Ecologia della città

La rivoluzione ha una data, ma in realtà era in atto da almeno duecento anni. Parliamo del progressivo inurbamento della popolazione terrestre che dall’inizio del XXI secolo per oltre il 50% tende a vivere in città invertendo la tendenza all’insediamento rurale che l’ha caratterizzata dalla sua comparsa sulla Terra ad oggi.

Dicevo che la “rivoluzione” era in atto da almeno duecento anni perché è con lo scoppio della rivoluzione industriale che la popolazione, sempre più numerosa, ha lasciato la campagna attratta dal lavoro nelle miniere e nelle industrie intorno alle quali nascevano le città moderne.

La caratteristica di questo fenomeno è la sua irreversibilità per cui mi sembra realistico  prevedere che quando, alla fine del secolo,  la popolazione terrestre potrebbe toccare stabilizzandovisi i 10 miliardi di abitanti, il 75% vivrà in città: quanti oggi costituiscono la popolazione del pianeta. Poiché è anche abbastanza universalmente riconosciuto che nelle città si vive male tanto che si richiede di ricostruire rimodellare le città a misura d’uomo, ci si può legittimamente chiedere se questa tendenza sia pericolosa ed eventualmente da contrastare.

 

Quale scenario?

La individuazione di scenari per il futuro è una delle pratiche più diffuse dagli anni Novanta: soprattutto per quelli che si possono definire gli scenari della sostenibilità. Da quando il concetto di sostenibilità, con riguardo alle modalità di realizzazione di uno “sviluppo sostenibile” è stato ufficialmente coniato dalla Commissione Brundtland (Our common future, 1987), praticamente tutto viene misurato in termini di maggiore o minore, realizzabile o irrealizzabile sostenibilità.

Anche con specifico riguardo alla città si è fatto ricorso a questo concetto e si discute di città sostenibile. Forse il termine è in questo caso meno appropriato che in altri e più opportuno sarebbe parlare di città vivibile. Fatto sta che proprio con riguardo alla città gli scenari più ricorrenti sono di tipo, come suol dirsi, “apocalittico”.

E’ un sintomo negativo e positivo ad un tempo: negativo perché conferma che non si riesce a immaginare il futuro se non in termini catastrofistici; positivo perché si comincia a guardare con diversa attenzione alla città che è l’ ambiente di vita umana per eccellenza.

Evidentemente, in una società che comincia a guardare con maggiore attenzione soprattutto ai problemi degli ambienti di vita e che prende atto del fatto che l’ambiente di vita più diffuso per la maggior parte dell’umanità é, e ancor più sarà, la città si pone anche il problema di individuare gli elementi di sostenibilità urbana.  In questa ottica la sostenibilità ambientale della città viene individuata nella “capacità di soddisfare i bisogni dei suoi abitanti nei limiti posti dalla necessità di mantenere intatte l’integrità e produttività dei sistemi ambientali da cui la stessa sua vita dipende”.

Come é noto, il ventesimo è stato il secolo della grande esplosione urbana e, nello stesso tempo, dell’esplosione di gravi problemi propri della città contemporanea cresciuta in modo smisurato e non programmato. Perciò oggi, in seguito alle aumentate capacità umane di “governare” il mondo fisico, si va sempre più incontro a processi di urbanizzazione generale. Processi che provocano la grande espansione della città sul territorio che in alcune aree della Terra coinvolge vastissime porzioni di spazio chiamate megalopoli secondo la definizione del geografo Jean Gottmann (1957). Ma esistono limiti  fisici e funzionali, superati i quali la crescita della città può portare alla sua stessa morte. C’è il rischio, cioè, che si passi da megalopoli a necropoli, secondo quanto paventato dal sociologo urbanista Lewis Mumford. Mumford ha sempre osservato con grande preoccupazione la incontrollata crescita urbana. E, tra l’altro, ha scritto che “questa civiltà metropolitana racchiude in sé le forze che cancelleranno ogni traccia della sua esistenza; e far piani per il futuro senza tener conto di questo fatto equivale a mostrare uno dei tipici sintomi di quel distacco dalla realtà che caratterizza l’attuale sfruttamento dei mezzi scientifici di sterminio e di distruzione di massa.”

 

Il gigantismo urbano

La tendenza ad affollarsi in città che sono diventate sempre più grandi e anche per questo meno vivibili è stata innanzitutto tipica dei Paesi industrializzati del primo mondo. Poi lo è diventata anche per i Paesi del Terzo mondo e in via di sviluppo.

Chi vive in città grandi sa che la congestione al suo interno è una caratteristica evidente e che la qualità della vita è scadente. Perché i suoi abitanti devono, fra l’altro, fare i conti con la disponibilità di spazio; con la mobilità in questo spazio; con la disponibilità di acqua; con la disponibilità di energia; con la produzione e smaltimento di rifiuti; con la qualità degli ambienti di vita domestica e di lavoro.

Il superamento dei limiti fisici dello sviluppo urbano, la congestione che ne é derivata, il progressivo scadimento della qualità della vita, sono i motivi che inducono a frenare la corsa al gigantismo urbano nei paesi economicamente più sviluppati.

Qui la tendenza del recente passato si è andata progressivamente invertendo  con la manifestazione di un fenomeno del tutto opposto che, per le sue caratteristiche, prende il nome di deurbanizzazione, termine con il quale si indica il calo di popolazione nelle grandi città a vantaggio di città medie e piccole.  La popolazione, cioè, vive pur sempre in città, ma tende ad abbandonare quelle “giganti” nelle quali, appunto, si registrano cali di residenti. La molla è essenzialmente il desiderio di vivere in città “a misura d’uomo” il cui peso sia “sostenibile” dall’ambiente nel quale la città si sviluppa.

Città a misura d’uomo è un’espressione già chiara di per sé.  Significa che da più parti, in tutte quelle città nelle quali la vita quotidiana è difficile, si sente l’esigenza di ricostruire o, meglio, di riorganizzare la città perché diventi “a misura” delle esigenze umane. Si sente, cioè, l’esigenza di evitare che megalopoli degeneri in necropoli e che la città, che è la più elevata forma di costruzione umana, muoia.

Può sembrare paradossale che l’uomo che ha ideato e costruito la città come prodotto massimo del suo intervento nell’ambiente, abbia realizzato una cosa che non è a sua misura. Ma è certamente vero che molte città contemporanee ideate, costruite e cresciute in modo “frettoloso” sotto l’unica spinta magari della speculazione edilizia, sono state concepite (quando sono frutto di un piano) e realizzate in modo “disumano”. Ma, nella maggior parte dei casi, se le città devono essere “ripensate” per essere più aderenti alle esigenze dei loro abitanti, ciò avviene perché quando le città sono state costruite, quelle esigenze erano diverse. Diverse dal punto di vista quantitativo e da quello qualitativo. Quantitativamente perché la popolazione era numericamente inferiore a quella attuale; dal punto di vista qualitativo perché i bisogni sono mutati.

 

La città come ecosistema

La conclusione che si può trarre dalle considerazioni sin qui fatte sulla base dei dati riportati e, ancor più, dalla conoscenza degli “scenari urbani” ipotizzabili per il XXI secolo; quella conclusione è che la città si configura ormai sempre più come un ecosistema.

Una visione di questo tipo consente di lavorare a nuove ipotesi di crescita e di impatti negativi, ma anche di individuare nuove, “buone”, pratiche urbane capaci di ridurne il peso sull’ambiente locale e planetario.

La “somiglianza” dell’ecosistema urbano con gli ecosistemi naturali è abbastanza agevolmente dimostrabile. La città, infatti, è una costruzione dell’uomo che per funzionare ha bisogno di essere alimentata da continui flussi di materia e di energia dal territorio che la circonda. Per questo motivo, appunto, essa si può configurare come un ecosistema. Come l’equivalente, cioè, di un insieme di popolazioni vegetali e animali e delle relazioni che queste hanno fra loro e con le componenti fisico-energetiche dell’ambiente in cui vivono.

Queste relazioni negli ecosistemi naturali si concretizzano in flussi di materia, energia, informazioni che, collegando i vari elementi del sistema, ne realizzano l’organizzazione, e ne determinano il grado di stabilità.

Nell’ecosistema urbano questi flussi sono costituiti da cibo, carburanti, energia, materiali, merci, provenienti dall’esterno, senza l’apporto dei quali la popolazione di esseri umani al suo interno non potrebbe vivere.

Il modo in cui la città si alimenta di materia ed energia in ingresso, le metabolizza e le restituisce all’esterno sotto forma di rifiuti ed emissioni inquinanti, attesta il ruolo fortemente parassitario della città e l’impatto pericolosamente negativo sull’ambiente: in termini di consumo di risorse non rinnovabili, di produzione di rifiuti e di emissione di sostanze inquinanti.

Questo è il motivo per cui l’ecosistema urbano è non  solo oggetto di studio, ma anche motivo di preoccupazione.

L’ incalzante tendenza all’inurbamento che caratterizza questo scenario, particolarmente accelerata e sregolata nei paesi in via di sviluppo, è presumibile abbia un impatto negativo sulla qualità dell’ambiente globale. Infatti se la città è tuttora un vero e proprio laboratorio per la produzione di inquinamento, l’ecosistema urbano avrà un ruolo sempre più rilevante nel progressivo degrado del pianeta.

Si capisce, dunque, perché siano giusti non solo i motivi della preoccupazione, ma, ancor più, il quesito se si possa ridurre il parassitismo della città. Cioè se si possa, ridurre il deficit tra flussi di materia ed energia in ingresso e consumo degli stessi non solo risparmiando sui consumi e riducendo gli sprechi, ma addirittura trasformando la città anche in produttrice di energia e materia. E, ancora, se si possa contenere la produzione di rifiuti e abbattere le emissioni inquinanti. In poche parole, se sia realistica la realizzazione di una città il più possibile “fondata su se stessa”, cioè capace di valorizzare le risorse locali e utilizzarle in modo integrato.

 

 

Ridurre il parassitismo

L’affermazione che la città, nella sua progressiva espansione e modificazione, si è andata sempre più caratterizzando come un organismo parassitario è facilmente dimostrabile. Lo scriveva già nel 1988 Odum  (E.P. Odum, Basi di ecologia, Piccin, Padova 1988) che ha definito la città moderna un vero “parassita dell’ambiente rurale dato che, con l’attuale gestione, la città produce poco o niente cibo o altri materiali organici, non purifica l’aria e ricicla poco o niente dell’acqua o dei materiali inorganici”

In particolare:

1) in città entrano materia ed energia (sotto forma di beni di consumo, prodotti alimentari, e svariate fonti di energia) in flussi la cui quantità dipende dalla quantità di popolazione;  dalla sua composizione per età; dalla dimensione delle famiglie; dai livelli di reddito e dalla propensione al consumo; dalle funzioni della città

2) tra i flussi di energia la percentuale più rilevante è costituita dai derivati del petrolio utilizzati soprattutto nei trasporti, nella climatizzazione degli ambienti,  nell’uso di energia elettrica

3) la città metabolizza energia e materia e produce rifiuti e sostanze inquinanti tra le quali hanno un ruolo importante  i gas di serra alla base dei temuti mutamenti climatici

Quest’ultima considerazione consente di avere una visione sempre più ampia, perfino planetaria, del territorio da cui provengono i flussi di materiali ed energia che nutrono l’ecosistema urbano e che riceve i residui in uscita. A differenza della città antica, la città contemporanea costituisce soprattutto un sistema in costante squilibrio nei confronti di un ambiente esterno che diventa sempre più esteso – sino a coincidere con l’intero pianeta – dal quale, appunto, attinge materiali ed energia.

Se questo, sempre più ampio, è l’ambiente di entrata, cioè il territorio che fornisce cibo, acqua, energia e quant’altro necessario per la vita degli abitanti, anche l’ambiente di uscita, costituito dai luoghi in cui si scaricano i rifiuti solidi, liquidi e gassosi, è in continua espansione e coincide, praticamente, con l’intero pianeta.

Dunque il quesito che proponevo non è ozioso e provo a dare qualche risposta procedendo per gradi.

Innanzitutto la città, la città contemporanea in modo particolare, è sede di un enorme giacimento di materia: la “materia grigia” che, come è noto, è la metafora dell’intelligenza. Ciò non significa che solo in città essa esiste, ma vuol dire che in città trova le potenziali, maggiori applicazioni. In due campi: la politica (in modo specifico la politica della città) e la ricerca scientifica (con le sue applicazioni tecnologiche).

L’una, la prima, evidentemente orienta l’altra e se lo fa sotto la spinta dell’obiettivo di costruire una città ordinata, pulita, fornitrice di servizi adeguati ai bisogni dei suoi abitanti, una città, cioè, vivibile e il cui peso sia sostenibile per l’ambiente, può indirizzare la ricerca in modo da fornire gli elementi idonei a dare risposte positive al quesito di partenza.

Ciò può avvenire, per esempio, agendo nel campo dell’abbattimento del peso (ma anche della produzione) dei Rifiuti Solidi Urbani e della riduzione delle emissioni inquinanti, gas-serra compresi.

Questo risultato si può raggiungere con la realizzazione almeno di politiche di smaltimento dei rifiuti, politiche dei trasporti, politiche di climatizzazione degli ambienti, politiche di gestione delle risorse (acqua soprattutto).

La politica dei RSU può avere contemporaneamente più risultati. Essa, infatti, promuovendo ed esaltando  la raccolta differenziata e il riciclaggio di questi rifiuti nelle loro varie componenti merceologiche, da una parte deve porsi l’obiettivo di mandarne in discarica sempre minori quantità, dall’altra consente alla città di riproporsi come ulteriore produttrice di materia. Di una materia, per così dire, meno immateriale della materia grigia di cui prima dicevo e più tangibile. E’ quella costituita dalle materie prime seconde, vale a dire da quei materiali di vetro, ferro, plastica, alluminio, carta, cartone, stracci eccetera, che, una volta “rifiutati”, possono rientrare una seconda volta -e più di una seconda volta- in ulteriori cicli produttivi. (pur senza ignorare i problemi di costi e competitività che coinvolgono iniziative del genere). Non solo: molti di questi rifiuti ad elevato contenuto calorico e a basso o nullo contenuto di acqua, possono essere “termodistrutti” in impianti (che oggi malgrado fiere opposizioni, possono avere un impatto per nulla negativo su ambiente e salute umana) i quali, ad un tempo, bruciano rifiuti e producono energia. Infine una componente interessante dei rifiuti può essere trasformata in compost, fertilizzante per l’agricoltura.

Ma la città non è solo produttrice di rifiuti. Essa, in modo particolare le più grandi e caotiche, nel primo come negli altri mondi, nei paesi ricchi come nei paesi poveri, è anche una grande fabbrica di inquinamento: dell’acqua e, soprattutto, dell’aria. Contribuendo, in questo secondo caso, in modo particolarmente rilevante all’accumulo dei gas-serra nell’atmosfera.

Politiche dei trasporti urbani e politiche di idonea climatizzazione degli ambienti costruiti con la possibile diffusione dei “tetti fotovoltaici”, sono il contributo che la “materia grigia” può dare alla soluzione di questi altri due problemi alla base dello squilibrato bilancio ambientale dell’ecosistema urbano.

Per rendersi conto dell’importanza di queste politiche, basta ricordare che, mediamente, il 30% circa di consumi petroliferi (30-35 milioni di tonnellate di equivalente petrolio) oggi viene bruciato dai mezzi di trasporto. Quindi politiche della mobilità urbana capaci di scoraggiare l’uso del mezzo privato su gomma incrementando il trasporto pubblico su ferro e tutto il “trasporto alternativo” oggi realizzabile via cavo attraverso la cablatura di molti servizi urbani, potrebbero drasticamente ridurre e abbattere la presenza dannosissima dei residui di questa combustione nell’atmosfera.

In aggiunta è necessario ricordare che un altro 30% circa del totale dei consumi petroliferi di un Paese come l’Italia viene bruciato per climatizzare artificialmente ambienti (che finiscono con essere troppo caldi di inverno e troppo freddi d’estate) i quali potrebbero molto più economicamente (in termini di bolletta petrolifera e in termini di danno ambientale) essere climatizzati con il ricorso all’energia solare e all’uso di tecnologie dell’architettura e materiali capaci di ridurre la dispersione termica degli edifici.

Tutto ciò potrebbe enormemente ridurre la insostenibilità attuale della città e contribuire a rendere l’ecosistema urbano meno squilibrato e, quindi, più “sostenibile”.