L’anno che verrà

È molto interessante la lettura delle risposte che i bambini dalla seconda elementare della scuola “Calvino” di Reggio Emilia hanno dato alle domande dei loro professori sul modo in cui immaginano /desiderano che sarà il 2016 (“La lettura”, 20 dicembre 2015). È una specie di Io speriamo che me la cavo. Sessanta temi di bambini napoletani, il bel libro di Marcello D’Orta pubblicato da Mondadori nel 1994.

Le risposte sono molto significative e rappresentative della percezione del presente e del modo in cui si immagina, si auspica, si vorrebbe che fosse il domani. Ne cito tre di bambini del maestro Giuseppe Caliceti.

Il realistico pessimismo dell’approccio è il filo conduttore che lega molte risposte. Anche se non mancano aspetti più fiduciosi dell’immediato domani.

Una prima, risposta che definirei di elementare buon senso, è questa: “Per me e gli altri bambini del mondo il 2016 sarà un anno bellissimo, per me, perché adesso io ho sette anni e nel 2016, quando compirò gli anni, avrò otto anni e diventerò più grande. Invece per i grandi, per i vecchi, sarà un anno più brutto perché diventeranno tutti più vecchi”.

Per questo bambino che ha una visione ottimistica del futuro, la felicità dipende dall’età perché andando avanti negli anni si diventa più grandi sino a quando, però, la vecchiaia alimenterà la tristezza del tempo andato. Forse perché vive a Reggio Emilia,la cui provincia è al 26° posto delle 110 provincie italiane nella classifica del “sole 24 ore”, e non sembra toccato dai problemi economici, sociali ed ambientali che caratterizzano la restante gran parte del Paese.

Un’altra riguarda più direttamente Napoli e non pochi napoletani:“Secondo me, se il Napoli vincerà lo scudetto, sarà un anno bellissimo perché io e mio papà e mia mamma, anche se abitiamo qui, siamo di Napoli e tifiamo Napoli”. È bravo e coinvolgente questo bambino che ignora che nell’Emilia, nella quale vive, il Napoli ha lasciato sui campi di calcio tutti i punti che ora lo vedrebbero primissimo in classifica. È tipico della generosità dei napoletani. Soprattutto di quelli che emigrati fuori regione guardano con speranza ad un futuro migliore e per i quali, credenti e non, il loro è – come per la brava attivista indiana Arundhati Roy- “il dio delle piccole cose”.

Ma quella sulla quale mi vorrei soffermare è proprio una di quelle caratterizzate da un realistico pessimismo:  “Per me non sarà tanto bello perché forse ci sarà un terremoto e i terremoti a me fanno paura”. Ma chi te lo ha detto che ci saranno i terremoti? domanda il maestro. “Nessuno” è la risposta. “Ma io dico così perché poi ci sono sempre dei terremoti”. Ed è proprio così. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre dei terremoti. L’importante è saperlo. Se in Italia lo sapessero non solo i geologi, i sismologi e la Protezione Civile, ma ne avessero consapevolezza gli amministratori della cosa pubblica a tutti i livelli territoriali dai comuni al territorio nazionale, la paura di quel bambino potrebbe essere vinta spiegandogli che con i terremoti si può convivere prevenendone i danni materiali con tutte le azioni che la legge impone e la tecnologia consente di realizzare.

Sapere significa conosceree comunicare. Non solo: è anche importante saper comunicare perché i destinatari dell’informazione abbiano un’esatta percezione del rischio e del modo in cui comportarsi per evitarne i danni.

C’è un proverbio il quale dice che il sazio non crede al digiuno. Vale a dire che chi non ha sofferto e non soffre la fame non capisce quanto dolore vi sia in chi quotidianamente patisce questa sofferenza. È la cognizione del dolore. Più correttamente è la percezione del dolore. Percezione che ha solo chi lo ha patito o lo patisce. È un discorso analogo a quello che si può fare circa i rischi di origine umana o naturale.

Mi induce a questa riflessione un’indagine  sulla percezione dei rischi commissionata dall’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr(Irpi-Cnr) alla Doxa nell’ambito della Convenzione finanziata dal Dipartimento della protezione civile. L’obiettivo della indagine era il tentativo di sondare la percezione dei rischi di eventi calamitosi tra gli italiani al fine di impostare migliori strategie di sensibilizzazione e informazione.

Perché, come ha commentato Fausto Guzzetti, direttore dell’Irpi-Cnr, “Se è importante conoscere dove avvengono gli eventi calamitosi e i livelli di rischio reali, è importante anche capire la percezione che la popolazione ha di tali rischi, per dare strumenti di conoscenza e consapevolezza attraverso una corretta e adeguata informazione”. L’analisi indica che tale percezione è elevata e in crescita, ma non sempre in funzione del rischio reale, quanto piuttosto della sua comunicazione mediatica.

Il campione intervistato tra gennaio e febbraio 2013 era costituito da 3.126 persone; il risultato è stato che gli italiani mettono al primo posto tra i rischi percepiti quello derivante dall’inquinamento ambientale (il 67% si sente molto o abbastanza esposto); seguono quelli da incidenti stradali (55%), rischio sismico (45%), da alluvioni (24%), frane (17%) ed eruzione vulcanica (12%).

Basta leggere quotidianamente un giornale, ascoltare giornali radio e telegiornali per comprendere le motivazioni di questa graduatoria dei rischi temuti. Ma ancora più importante tra i risultati dell’indagine è il variare della percezione tra le regioni di appartenenza degli intervistati. Infatti, quando a questi è stato chiesto di dire quanto si sentivano esposti al manifestarsi di un rischio, è risultato che l’esposizione al rischio sismico è percepita come molto o abbastanza elevata in Campania (66%), Marche (65%), Emilia-Romagna (64%), Sicilia (63%), Calabria e Abruzzo (61%). E ancora più significativo è il dato secondo il quale la percezione di rischio sismico molto elevato è notevolmente cresciuta rispetto al 2012 in Emilia (30%, con un aumento del 19%), Calabria (33%, +6%) e Abruzzo (26%, +15%), evidentemente, soprattutto con riguardo alla Emilia Romagna,  a seguito degli eventi degli ultimi anni. Al contrario, le regioni nelle quali l’esposizione è ritenuta minore sono Trentino-Alto Adige (2%), Lombardia (3%) e Sardegna (4%).

È facile comprendere, ed è un’ulteriore sottolineatura delle motivazioni alla base della percezione, che per quanto riguarda il rischio di eruzione vulcanica l’esposizione è percepita soprattutto nelle due regioni dove sono presenti vulcani attivi: il Vesuvio e i Campi Flegrei in Campania (51%) e Etna ed Eolie in Sicilia (30%).

Diversa è la percezione del rischio derivante dal dissesto idrogeologico. Il rischio frane è considerato molto o abbastanza elevato soprattutto in Valle d’Aosta (56%), Calabria (42%), Campania (27%) e Liguria (24%), con una percezione di rischio aumentata in Valle d’Aosta (+33%), Calabria (+2%), Marche (+8%), e Sardegna (+6%). Mentre l’esposizione al rischio di alluvioni è percepitasoprattutto in Liguria (49%), Calabria (46%) e Valle d’Aosta (44%), con aumenti significativi in Calabria (+7%) e Sardegna (+7%).

Nel complesso il 41% degli italiani ritiene che frane e alluvioni possano minacciare la propria incolumità: il 66% in Liguria, il 63% in Calabria, il 54% in Campania, il 48% in Valle d’Aosta e il 46% in Veneto.

Le responsabilità nella frequenza di frane e alluvioni vengono attribuite dal 28% del campione alla cattiva gestione del territorio, dal 25% all’ abusivismo edilizio, dal 16% all’abbandono del territorio e dai mutamenti climatici e dal 9% alle caratteristiche geomorfologiche del territorio. Ma mentre i cambiamenti climatici sono considerati responsabili maggiori in Trentino-Alto Adige (45%) e Valle d’Aosta (30%), l’abusivismo edilizio è in cima alle risposte dei cittadini di Puglia (38%), Sicilia (33%), Campania (28%) e Calabria (26%).

Un altro utile confronto proposto dalla indagine Doxa è quello tra le risposte sulla percezione del rischio e i dati forniti dal catalogo storico degli eventi geo-idrologici di oltre un millennio, realizzato da Dipartimento della protezione civile e l’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr. Le informazioni riguardano 1.676 frane avvenute fra l’843 e il 2012, in seguito alle quali si sono registrati oltre 17.500 tra morti, feriti e dispersi in almeno 1.450 località, e 1.346 inondazioni verificatesi fra il 589 e il 2012, con più di 42.000 vittime in 1.040 località.

Naturalmente più ci avviciniamo ai giorni nostri più i dati sono completi e attendibili. E così sappiamo che fra il 1960 e il 2012 tutte le 20 regioni italiane hanno subito eventi fatali: 541 inondazioni in 451 località di 388 Comuni che hanno causato 1.760 vittime (762 morti, 67 dispersi, 931 feriti), e 812 frane in 747 località di 536 Comuni con 5.368 vittime (3.413 morti -compresi i 1.917 del  disastro del Vajont del 1963- 14 dispersi, 1.941 feriti).

Riflettendo su questi dati e su quelli prima ricordati circa la percezione del rischio, la domanda che legittimamente bisogna porsi è come sia possibile che con queste conoscenze ogni anno si registrino in Italia vittime e danni materiali in seguito ad un disastro di origine naturale, soprattutto in seguito a frane e alluvioni.

Ed è legittima la domanda anche in considerazione della crescente consapevolezza della popolazione della prevedibilità di molti di questi eventi (come dimostra la preoccupazione del bambino di Reggio Emilia) e della consistente possibilità della prevenzione dei danni da essi provocati. “la catastrofe era prevedibile e si poteva evitare” è uno dei modi in cui ricorrentemente la stampa e l’opinione pubblica dichiarano la loro rabbia l’indomani di un disastro.

Tuttavia, per quanto prevedibili ed evitabili le catastrofi si ripropongono abbastanza puntualmente contraddicendo clamorosamente il pensiero di Benedetto Croce secondo il quale “ogni evento nuovo ritrova gli uomini ignoranti e li costringe a pensare. E poiché gli eventi nuovi sono continui, gli uomini passano di continuo dall’ignoranza al sapere”. Così dovrebbe essere, ma troppo spesso, pur avendo la possibilità di promozione nella conoscenza ipotizzata da Croce, gli uomini sogliono restare nell’ignoranza. La realtà è che ogni evento naturale, per quanto vecchio, appare sempre agli uomini che potrebbero gestirne le dinamiche, come un evento nuovo, ma lungi dal costringerli a pensare, li lascia in uno stato di costante ignoranza o di diabolica perseveranza nell’errore.

Molte sventure -quelle che vengono chiamate “calamità naturali”- potrebbero avere proporzioni meno o per nulla disastrose se le “premonizioni” fossero attentamente valutate e la memoria fosse utilmente esercitata.

Bisogna dunque, “conoscere” e “non dimenticare”. Ancora oggi la percezione e l’approccio ai fenomeni naturali calamitosi non è completamente cambiato. Paradossalmente, come dimostrano i dati dell’indagine Doxa, il cambiamento é stato più radicale nella sensibilità popolare, meno in quella colta o sedicente colta. La quale é stata spiazzata dalla rapidità con cui l’opinione pubblica é passata dalla considerazione della catastrofe come “linguaggio di Dio” a quella dell’evento “annunciato” che in quanto tale “si poteva evitare” e, quindi, al concetto del “piove, governo ladro”. È stata spiazzata perché questa consapevolezza delle classi popolari ha messo a nudo le ignoranze, le inadempienze, le colpe degli amministratori della cosa pubblica.

E non solo gli intellettuali o gli uomini di “cultura”; in modo ancora più devastante ciò avviene per gli uomini politici e, peggio ancora, per quelli di  governo. È proprio rifacendosi ad una constatazione di questo tipo che Italo Calvino, anni fa nel presentare una nuova edizione di manuali di Geografia della Zanichelli, ebbe a dire che l’ignoranza del paese che governano é una caratteristica che gli uomini politici italiani si trascinano dal Risorgimento. Auspicando perciò lo studio obbligatorio della geografia per ministri e sottosegretari. La risposta a queste osservazioni di elementare buon senso è stata la riduzione delle ore e delle “aree” di insegnamento di questa disciplina nella scuola e nell’Università.