Cibo e democrazia

Cibo e democrazia*

di Fabrizio Rufo

*tratto dal numero 23/24 del settembre 2015 “Il cibo e (è) l’uomo. Viaggio in un mondo di contraddizioni“, della Rivista Scienza & Società

 

Nel 1862 Feuerbach pubblica Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. In questo lavoro, il filosofo tedesco si sofferma sui condizionamenti naturali dell’essere umano, partendo dalla consapevolezza dell’unità psicofisica dell’individuo. Più in generale, l’obiettivo di questa riflessione è il passaggio dalla mera speculazione etico-politica alla necessità di risolvere i problemi relativi alla sussistenza umana: “La fame e la sete abbattono non solo il vigore fisico ma anche quello spirituale e morale dell’uomo, lo privano della sua umanità, della sua intelligenza e della conoscenza”. L’idea che guida questo saggio è che se si vogliono migliorare le condizioni spirituali di un popolo, bisogna innanzitutto migliorarne le condizioni materiali:

La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliorare il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia1

A partire dal primo conflitto mondiale e, successivamente, con la seconda guerra mondiale, questa dimensione biopolitica dell’alimentazione si afferma definitivamente. Il costante aumento delle produzioni agricole determina una progressiva riduzione dei costi per l’alimentazione che consente la possibilità di assicurare cibo in abbondanza a tutta la popolazione. Questa nuova natura dell’alimentazione nella società dei consumi di massa ha forti punti di somiglianza con le dinamiche sociali e antropologiche tipiche della contemporaneità. Come ha scritto Leonardo Paggi:

L’alimentazione rappresenta un tema di estrema importanza per comprendere quella paradossale doppia dinamica dello stato di popolazione europeo verso il campo e lo stato sociale che ho cercato di mettere in luce. Bisognerà arrivare alla fine degli anni cinquanta perché il cibo cessi di essere in Europa il punto di riferimento essenziale, se non esclusivo, nella determinazione dello standard of living su scala di massa. Esso svolge quindi fino al 1945 un ruolo assolutamente centrale nella determinazione degli equilibri mondiali. Ed è fin troppo noto, perché vi si debba insistere, il ruolo dirimente, e imperiale, che svolge nelle due guerre mondiali l’agricoltura americana per quanto riguarda la determinazione dell’esito finale del conflitto. La seconda guerra mondiale rappresenta per le strutture agricole dell’Europa uno stress da cui non si riprenderanno. Antichi equilibri entrano ora definitivamente in crisi, dando poi luogo a un processo di rapidissima trasformazione che all’inizio degli anni sessanta porta, sul continente, al collasso generalizzato di una plurisecolare civiltà contadina2.

Il diritto al cibo e a un’alimentazione che non sia più solo semplice sussistenza diventa quindi un elemento centrale del più generale ampliamento della sfera dei diritti di cittadinanza. L’utilizzazione della categoria di cittadinanza si confronta con gli elementi costitutivi della proposta analitica formulata dal sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall nelle conferenze tenute a Cambridge nel 1949:

La cittadinanza è uno status conferito a tutti coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che posseggono questo status sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status. (…). La spinta in avanti lungo il sentiero così tracciato è una spinta verso un maggior grado di uguaglianza, un arricchimento del materiale di cui è fatto lo status e un aumento del numero delle persone a cui è conferito questo status3

Lo schema elaborato da Marshall individua tre classi di diritti a cui corrispondono tre periodi fondativi della cittadinanza: i diritti civili nel XVIII secolo, i diritti politici nel XIX, i diritti sociali nel XX. I diritti civili includono le libertà personali, di fede, di pensiero, di parola; quelli politici la possibilità di partecipare all’esercizio del potere politico; quelli sociali le varie tipologie del welfare. La tesi di fondo di Marshall si basa sull’idea che la cittadinanza è la condizione necessaria dell’esistenza politica di un individuo e in quanto tale è una prerogativa conferita a tutti coloro che sono membri a pieno titolo della comunità politica. In questo modo i diritti di cittadinanza significano per i singoli titolari innesto e legittimazione ufficiale di un complesso di aspettative, la cui soddisfazione e, soprattutto, il cui contenuto dipende da un insieme di variabili e per lo Stato significano un obbligo verso la società. In questo senso il diritto al cibo richiama le tesi di Michael Walzer secondo cui:

ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. […] Di conseguenza, in una società giusta sono date per scontate eguali libertà di cittadinanza; i diritti garantiti dalla giustizia non possono essere oggetto né della contrattazione politica, né del calcolo degli interessi sociali4

In altri termini c’è l’affermazione che il ruolo dello Stato nella sicurezza non si può ridurre soltanto all’intervento nei confronti della violenza fisica. Un tale concetto appare inaccettabile e ogni società civile – come pure la comunità internazionale – difficilmente potrebbe sopravvivere se la legge e l’ordine pubblico fossero garantiti solo con l’uso della forza, anche perché la persistenza delle disuguaglianze sociali potrebbe costantemente portare a disordini crescenti. Da molto tempo, però, il concetto di sicurezza è stato sviluppato in nuove direzioni e ha coinvolto nuovi temi e soggetti. In particolare dalla sicurezza delle nazioni si è giunti alla sicurezza di gruppi e di individui e parallelamente dalla sicurezza delle nazioni si è giunti a quella del sistema internazionale e dell’ambiente fisico sopranazionale fino alla biosfera. La stessa responsabilità politica per la garanzia della sicurezza o per vigilare su questi “concetti di sicurezza” è stata anch’essa estesa. Viene diffusa in tutte le direzioni: dagli Stati nazionali verso l’alto (le istituzioni internazionali), verso il basso (il governo regionale o locale), e orizzontalmente: verso le organizzazioni non governative, l’opinione pubblica e la stampa, nonché verso le forze astratte della natura o del mercato5.

Il linguaggio della sicurezza ha acquisito inoltre un significato più esteso attraverso l’esperienza dello stato sociale. Questo comprende le attività collettive o pubbliche atte a promuovere un livello superiore di salute, a ridurre e ad affrontare i rischi di malattia, a sostenere i cittadini nel campo della disoccupazione, delle condizioni di maternità e di invecchiamento, e a rendere accessibile a tutti l’istruzione. Contemporaneamente, però, al catalogo delle sicurezze necessarie (e dei diritti da acquisire) sono stati aggiunti negli ultimi anni molti elementi nuovi: soprattutto la salute, l’acqua, l’aria respirabile e gli alimenti. La centralità di questi elementi nelle dinamiche politiche odierne è dimostrato dal fatto che le recenti sommosse popolari lungo l’arco del Mediterraneo hanno avuto nell’improvvisa scarsità di generi alimentari e nel rialzo dei prezzi il proprio detonatore. Mentre, per simmetria, negli USA l’acquisizione del maxi-allevamento suino Smithfield da parte dei cinesi è stata gestita dai militari del comitato sugli investimenti stranieri, increduli che il target del fondo sovrano di Pechino fosse davvero il più grande allevamento di maiali del pianeta.

Questa declinazione del concetto di sicurezza si confronta con le forme assunte dalla globalizzazione che hanno definito il progressivo definirsi di un quadro culturale incentrato esclusivamente sul concetto di “libertà negativa” che ha assunto il mercato e l’accettazione acritica di una sua “innocente”, capacità autoregolativa, come riferimento tipizzante, dimenticando come nella realtà esso sia governato da poteri forti e distorsivi. Le distorsioni di questa visione della società si stanno mostrando in tutta la loro evidenza. I fenomeni di concentrazione che si stanno verificando nei settori strategici dell’economia, a partire da quello alimentare, le forme neocorporative e neopopuliste, aggirano gli stessi tentativi di spiegazione e ricomposizione, e sembrano confermare la crescente incongruenza tra modelli teorici e struttura politica di fronte alle modalità con cui oggi l’insieme dei poteri si trasformano e permeano le varie articolazioni della società.

La pesante operazione di revisionismo culturale alla quale assistiamo da alcuni decenni, tende a rimuovere il ruolo svolto dal moderno universalismo, individuato come possibile anello debole del rapporto tra Stato e società civile. In opposizione, trovano reale spazio di manovra forme di riorganizzazione dei processi di modernizzazione/inclusione incentrate esclusivamente sull’incontro tra la metaeconomia delle capacità autoregolanti del mercato e la riduzione degli spazi e degli strumenti propri dello Stato democratico di diritto, utilizzando cioè elementi classici del premoderno che sottovalutano o rimuovono ogni visione multidimensionale della società e dell’essere umano.

La potenza ideologica del neoliberismo ha posto in discussione l’idea stessa di bene pubblico, e la relazione tra individuo e collettività che nella democrazia contemporanea si è progressivamente attuata attraverso la mediazione delle istituzioni pubbliche e dello Stato. Il nucleo del ragionamento rischia così di essere ricondotto a una concezione retriva e storicamente datata, dove le connessioni tra autonomia, uguaglianza, responsabilità si basano su un’idea d’individuo quale soggetto determinato e quindi limitato e limitabile nelle sue libertà individuali. L’illusione che la grande crisi scoppiata nel 2008 portasse all’implosione di questo modello per sue contraddizioni intrinseche e ci consegnasse automaticamente un nuovo sistema di valori fondato sull’equità, non si è realizzata perché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi di governo della società e di creazione di ricchezza, di concezione dei rapporti sociali, rimane inarticolato e non riesce a attirare una mobilitazione di massa:

L’imprintig fa riapparire le idee neo-liberali come l’unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi… la nascita di un nuovo paradigma di meccanismi economici e rapporti sociali non può essere data per inevitabile: è un fatto di battaglia politico-culturale6.

In una prospettiva alternativa, la disuguaglianza deve quindi essere vista come un fatto sociale totalizzante che investe le basi del vivere comune, come del resto aveva intuito lo stesso Adam Smith: il primo a sintetizzare il criterio di razionalità economica e a individuare le enormi potenzialità nascoste dietro il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita il quale vide con favore una serie di interventi pubblici sul tessuto economico7. Sbaglia quindi chi pensa di poter spiegare la riproduzione sociale soltanto con l’istinto del guadagno, anche quando parliamo di cibo entrano in gioco fattori multidimensionali come la crescita del capitale umano che possono rappresentare una concreta possibilità per molti di un effettivo miglioramento delle proprie condizioni di vita. Per esempio, politiche in grado di favorire stili di vita sani e/o di avviare produzioni ecologicamente sostenibili sono politiche che non possono essere ricondotte alla sola sfera del profitto, ma si configurano anche come forme di un riscatto sociale nel quale soprattutto la qualità della vita è il paradigma culturale di riferimento.

La ricerca di nuovi equilibri è resa più difficile da un clima di generale riconsiderazione dei problemi della giustizia e in particolare delle politiche ridistributive che impedisce una visione multidimensionale del concetto di sviluppo, sempre più identificato o con il Prodotto Nazionale Lordo o con l’aumento dei redditi individuali, o con l’industrializzazione, o con il progresso tecnologico, o con la modernizzazione della società, e non viene, invece, interpretato come un processo di sintesi di tutti questi elementi per l’espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani. In altre parole, per usare un concetto caro ad Amartya Sen, per valutare le opportunità e le scelte non solo nei termini della loro utilità ma anche nei termini della quantità di libertà che esse producono.

Occorre tenere presente che il superamento del nesso cittadinanza-territorialità, implicito nell’idea di etica globale nei termini proposti da Sen, rinvia al superamento dell’organizzazione dell’economia mondiale che ha ancora oggi nel nocciolo duro di alcuni stati, in primis gli Stati Uniti, il suo reale filtro politico-istituzionale nella gestione di un rapporto estremamente complesso come è quello del mercato mondiale. Questo apre un ventaglio tematico di enorme portata che esula dall’economia di questo lavoro. Mi limito a richiamare l’attenzione sul fatto che l’insieme dei fenomeni sui quali si concentrano e operano gli studiosi e le istituzioni internazionali è relativo a un pugno di nazioni e che nel complesso le diseguaglianze a livello mondiale continuano a persistere in gran parte del pianeta e ancora oggi, a essere messo in discussione, è l’esercizio dei più elementari diritti umani in primo luogo quello a una razione giornaliera di cibo in grado di assicurare il giusto apporto calorico e proteico. La denutrizione di circa un miliardo di persone, la morte per malattie come la malaria e la dissenteria, la recrudescenza di malattie come la tubercolosi causano la morte di milioni di esseri umani. Un vero e proprio genocidio dovuto in larga parte non alla mancanza di risorse ma alla ineguaglianza nella loro distribuzione, all’insufficienza dei programmi educativi e sanitari e a morali dogmatiche cui è attribuibile il mancato decollo di politiche che favoriscano il controllo delle nascite e la possibilità di frenare il dilagare dell’Aids attraverso sistemi di contraccezione e profilattici.

Nello stesso tempo, l’acuirsi della crisi delle consolidate forme di integrazione reciproca tra politica di massa e mercato, sulle quali si erano basati i sistemi sociali almeno dalla fine del secondo conflitto mondiale sulla scia delle forme assunte dal processo di globalizzazione, stanno determinando mutamenti di tipo antropologico che si scontrano con un’insufficienza degli schemi sui quali si è strutturata la società industriale inadeguati per aggiornare uno statuto epistemologico che riguarda anche il tema dell’alimentazione su di un quadro più complesso e reso più indefinito da una capacità acquisitiva e tecnologicamente utilizzabile senza precedenti nella storia dell’umanità, e la vicenda degli Ogm è in questo senso indicativa. Non tenere nella giusta considerazione questi temi, oltre a contribuire all’opacizzazione della stessa immagine della scienza, finisce per generare un clima di diffidenza se non di vera e propria critica antiscientifica che spesso sfocia in una più generale critica della modernità. Queste interpretazioni, in voga anche ai nostri giorni, nella loro accattivante capacità di semplificazione, sono il tentativo illusorio di sottrarci al dovere di affrontare il difficile compito di definire un’immagine adeguata della struttura delle interconnessioni di una società sempre più complessa. Dipingere la scienza come uno strumento di alienazione e sopraffazione, cercare rifugio nell’appello alla Natura, fa parte di quegli atteggiamenti che Marx definiva come “robinsonate8. Questo tipo di critica si configura, nella realtà, come un puro rifiuto di tutta la cultura: una posizione che non aiuta o, peggio, contrasta la possibilità di affrontare il fondamentale problema di una scienza più adatta e attenta ai bisogni degli esseri umani.

È da questo crescente dualismo, che trova una centralità e si sviluppa il tema del rapporto tra cibo e democrazia il quale si qualifica sempre di più nella sua dimensione biopolitica e, in quanto tale, richiede di definire una serie di interventi che non possono ridursi solo alla distribuzione delle risorse, ma che pone il tema della democrazia su scala planetaria. Questo significa riconsegnare un ruolo politco a istituzioni sovranazionali come l’OMS e la FAO. Senza questo riferimento ogni criterio di allocazione di risorse è sterile e con esso gli obiettivi che s’intendono per tale via conseguire.

 

Note

1 L. Feuerbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, Editori Riuniti, Roma, 1997.

2 L. Paggi, L’origine biopolitica del welfare state dallo stato di popolazione alla ‘Nazionalizzazione del consumo’, relazione presentata al Convegno Sissco 9-10 novembre 2000.

3 T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Utet, Torino, 1976.

4 M. Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano, 1987.

5 E. Rothschild, “What is Security?”, in Daedalus, vol. 125, n. 3, 1995, pp. 53-89.

6 S. Biasco, “La crisi e la sinistra europea”, in Le Nuove Ragioni del Socialismo, 7 agosto 2010.

7 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Utet, Torino, 2006.

8 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1993, p. 170.

 

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*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo