Lo Scenario Mondiale e l’Avvento Della Società Della Conoscenza

Da Smith alla programmazione dell’innovazione. 
Adam Smith nel 1776 scriveva: Una nazione risulterà provvista più o meno bene delle cose necessarie e comode che le occorrono, nella misura in cui sarà maggiore o minore il rapporto tra quel prodotto, ovvero tra ciò che si compra con esso, e la quantità di persone che lo devono consumare. Un tale rapporto viene però regolato, in ogni singola nazione,  da due circostanze distinte: la prima è l’arte, la destrezza e l’intelligenza con cui si esercita il lavoro; la seconda, il rapporto tra gli individui occupati in un lavoro utile e quelli che non lo sono.  Data una particolare situazione del suolo, del clima, e dell’estensione del territorio di una determinata nazione, l’abbondanza o la scarsità delle sue risorse dipendono necessariamente da queste due circostanze.      

Dunque per Smith era questa la ricchezza delle Nazioni, non le riserve di carbone o di petrolio, non le miniere d’oro o i giacimenti di diamanti. Tuttavia queste due “dotazioni” – in particolare la prima – non sono quelle che vengono comunemente conteggiate per calcolare lo sviluppo di un Paese, forse anche perché meno facili da misurare e da calcolare..

Tuttavia se oggi leggiamo quelle parole di Smith è facile capire come quelle ricchezze rappresentano delle capacità che oggi possono essere valutate come attori delle logiche dello sviluppo tecnologico.

Questo sviluppo tecnologico viene chiamato in causa da tutti gli economisti e il ricorso a questa “risorsa” viene spiegata in vari modi, non necessariamente alternativi: come una necessità del capitale per superare delle situazioni di difficoltà o di crisi dello sviluppo che altrimenti avrebbero condotto a condizioni sempre più difficili da sostenere,  allorquando s’intende ridurre un’eventuale crescente pressione dei salari, come nel caso dell’analisi marxista, ma non solo, oppure per comunque superare i momenti di depressione economica durante le varie fasi di un ciclo economico come in Schumpeter, o comunque per superare delle contraddizioni tra domanda e offerta di beni materiali,  ma non solo. ……si potrebbe anche supporre che il ricorso alle logiche dell’innovazione potrebbe costituire anche la risposta ad una domanda di origine e di valore non solo economico quanto piuttosto culturale e sociale. .

In tutte queste situazioni il ricorso a capacità innovative appare una questione che lascia alcuni punti non comprensibili: in primo luogo queste capacità appaiono quando servono, ma dove siano”a magazzino” precedentemente non è chiaro. Forse si potrebbe dare una spiegazione se si rilevasse come la spinta economica rappresenti solo una parte di quella spinta innovativa, essendo l’altra dettata da esigenze di esprimere una domanda essenzialmente culturale o sociale, senza le quali non si potrebbe comprendere la storia e l’essenza dell’umanità. Con il che la sfera dell’innovazione tecnologica si amplia notevolmente, senza che per questo venga meno il rilievo e la specificità economica indotta dai e nei rapporti sociali. Per ora è sufficiente ricordare questa questione che verrà ripresa successivamente.

Data la dimensione economica dell’innovazione si può comprendere come siano necessarie anche delle risorse finanziarie, dei capitali.  Ma questi capitali prima di essere impiegati in nuovi investimenti, devono produrre, in congiunzione con altri “autori”, quelle “novità” che vengono chiamate innovazioni, che solo successivamente consentono di affrontare quegli investimenti che mettono in moto, se tutto va bene, lo sviluppo del sistema economico e sociale. Quali siano, dove siano prima e dove vadano ad attendere dopo, questi altri “autori” non si comprende, come non si comprende perché non operino precedentemente dal momento che  comunque i loro risultati sono tali da consentire l’aumento della competitività delle imprese che li utilizzano e in definitiva, l’aumento della ricchezza delle nazioni. S’innesta a questo punto una questione che implica il rinvio ad altre occasioni e cioè le relazioni – nuove – tra micro e macroeconomia e l’esistenza di una economia finanziaria che ha logiche non eguali a quelle dell’economia reale, ma che ormai stanno alla base del funzionamento dei nuovi modelli di funzionamento dell’economia.

Il sistema dell’innovazione comprende, dunque,  investimenti nel campo della formazione, della ricerca fondamentale, della ricerca applicata, degli investimenti a rischio e infine dei veri e propri investimenti industriali.  Si può comprendere come una valutazione ottimale degli investimenti complessivi in materia di innovazione tecnologica, a sua volta estremamente differenziata e variabile nel tempo e nello spazio, rappresenti di per sè  una capacità certamente non facilmente ottimizzabile. Inoltre tra le innovazioni di processo e le innovazioni di prodotto esistono delle differenze che rendono difficile una considerazione unitaria dei sistemi produttivi essendo i prodotti ottenuti nel primo caso confrontabili con quelli precedenti già esistenti, mentre nel secondo caso il fatto che siano prodotti nuovi non è solo una questione formale ma è tale da rendere differenti le relazioni economiche sottese in termini di costi, profitti, rendimenti, mercati, qualità del lavoro, ecc. Come ha notato Sylos Labini  queste differenze non consentono confronti economici in quanto sarebbe come confrontare le pere con le mele. Questa difficoltà rilevata da Sylos tuttavia è rimasta tale e si inserisce in quelle annotazioni precedenti che lasciano il processo dell’innovazione tecnologica in quel mondo, non a caso, chiamato da Rosemberg  “scatola nera”.

Ma tutto lo sviluppo dei paesi avanzati ormai sembra vincolato agli effetti e alle capacità di attuare innovazioni tecnologiche. Non c’è praticamente nessun economista che possa fare a meno di questo ingrediente, anche se sovente si tende a ridurre il sistema dell’innovazione ai processi informatici o poco più, il che segnala un errore e una limitazione del potenziale strutturale di tale “strumento” e del livello culturale degli autori. Uno “strumento” che deve possedere non solo varie “corde” ma a loro volta, queste corde devono essere calibrate per entrare in assonanza con l’orchestra cioè con le condizioni specifiche di ogni realtà economica e culturale. L’insieme di quelle corde costituisce il Sistema Nazionale dell’Innovazione.

Quello che occorre evidenziare, in questo quadro generale, consiste nel fatto che l’articolazione dell’intervento dell’innovazione è un fenomeno dinamico e che quindi anche le teorie economiche più statiche non possono fare a meno di adattarsi a questa condizione dinamiche e riconoscere il fatto che la sola iniziativa del privato non assicura l’attuazione di un libero mercato né, tanto meno, il superamento delle crisi economiche e sociale e, ancor meno, l’utilizzo ottimale delle risorse disponibili.

L’accettazione di questo concetto è la condizione per comprendere come mai i paesi avanzati si riconoscano in base all’entità delle risorse umane e finanziarie dedicate nei bilanci pubblici e privati alle attività di R&S, un riconoscimento che vale sempre più anche per i paesi cosi detti in via di sviluppo: In molti di questi paesi i bilanci di spesa generale in ricerca  crescono mediamente più di quelli dei paesi avanzati. Ci sono casi come  la Cina dove al 2005 tale quota aveva già raggiunto il 1, 4 % per arrivare al 1,98 % nel 2012 o il caso ancora più clamoroso di una Korea che dal 2,3 % del 2005 è arrivata al 4,3 % nel 2012. Peraltro proprio in quell’area  geopolitica si era verificato il caso del Giappone che per primo aveva elaborato e attuato un percorso di sviluppo basato sull’innovazione tecnologica superando sin dalla fine degli anni ’70 il 2 % del Pil in ricerca.

Questo per segnalare come lo sviluppo economico è retto sempre più dall’innovazione tecnologica e come un tale processo coinvolga pressoché tutti i paesi.

Come già accennato l’investimento in R&S rappresenta l’impegno iniziale dell’intero processo di innovazione, un impegno iniziale senza il quale le fasi successive risulterebbero fortemente condizionate. Questo impegno iniziale come si è visto riguarda principalmente le attività di ricerca che, a loro volta possono essere o meno già correlate alle fasi successive. Tuttavia quella che potrebbe sembrare come un condizione positiva e cioè essere già inizialmente connesse, non è affatto evidente che così sia dal momento che un sistema dell’innovazione che rinunciasse a quelle attività di ricerca cosi dette di base e forse più correttamente “libere”, e come tali non già correlate, perderebbe non solo un contributo di valenza più generale e sociale,  ma di maggiore complessità e produttività anche dal punto di vista economico.

L’ottimizzazione di questa fase – e a maggior ragione dell’intero processo – richiede quindi una analisi congiunta tra quelle che sono le dotazioni interne delle singole economie, le relazioni non tanto attuali ma maggiormente prospettiche con quelle dinamiche dei processi naturali quali quelli demografici, ambientali e sociali, in un intreccio che concorrerà a determinare le condizioni possibili e reali entro le quali la programmazione dell’innovazione dovrà essere progettata e realizzata. In definitiva la programmabilità dell’innovazione implica un raccordo e una coerenza con evoluzioni fondamentali che avvengono comunque nel singolo paese e/o in generale a livelli globali. Entro queste condizioni la programmazione dell’innovazione traduce le nuove potenzialità di questo strumento, ma solleva insieme la questione fondamentale della scelta di quale innovazione attuare. Già attualmente le innovazioni in settori particolari, come quello medico-farmaceutico, hanno richiesto di organizzare un  sistema di controllo pubblico. In una concezione e in una realtà quale quella dell’economia dell’innovazione, un tal sistema di decisione pubblica, richiede di essere completamente costruito ex novo.

Questo è un punto centrale per realizzare, utilizzare e ottimizzare in maniera responsabile lo “strumento” della programmazione dell’innovazione.

Si tratta di un processo che per essere opportunamente valutato e gestito deve essere, infatti,   collegato e analizzato insieme ad altre modificazioni che si vanno consumando, anche queste a livelli generali, come l’attenuazione della pressione demografica, come il rilievo della qualità ambientale, in questo caso da collegare ad una crescente domanda di qualità dello sviluppo incominciando dal possibile superamento delle carestie e delle epidemie, ma arrivando ormai anche ad una crescente domanda di beni culturali. In questa necessaria valutazione dei cambiamenti connessi con la crescita culturale e sociale, occorre aggiungere la complessa analisi dei conseguenti cambiamenti connessi proprio con lo sviluppo dei livelli e della qualità della formazione e del lavoro. Quest’ultima questione apre una dimensione sociale di carattere storica,  cioè il potenziale offerto dall’innovazione ai fini di correggere  – dopo la distribuzione della ricchezza – anche la distribuzione dei ruoli sociali secondo criteri ampiamente e crescentemente determinati da una scelta sociale.

Questa programmabilità dell’innovazione da un lato è ormai una questione tecnicamente fattibile ma è ancora tutta da inventare come capacità di progettare quel futuro che con quello “strumento” viene reso possibile. La prima scelta non consiste nel rifiutare questa ipotesi ma nel decidere su come realizzare e gestire questo “strumento” che altrimenti non verrebbe annullato ma lasciato, con tutto il suo potenziale, in mani estranee.

Questo strumento è, in effetti, attualmente, l’unica ipotesi che consente di affrontare quella logica della distribuzione del ruolo sociale la cui diversità esprime una delle attuali condizioni per l’esistenza dell’attuale modello economico. Mentre sulla dimensione economica della distribuzione della ricchezza prodotta, l’azione politica e sindacala ha introdotto sulle disuguaglianze economiche – pur con alti e bassi – modifiche significative anche attraverso azioni sovente accentuate, sulla seconda questione che definisce l’attuale organizzazione sociale in termini negativi e cioè la distribuzione dei ruoli sociali, i cambiamenti in una direzione “democratica “ non si sono verificati e, anzi i processi di internazionalizzazione hanno accresciute le disuguaglianze. Richiamare la necessità di un impegno sociale nei processi di programmazione dell’innovazione apre, nei confronti di tale questione, delle logiche del tutto antitetiche a quelle attualmente in opera.

La sola componente economica dei percorsi dell’innovazione danno un visione di questa storia molto parziale poiché esclude dimensioni e valenze di prevalente valore culturale e sociale.  La scienza e la ricerca scientifica hanno una loro autonoma elaborazione sin dai tempi dei Greci e anche prima. Ma le stesse osservazioni possono essere fatte pensando alla tecnologia, dalla ruota o dalle prime armi per la caccia. Questa relazione tre scienza e tecnologia per molti secoli non è stata una realtà essendo la riflessione scientifica – non ancora raggiunta dalla riflessione galileiana – una dimensione della cultura politica e filosofica di quei tempi. Quando la scienza potrà conquistarsi una sua legittimazione – siamo ai secoli attuali – la tecnologia, a sua volta, diventa progressivamente il frutto di una esperienza tramandata dal mondo degli artigiani, ma ormai “arricchita” e trasformata da un apporto scientifico crescente.

Si è discusso e si discute tuttora sui rapporti tra le due culture e se per una innovazione tecnologica viene prima la capacità interpretativa delle leggi che regolano i comportamenti della natura o se è la tecnologica che accumulando le sue conoscenze  si rende indipendente dal contributo della scienza, se è la tecnologie che fornisce strumenti necessari per indagare i fenomeni naturali o se è la ricerca scientifica che apre la strada alla ricerca applicate e, quindi, all’innovazione tecnologica e alle conseguenti problematiche economiche.

Queste questioni tuttavia, non possono superare l’interesse per le logiche che si aprono con la programmazione dell’innovazione tecnologica e con la lettura del sistema dell’innovazione. Una lettura che deve comprendere una questione centrale e  cioè che con il sistema dell’accumulo delle conoscenze scientifiche si modifica non solo il sistema di lettura della realtà fisica ma anche il potenziale d’intervento dell’innovazione tecnologica….

Questo ampliamento del ruolo del sistema dell’innovazione porta con sé e accentua altri cambiamenti di rilievo:

– 1 la questione della scelta di quale innovazione mettere in campo sino a ieri non si poneva essendo una questione se non teorica, certamente occasionale molto specifica e nei confronti della quale le alternative appartenevano in buona misura a mondi e a interessi distanti e diversi. La programmazione dell’innovazione rompe questi limiti, e la sua organizzazione diventa un nuovo perno dell’organizzazione istituzionale e sociale…

– 2 la difesa degli interessi e della sicurezza dei singoli rispetto ai rischi compresi nell’esercizio delle nuove tecnologie è attualmente limitata prevalentemente al settore medico-farmacologico e per il quale non a caso si erano predisposte strutture di “garanzia”. Con la programmabilità dell’innovazione si devono organizzare e definire delle nuove strutture, tutte da costruire, in quanto non dedicate ad un oggetto o ad una specifica realizzazione tecnologica ma a prodotti in buona misura ancora da realizzare.

– 3 sarebbe del tutto limitativo evitare di comprendere gli effetti della diffusione/penetrazione della cultura scientifica nei più generali comportamenti sociali, incominciando da quelli etici a quelli sociali, da quelli individuali a quelli collettivi. I confronti internazionali attualmente possibili sembrano indicare una incompatibilità tra quella cultura e le manifestazioni più diffuse di qualunquismo etico e sociale.

LO SCENARIO NAZIONALE E  IL MEZZOGIORNO

La situazione del nostro Paese….

Tenuto presente quanto indicato in precedenza relativamente al peso crescente assunto dal fenomeno dell’ innovazione tecnologica, si può comprendere come il nostro declino non abbia trovato ufficialmente ancora una diagnosi convincente dal momento che nessuna delle riforme o presunte tali, delle quali si è parlato e si parla, affronta le questioni espresse in queste note.

E’ dalla fine degli anni ’80 che il nostro paese accumula dei ritardi economici evidenziati da vari indicatori incominciando dalle variazioni del PIL: tra il 1996 e il 2014 l’Italia perde rispetto alla media dei paesi dell’EU19, quasi 18 punti percentuali di Pil pro capite, un po’ meno di un punto percentuale all’anno.

L’andamento di questo indicatore di sintesi trova conferma naturalmente in una serie di altri indicatori che qualificano quel declino del nostro PIL in termini di minore produttività misurata come variazione del Pil per ora lavorata, di perdita di quote delle esportazioni mondiali maggiori rispetto a quelle dei paesi nostri “vicini” europei, di mancato aggiornamento tecnologico per minori investimenti e risorse umane in ricerca: V Grafici 1, 2, e 3.  Tutto questo senza sostanziali discontinuità sino ai tempi attuali a partire dalla conclusione del “trentennio” d’oro cioè dalla seconda metà degli anni ’80..

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Presentazione standard1

Presentazione standard2

In questi quadro è paradigmatico il trattamento riservato all’Università e alle strutture pubbliche di ricerca come espressione dei limiti culturali della nostra politica economica e che traducono gli stessi limiti di una classe imprenditoriale – non a caso con i più bassi livelli di scolarizzazione rispetto a quanto si rileva nei paesi avanzati – con esigenze e ottiche aziendali di breve periodo, con conduzioni aziendali dove prevale la cultura famigliare, ecc. Non è, certo, casuale se in una ricerca di AlmaLaurea si evidenzia come il titolo di studio dei manager italiani arriva nel 28% dei casi alla scuola dell’obbligo a fronte di una percentuale del 12 % come media dei paesi UE15.  Tuttavia l’errore non consiste solo in queste caratteristiche, ma nel fatto che la politica faccia di questa classe sociale un oggetto di conservazione piuttosto che di trasformazione e di sviluppo. Si tratta, in definitiva,  di sviluppare delle analisi certamente scomode ma che non possono essere sostituite con tentativi di conservazione di una realtà che dovrebbe, invece, essere oggetto di profondi cambiamenti. Cercare di nascondere dietro alla crisi internazionale le nostre specifiche carenze fa parte di quell’“oscuramento” politico in atto, con l’aggravante di scaricare sul lavoro i conseguenti intereventi, chiamandoli “riforme”; interventi che, mentre lasciano inalterati i nostri veri vincoli, aggravano le condizioni sociali e la stessa capacità di sviluppare una domanda interna e di respingere la concorrenza estera. L’alleanza tra le responsabilità politiche e questa classe dirigente rende certamente vincente la conseguente proposta di politica economica; purtroppo tutto questo fa parte del declino del paese, ma non è certo quello che occorre, come si è visto, per farci uscire dalla nostra specifica crisi. Pensare di recuperare una capacità di guida della qualità del nostro sviluppo, anche ipotizzando percorsi e scorciatoie istituzionali, non fa che accentuare il distacco, già elevato, tra politica e responsabilità politiche.

Attribuire cosi le nostre difficoltà a responsabilità esogene e affermare che il nostro paese sta uscendo dalla crisi non perché è la crisi internazionale che ha rallenta i suoi effetti negativi, come si nota a livello internazionale, ma perché occorre “avere fiducia”, è una azione pericolosa,  senza che – e questa è la conseguenza di maggior preoccupazione – nessuno ponga i necessari interrogativi come premesse per individuare finalmente una terapia appropriata. Il quadro “dialettico” negativo entro il quale si colloca al presente il nostro Paese, tende così non solo a perpetuarsi ma ad aggravarsi dal momento che l’accumulo dei nostri limiti non lascia inalterate ma aumenta le difficoltà per lo sviluppo del Paese, con andamenti nel tempo quali quelli indicati dai grafici precedenti. Compito della politica dovrebbe essere quello di coltivare un consenso non attraverso la conservazione ma con una effettiva trasformazione e, in primis, con la riforma delle nostre strutture amministrative e industriali, cogliendo nel contempo le sollecitazioni per una cambiamento delle qualità di uno sviluppo che attualmente potrebbe basarsi, come accennato, sull’incontro con la società della conoscenza.

Queste annotazioni solo per arrivare ad una constatazione, in genere non espressa: il sistema economico italiano si è collocato da molto tempo lungo un crinale in discesa dal quale non è in grado di risalire .se non impostando una trasformazione per la quale, ad ora, non esistono nemmeno i presupposti poiché sono contrari proprio quegli interessi economici che dovrebbero essere gli attori delle necessarie riforme. Una situazione che rispecchia quelle politiche di tipo prekeynesiane, ripetendo quei traguardi critici che si pensavano superati da tempo e che, infatti non sono attualmente di fatto perseguiti dai paesi sviluppati – compresi quelli a parole liberisti –  e, ovviamente, dai paesi in via di sviluppo, ma che da noi si pretenderebbe di applicare anche nei confronti di situazioni come quelle del nostro Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno
In questa discussione la questione Mezzogiorno non interviene per essere trattata dal punto di vista dei suoi ulteriori ritardi economici, sociali e strutturali rispetto al resto del Paese. Per questi aspetti è doveroso rinviare all’ultimo rapporto della Svimez che, da un lato ci ricorda come tra il 2007 e il 2014 il Mezzogiorno ha avuto un calo del Pil  di 12,7 punti rispetto a quello registrato nel nord, un andamento che “incorpora una più sfavorevole andamento della domanda interna, tanto per i consumi quanto per gli investimenti.”

Gli anni passati in questo errore sono ormai troppi per poter essere affrontati con qualche aggiustamento delle politiche economiche nazionali.. Per affrontare situazioni del tutto pesanti e gravi quale quella che si registra nel nostro Mezzogiorno, occorre mettere in atto una inversione di rotta incominciando da riflessioni ed analisi fuori dagli schemi in uso e uscendo da concezioni ormai prive di una valenza qualsiasi.

Tanto per incominciare s’intende, infatti, sostenere che il superamento del declino del nostro paese non potrà partire dal nord  ma dovrà trovare almeno una leva nel mezzogiorno.

Questa apparentemente paradossale indicazione nasce dalla semplice constatazione che in questi anni il Mezzogiorno non è certo stato al centro delle politiche d’intervento nazionali che ha, invece,  concentrato la sua attenzione al Nord. Il risultato finale nettamente negativo non deriva solo dagli errori nell’analisi e nelle terapie adottate – come accennato in precedenza – ma anche nel fatto,  essenziale, della sollecitazione e delle politiche espresse sostanzialmente dalle strutture economiche presenti in quella parte del Paese. Se apparentemente la preesistenza di realtà economiche dovrebbe essere considerata come un positivo presupposto, tuttavia questa considerazione si inverte quando occorre prendere atto che quella presenza non è in grado di elaborare una politica positiva ma è portatrice di una opposizione molto forte – vincente – contro ogni proposta  o strategia politico-economica diversa.

Si apre cosi una considerazione paradossale e cioè che potrebbe essere più agevole sviluppare una politica di sviluppo del Mezzogiorno partendo dagli interessi di quell’area ma che possono essere positivi per il Paese nel suo complesso. Esistono in quell’area altri ostacoli, ben noti, ma diversi e non necessariamente tali da essere pregiudizialmente contrari alle politiche indicate. Naturalmente la questione Mezzogiorno non può più essere affrontata in una ottica esclusivamente nazionale dal momento che il suo confine con il Mediterraneo lo rende necessariamente attore di una processo di enorme rilevanza per tutta l’Europa e non solo. Questa condizione non rappresenta solo una responsabilità internazionale, ma anche una opportunità strategica da coniugare con una politica di innovazione ambientale, culturale, energetica, ecc., che oltre a coinvolgere tutta l’area del Mediterraneo, rappresenta anche quel rinnovamento richiesto per tutte le strutture produttive e per i servizi del Paese. Già queste prime indicazioni implicano la messa in opera di politiche d’intervento. Politiche che affrontano certamente le dimensioni dello sviluppo economico ma unitamente a quelli sociali, alla distribuzione per arrivare, o essere accompagnati, da accordi e azioni in campo culturale, ambientale, sociale allargati anche ai paesi del Mediterraneo.

Queste annotazioni devono essere sviluppate attraverso la costituzione iniziale di gruppi studio in grado di approfondire le prime linee d’azione e di sviluppare in parallelo con una azione di convergenza di competenze specifiche, le proposte progettuali specifiche, di collegamenti inizialmente culturali verso le aree da coinvolgere. Il riferimento a livelli formali istituzionali potrà seguire e poi accompagnare questa prime operazioni di definizione progettuale, anche in questo caso superando così quelli che attualmente si evidenziano come i limiti gravi di una politica il cui o.d.g. è fatto di cronache, certamente ineliminabili, ma nel contempo troppo retrospettive. L’ottica inadeguata fa parte di quella storia negativa e per uscirne occorre allungare lo sguardo. L’azione che deve essere svolta dall’intervento pubblico per realizzare la “leva Mezzogiorno” non corrisponde, quindi, alla creazione di un generico fondo dove possano trovare sbocco le logiche economiche tradizionali, ma deve essere concepita come la creazione di quelle capacità di interloquire con una propria progettualità, con l’orizzonte geopolitico del Mediterraneo e con una visione della qualità dello sviluppo basata sulla creazione degli strumenti della democrazia e dei valori di una società progressista che ha tra le sue regole quella di essere una società eticamente e operativamente aperta.

Anche a questi fini la dimensione culturale scientifica di un progetto generale gioca un ruolo del tutto coerente e necessario.

Sono queste le linee generali di un possibile progetto di sviluppo del Paese e del Mezzogiorno non più considerati come realtà differenti, così come si vorrebbe considerare la società della conoscenza non come una ipotesi più o meno astratta, ma come un riferimento necessario e reale.

Sarebbe auspicabile aprire su queste questioni un dibattito, con contributi critici e approfondimenti, dove anche la natura di questo dibattito dovrebbe rappresentare una modalità in qualche misura nuova e aperta.