) nel 2011 e aveva l’obiettivo di sancire un nuovo accordo internazionale. Così è stato, ma non è stato affatto semplice.
Sui tavoli di Parigi permanevano i temi già aperti dalla COP15 di Copenaghen, nel 2009: gli sforzi globali di mitigazione (che nel gergo dell’UNFCCC esprime la riduzione delle emissioni di gas-serra) e la loro ripartizione tra i Paesi; l’adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico; la conservazione delle foreste poiché la loro distruzione e il loro degrado causano il 15 per cento delle emissioni globali di gas-serra; i trasferimenti finanziari verso i Paesi in via di sviluppo per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici; i partenariati tecnologici; lo sviluppo di competenze scientifiche e il rafforzamento istituzionale a livello nazionale e sovranazionale; gli accordi su strumenti transnazionali e di mercato di protezione del clima. L’unica novità di rilievo a Parigi riguardava il tema delle perdite e dei danni, relativo alle modalità per compensare i Paesi poveri per i danni che questi subiscono a causa del cambiamento climatico.
Dalla COP di Copenhagen a quella di Parigi molti avanzamenti a livello tecnico e scientifico in molte di queste aree negoziali erano stati compiuti.  Permanevano tuttavia molte empasse sulle grandi questioni politiche, incluso l’obiettivo di lungo periodo di ridurre a zero le emissioni di gas-serra da fonti fossili d’energia.  Si sarebbe trovato un accordo su questo punto? Con quali tempi? Quali sarebbero stati gli esiti per il diritto allo sviluppo e alla salute delle comunità globali e per la difesa dei migranti climatici? Cosa si sarebbe deciso per procedere verso una produzione di energia al 100 per cento rinnovabile? Si sarebbe  trovato un accordo su questi temi e molto di più?
C’è una differenza rilevante rispetto a Copenaghen. Fino al allora il negoziato aveva avuto come riferimento un accordo top-down, con obiettivi vincolanti, definiti dall’alto, e una equa ripartizione tra le nazioni. Con il fallimento di Copenhagen, l’approccio top-down era stato abbandonato, la barra per la mitigazione considerevolmente abbassata e l’impegno di riduzione delle emissioni affidato ai Paesi (secondo un approccio che gli esperti definiscono bottom-up), chiamati a comunicare al Segretariato dell’UNFCCC i propri Intended Nationally Determined Contributions (INDC).
Agli inizi della COP21 aleggiava un cauto ottimismo sulle possibilità che a Parigi fosse approvato un accordo che imponesse i Paesi a elaborare e presentare i propri piani di riduzione delle emissioni di gas serra; a garantire trasparenza internazionale nella redazione dei piani e nella verifica degli obiettivi raggiunti; a definire un percorso per giungere il prima possibile a un bilancio nullo tra le emissioni e gli assorbimenti (tramite gli ecosistemi vegetali o eventuali tecnologie di sequestro e stoccaggio) dei gas-serra.
Purtroppo, nei primi dieci giorni di dialogo le trattative si sono arenate su una serie di punti che rischiavano di portare al crollo della conferenza.  A due giorni dalla chiusura, per ridare vigore al negoziato, il presidente della COP21 e ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha presentato una bozza di accordo, molto più magra (29 pagine contro 54) rispetto a quella che i capi di stato e di governo avevano trovato sui tavoli all’apertura della COP.  Nella serata del 12 dicembre, con un giorno di ritardo rispetto alla chiusura ufficiale, si è trovato un compromesso, nonostante le numerose divergenze, alcune critiche, dell’ultima ora. Nei paragrafi che seguono sono presentati i principali nodi negoziali e il modo in cui sono stati risolti, e una serie di valutazioni sull’accordo finale.

Differenziazione delle responsabilità e degli impegni tra i Paesi
Il primo grande nodo della trattativa è stato il rispetto del principio delle responsabilità comuni ma differenziate (differentiation nel gergo della COP21) rispetto all’accumulo, dalla rivoluzione industriale a oggi, delle emissioni di gas serra, nonché alle capacità finanziarie, istituzionali e tecnologiche dei Paesi per ridurle.  Dalla prima COP a quella di Parigi la questione della differentiation è stata tra le più controverse, anche perché incrocia tutti gli snodi del negoziato ONU sul clima: la mitigazione, l’adattamento, la finanza, la trasparenza.
Il Protocollo di Kyoto aveva riconosciuto questo principio, imponendo a 38 Paesi industrializzati (elencati nell’Annesso I dello stesso Protocollo) di ridurre il livello dei gas-serra ed escludendo tutti gli altri Paesi (non-Annesso I) da impegni di taglio alle emissioni (in quanto ne avrebbe potuto pregiudicare lo sviluppo). A Parigi molti Paesi in via di sviluppo intendevano mantenere anche per il dopo-Kyoto questa dicotomia. I Paesi sviluppati viceversa sostenevano il concetto di Intended Nationally Determined Contributions (INDC), ossia la dichiarazione d’impegno a ridurre le emissioni che ogni nazione ha fatto prima di arrivare a Parigi, sottintendeva un auto-differenziazione e che questa fosse sufficiente.
Gli INDC erano stati proposti a seguito del fallimento della conferenza di Copenhagen.  Fino ad allora il negoziato aveva avuto come riferimento un accordo top-down, con obiettivi e impegni vincolanti definito dall’alto e una equa ripartizione tra le nazioni. Da Copenhagen in poi si è preferito un approccio, che gli esperti definiscono bottom-up, in cui tutti i Paesi sono chiamati a definire ed eseguire impegni individuali (gli INDC, appunto) come parte di un pacchetto di accordo.
La barra in questo modo era stata considerevolmente abbassata pur di favorire nuovi percorsi. L’annuncio di un accordo raggiunto nel 2014 tra USA e Cina aveva introdotto la formula “alla luce delle diverse circostanze nazionali” al principio delle responsabilità comuni ma differenziate ed era stata proposta anche per l’accordo finale di Parigi. I Paesi in via di sviluppo tuttavia consideravano la formulazione troppo generica e non sufficiente a soddisfare le loro richieste.  Era stata cercata una mediazione nella proposta di inserire un riferimento supplementare alla differenziazione d’impegno tra le nazioni ricche e povere in specifici articoli dell’accordo, per esempio in quelli in materia di mitigazione e di trasparenza.
Nel testo dell’accordo di Parigi, in vari passaggi, le responsabilità dei Paesi sviluppati rimangono distinte da quelle dei Paesi in via di sviluppo.

Impegni vincolanti o meno
Includere o no nell’accordo di Parigi un impegno legalmente vincolante per tutti i Paesi ad implementare i loro INDC dichiarati? Una questione centrale nei negoziati è stata quella di stabilire se gli INDC (decisi prima di Parigi su base ‘volontaria’) dovessero essere considerati un impegno vincolante o meno.  Alcuni Paesi, pur puntando a rendere giuridicamente vincolanti gli INDC, protendevano per un accordo che non li impegnasse legalmente a raggiungere i loro INDC. Questo ha portato ad una battaglia sulle formule: un dovere ad attuare piuttosto che un obbligo a realizzare, un obbligo legato al comportamento ‘verso’ le riduzioni di gas-serra , piuttosto che al risultato per se.  In ciò si cercava una modalità legalmente differente dal Protocollo di Kyoto, che non richiedesse, inter alia, una ratifica da parte del Senato USA, che in passato aveva sempre negato.  Questo spiega in parte l’uso del termine ‘should’ in sostituzione di ‘will’ in diversi articoli del Paris Agreement.

Il livello delle ambizioni
La seconda grossa questione da risolvere riguardava il limite da porre al riscaldamento globale e alla de-carbonizzazione a lungo termine. Nel gergo dell’UNFCCC la questione ha preso il nome di ambition.  A Copenaghen i Paesi avevano condiviso l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a non più di 2°C rispetto all’era pre-industriale.  Nel corso del negoziato almeno 100 Paesi della neonata formazione negoziale detta high ambition coalition, coagulata intorno all’iniziativa delle Isole Marshall, avevano cercato di spingere più in là l’accordo, chiedendo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.  Questa soglia è quella che gli scienziati ritengono possa dare maggiori garanzie di sopravvivenza alle nazioni più vulnerabili, in particolare quelle insulari (tra cui appunto le Isole Marshall) e rivierasche. Vi era anche un diffuso – ma non universale – sostegno all’idea di integrare quest’obiettivo a quello della de-carbonizzazione di medio-lungo termine, ribadito pure in occasione dell’ultimo incontro del G8.   Molti Paesi avrebbero voluto includere l’obiettivo di de-carbonizzazione già nell’accordo di Parigi.  Se un consenso in tal senso non fosse stato possibile, un eventuale ripiego sarebbe stato l’inclusione dell’obiettivo della de-carbonizzazione in una specifica decisione della COP, ma non in quello che poi è divenuto il Paris Agreement.  Questa soluzione avrebbe sicuramente dato all’obiettivo uno status giuridico e politico secondario e soprattutto non avrebbe rispecchiato le indicazioni della scienza.

L’accordo di Parigi accetta l’obiettivo di “contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”, riconoscendo che ciò ridurrebbe in modo significativo i rischi e gli impatti del cambiamento climatico.  Il testo richiama anche l’impegno per un “global peaking of greenhouse gas emissions as soon as possible” e di procedere verso la riduzione progressiva delle emissioni nella seconda metà del secolo “as science allows”.

Trasparenza
Un nodo negoziale era quello di garantire i requisiti minimi di trasparenza del reporting e della verifica (nel gergo transparency). I Paesi in via di sviluppo hanno sempre mostrato contrarietà agli obblighi di reporting e di verifica della contabilizzazione delle emissioni e di rispetto degli impegni (che valgono invece per i Paesi sviluppati). Fino a Parigi, il negoziato climatico aveva cercato di venire incontro a queste richieste istituendo due diversi standard per il reporting e la verifica degli impegni di riduzione delle emissioni: un sistema più stringente di valutazione e revisione internazionale per i Paesi sviluppati  e un’analisi più lieve (International Consultation and Analysis, ICA) per i Paesi in via di sviluppo.

A Parigi i Paesi sviluppati hanno tentato di uniformare i requisiti di trasparenza, ma hanno trovato l’opposizione dei Paesi in via di sviluppo.  La questione era se le disposizioni in materia di trasparenza considerate accettabili da parte dei PVS potesse soddisfare la soglia minima pretesa dai Paesi sviluppati.  L’accordo finale richiede a tutte le Parti di valutare i loro sforzi di riduzione delle emissioni ad intervalli di cinque anni e conseguentemente alzare la barra degli impegni.

Finanziamento per contrastare il caos climatico dai Paesi ricchi a quelli poveri
Insieme a differentiation e ambition, il tema degli aiuti finanziari (finance, articolo 6 dell’accordo) dei Paesi donatori è stata la questione più critica e più discussa dalla conferenza di Parigi.  Con l’accordo di Copenaghen i Paesi sviluppati si erano impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno, entro il 2020, a favore dei Paesi in via di sviluppo per attività di lotta ai cambiamenti climatici.  Un recente rapporto dell’OCSE ha stimato che sono stati mobilitati 62 miliardi di dollari nel 2014 e 52 miliardi nel 2013.  I Paesi in via di sviluppo hanno cercato di inserire nell’accordo il principio di “progressione”. Il principio, che si applica in molti Paesi nel contesto della mitigazione, dovrebbe applicarsi anche ai finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo.  In altri termini: ad ogni successivo round, il finanziamento per il clima dovrebbe essere gradualmente più ambizioso (e generoso).
L’accordo finale rinnova l’impegno dei Paesi sviluppati di donare 100 miliardi di dollari l’anno ai Paesi in via di sviluppo e afferma che questa somma è la base (floor nel testo dell’accordo) che dovrà essere accresciuta progressivamente.

I meccanismi di mercato e la cooperazione
I meccanismi di mercato, come lo scambio delle emissioni, erano una caratteristica centrale dell’architettura del Protocollo di Kyoto (ed espressamente criticata dall’enciclica papale Laudato si).   L’accordo di Parigi include l’eventualità che gli Stati possano attuare le loro INDC in cooperazione, per esempio attraverso i trasferimenti internazionali dei “risultati di mitigazione”. Al momento della presentazione dei propri INDC, molti Paesi hanno previsto trasferimenti internazionali di crediti di emissioni.  Era prevedibile quindi che l’accordo di Parigi ammettesse l’uso dei trasferimenti tra Paesi per implementare gli INDC. E così è stato.  Al fine di garantire che i trasferimenti internazionali non compromettano l’integrità ambientale dell’accordo, questo rimanda a un meccanismo credibile e trasparente per garantire che la riduzione delle emissioni non siano registrati due volte.

Adattamento
Rispetto al tema dell’adattamento, i Paesi in via di sviluppo ritengono che esso sia stato a lungo ritenuto un parente povero della mitigazione.  Da qui la richiesta di considerare un obiettivo globale per l’adattamento, in parallelo a quello che sarebbe stato adottato per la mitigazione, da usare per valutare l’adeguatezza e l’efficacia degli sforzi di adattamento fatti dai Paesi in via di sviluppo.  I Paesi africani, i piccoli Stati insulari e altri Paesi particolarmente vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici sono stati molto attivi per affrontare la questione “perdite e danni” dovuti al cambiamento climatico e in particolare agli eventi climatici estremi (uragani, alluvioni, siccità prolungate, ecc.) e hanno reclamato l’inserimento d’uno specifico paragrafo nell’accordo finale.

Conclusioni
L’accordo di Parigi accoglie dunque l’obiettivo minimo di contenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”.  Il target di 2°C era  necessario per evitare almeno gli effetti devastanti del climate change.  Tuttavia — secondo la comunità scientifica — questo obiettivo non sarà sufficiente  a strappare al pericolo i Paesi  più vulnerabili del mondo, tra cui quelli delle piccole isole del Pacifico.  Ed è per questo che è stato incluso nell’accordo un target più ambizioso.
Molti analisti hanno espresso i loro dubbi sull’efficacia dell’accordo e sulla sua forza di invertire la tendenza. James Hansen della Columbia University ha definito l’accordo ‘una frode’, sostenendo che un global warming di 2°C sopra i livelli pre-industriali avrebbe effetti disastrosi e non consentirebbe di stabilizzare il clima, come vorrebbe lo scopo principale della UNFCCC.
Purtroppo le promesse di riduzione dei gas-serra che i 187 Paesi hanno messo sul tavolo prima di Parigi cadrà ben al di sotto anche dell’obiettivo di 2°C.  Infatti, ammesso che siano rispettati, gli impegni presi correggeranno il riscaldamento del pianeta entro un range di  2,7°C e 3,5°C.  Al momento c’è già stato un riscaldamento di 1,0°C.  Per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C  molto esponenti della comunità scientifica ritengono che dovremmo ridurre la concentrazioni di gas serra in atmosfera e passare dalle attuali 400 parti per milione di CO2 a non più di 350 parti per milione di CO2.  Al momento, a parte gli oceani e gli ecosistemi vegetali, non esistono tecnologie mature di carbon sequestration and storage in grado di ‘succhiare’ gas serra dall’atmosfera.
Alcuni studi stimano che per raggiungere l’obiettivo di mantenere il riscaldamento sotto i 2°C è necessario che il livello globale dei gas serra raggiunga il culmine di 54 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030 e declini sino a 21 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2050.  Questo implica che entro il 2050 deve maturare un settore energetico completamente de-carbonizzato: tre quarti dell’energia dovrà essere prodotto da fonti a zero emissioni; il restante dovrà essere prodotto da fonti fossili e da biomassa, associate però a tecniche di carbon capture and storage (CCS).  Per cominciare, nell’arco di cinque anni ogni centrale a carbone dovrà essere chiusa.
L’accordo, nel suo complesso, invia un messaggio forte a imprese, investitori e cittadini: l’era della dipendenza delle economie dalle fonti fossili di energia è alle spalle, mentre per il futuro l’energia che alimenta la crescita economica potrà essere solo rinnovabile e pulita.  Già nel 2014, il consumo e le emissioni di carbonio legate alla produzione di energia è sceso per la prima volta da decenni.  A scala globale, stiamo vivendo un boom dell’energia solare ed eolica. Negli ultimi anni, il ritmo di crescita delle energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo e di recente industrializzazione è stato superiore a quello dei Paesi industrializzati. Ciò è dovuto principalmente al forte calo del costo di energia solare ed eolica. I prezzi dei moduli solari, per esempio, sono diminuiti del 70 per cento negli ultimi dieci anni. In generale, la dipendenza dalle energie rinnovabili sta diventando una proposta economicamente attraente per le imprese, dal ogni punto di vista. Inoltre l’accordo stimola investimenti per trilioni di dollari sull’adattamento agli effetti dei cambiamenti climatici.
L’inclusione nell’accordo sia dei Paesi sviluppati sia di quelli in via di sviluppo, compresi quelli che basano le loro economie sulla produzione di gas, carbone e petrolio, dimostra una unità di intenti mai vista prima.
In conclusione, possiamo ritenere che il Paris Agreement è un disastro in confronto a quello che avrebbe dovuto essere.  Tuttavia, in confronto a come poteva essere, l’accordo è un risultato insperato, un vero miracolo. Va dato merito alla presidenza francese, in questo sostenuta dalla leadership di Paesi come USA, Cina e India, che è riuscita in questo difficile tentativo di accomodare le richieste e le aspettative contrastanti dei Paesi sviluppati, dei Paesi in via di sviluppo, dei Paesi produttori di petrolio, dei Paesi più vulnerabili, dei Paesi che difendono l’integrità ambientale de processo Onu sul clima.
Di sicuro l’accordo di Parigi ha riconosciuto le esortazioni della comunità scientifica ad affrontare con urgenza il cambiamento climatico. I tre elementi chiave per farlo (mantenere il riscaldamento al di sotto di due gradi; abbandonare i combustibili fossili;  rivedere, ogni cinque anni, gli impegni dei Paesi di riduzione dei propri livelli di emissioni di gas-serra) sono nel testo dell’accordo.
Ora spetta alla società civile, che a Parigi non ha potuto far sentire la propria voce, esigere che i governi attuino le misure e gli obiettivi contenuti nell’accordo e incalzarli se dovessero insistere sul rinascimento del carbone, del petrolio e del gas, e ritardare il processo di de-carbonizzazione. I governi devono essere consapevoli che la protezione del clima e la trasformazione ecologica delle società sono solo possibili in cooperazione con la società civile.