Francesco Compagna, chi era costui?

Una persona che a venti anni ne incontra un’altra (di quaranta) nelle aule universitarie e dal suo insegnamento immediatamente riceve una scossa tale da dare una svolta che poi sarebbe risultata decisiva alla sua vita; quella persona non può non ricordare l’altra sempre, solo o soprattutto come “il professore”.

È questo essenzialmente il mio ricordo di Francesco Compagna. Anche se per il modo intenso in cui l’ho conosciuto e frequentato ne ricordo molti aspetti che possono anche far parte dell’aneddotica, se si vuole, ma che, a mio parere, sono tali da dare a 35 anni dalla sua scomparsa e a 50 da quel primo incontro, un ricordo più preciso. Più umano se fosse possibile per una persona che della carica umana aveva fatto la sua caratteristica principale.

 

Francesco Compagna? Chi era costui? E Manlio Rossi Doria? E Pasquale Saraceno? E Gerardo Chiaromonte? O, addirittura, Giustino Fortunato e Carlo Maranelli? Domande di questo tipo potrebbero dare risposte sconfortanti. Non solo perché indicative della ignoranza di una parte della storia contemporanea del nostro Paese, ma ancor più perché indicative della ignoranza di alcuni importanti attori della questione meridionale; di soggetti che l’hanno proposta in “nuovi termini” rendendosi protagonisti di un meridionalismo che – non solo storicizzando – si può ben definire illuminato.

Molti, dopo la sua scomparsa nel luglio del 1982 pochi giorni prima del 61° compleanno, hanno ricordato i vari aspetti di Compagna: lo studioso geniale del Mezzogiorno, il giornalista brillante, il politico appassionato, l’uomo di governo con profondo senso dello Stato. Io che gli sono stato allievo, collaboratore e collega, tra le tante che Compagna ha impersonato, ricordo con maggiore emozione la figura di docente universitario.

Perciò nel tentativo di ricordarle tutte queste varie figure, mi piace cominciare da quella che, ripeto, mi sembra essere stata la più importante e più pregnante.

Il professore e il maestro

“Mi sorprende come si possa scrivere anche una sola riga senza sapere in anticipo che verrà pagata”.

Nella avversione a questa affermazione (che Rosellina Balbi in scherzosa polemica voleva appendere al muro in una stanza di “Nord e Sud”) sta almeno una delle spiegazioni della forza di attrazione di Francesco Compagna. Compagna era un teorico del volontariato: chi gli stava vicino, a “Nord e Sud” o all’Università, doveva sapere (e lo sapeva) che non avrebbe partecipato a lucrose ricerche, non avrebbe percorso rapide carriere universitarie. Compagna offriva occasioni: di studio, di dibattito, di accrescimento culturale e, quindi, per chi sapeva “approfittarne” anche trampolini di lancio. Una scorsa alle firme almeno dei primi 10-15 anni di “Nord e Sud” e uno sguardo alla collocazione attuale degli autori delle stesse nel mondo del giornalismo, della cultura, della ricerca, del lavoro in senso più ampio, può essere molto illuminante in proposito. Dunque, se molti giovani (e meno giovani) erano vicini a Compagna, soprattutto negli anni Sessanta; se molti, prescindendo dalla propria ideologia, hanno votato per lui, almeno in occasione della sua prima candidatura alla Camera dei Deputati, ciò avveniva soprattutto per affetto e stima verso il “professore”; per il suo sex-appeal, come egli stesso si compiaceva di definirlo con una punta di vanità.

Era, quella di professore, una figura che avrei voluto non avesse mai lasciato, nemmeno per le glorie e le soddisfazioni politiche alle quali, pure, chiaramente aspirava. Tanto che quando la signora Compagna – la baronessa – un giorno, a “Nord e Sud”, fece una sorta di censimento per sondare l’opinione degli amici più intimi circa l’inizio della possibile carriera politica del professore (allora non c’era stata ancora l’offerta di La Malfa, ma si discuteva di un possibile collegio senatoriale offerto da Mancini) io mi espressi negativamente, sottolineando che il sacrificio dell’Università non valeva una carriera politica.

Compagna – libero docente e, all’inizio degli anni sessanta, professore incaricato di Geografia politica ed economica alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli – era un professore rivoluzionario. Tale era da considerare, chi, a quella data, si comportava come lui nell’Università. Già il tema delle lezioni – Napoli e la questione meridionale – era un fatto anomalo nell’Università. Era, poi, ancor più rivoluzionario per la maggior parte dei geografi italiani i quali, a quell’epoca, preferivano, di regola, seguire la strada del racconto della distribuzione delle risorse sulla superficie terrestre. Ma, ci diceva sùbito Compagna, come la geografia non era solo quella descrittiva, così i geografi non erano solo quelli che descrivevano. Ce ne erano altri, specialmente in Francia, ma anche in Italia. Sopra tutti Pierre George e Lucio Gambi alla cui lettura introduceva i suoi studenti e i suoi allievi.

La geografia è stata la croce e la delizia della sua carriera universitaria. I geografi togati dell’epoca (trenta anni fa), Colamonico imperante, proprio per i temi che Compagna trattava e per il modo in cui li trattava, almeno per dieci anni non lo hanno considerato uno di loro ma, tutt’al più (con una punta di ironia mista ad invidia) un brillante giornalista. La geografia o, meglio, l’aspirazione ad una cattedra di Geografia politica ed economica, è stata motivo di uno dei pochissimi “compromessi” che gli conosco: la stesura di una breve monografia sull’olivo in Calabria, nel tentativo di variegare la sua produzione accentrata soprattutto sui temi – ritenuti non sufficientemente geografici o trattati in modo non geografico- della questione meridionale, di Napoli, delle città.

Ma gli andò male. Mi diede la notizia dicendomi: “Leò, a quell’olivo ci hanno impiccati”. La cattedra. poi, la vinse nel concorso immediatamente successivo con gli stessi titoli, ma con una commissione diversa nella quale i due Accademici dei Lincei presenti -Elio Migliorini e Aldo Sestini- sentirono il bisogno di sottolineare il loro dissenso, una presa di distanza, con una relazione di minoranza, in contrapposizionea quella, dei “giovani” Lucio Gambi, Francesco Barbieri e Aldo Pecora, che aveva messo un giornalista in cattedra.

Era un “rivoluzionario” Compagna, soprattutto per il modo di essere presente nell’Università, di trattare gli studenti, di mettere a loro disposizione non solo quello che sapeva, ma quello che aveva. Scienze politiche, allora, non esisteva se non come corso di laurea di Giurisprudenza; figurarsi se esistevano gli Istituti. Eppure, per chi voleva frequentarlo, vi era un ricco istituto di Geografia: era la sede di “Nord e Sud”, la rivista che nel 1954 aveva fondato con Vittorio De Capariis e Renato Giordano. Qui, almeno per tutti gli anni Sessanta, molte decine di studenti sono passati per preparare le loro tesi e tesine o solo per leggere un libro o sfogliare una rivista. Tra una cosa e l’altra potevano “vedere e sentire” De Caprariis e Giuseppe Galasso, Aiello e Golino e qualche volta Manlio Rossi Doria o Augusto Graziani.

Il mio esame di Geografia politica ed economica fu “brillante”. L’interesse per i temi trattati da Compagna mi indusse a chiedergli la tesi. Ma come fare? Nei due anni di università che avevo alle spalle mi era sempre sembrata una impresa difficile e scoraggiante rintracciare e avvicinare un professore. Certo mai avrei pensato che un professore sarebbe venuto da me.

Compagna lo incontrai in Facoltà una decina di giorni dopo l’esame; mi venne incontro e salutandomi cordialmente come se ci fossimo conosciuti da sempre, mi disse: “avete fatto un bell’esame; volete fare la tesi?”. Gli risposi che ci avevo pensato e mi faceva piacere. Mi sembrava un fatto incredibile. Ma non sarei arrivato ad immaginare che incontrandoci ancora, all’ascensore, tre mesi dopo – era passata l’estate – mi avrebbe detto: ‘Leone, ho pensato quest’estate alla vostra tesi; venite a “Nord e Sud” e ne parliamo’.

Oggi il racconto di queste cose può non fare effetto; ma eravamo nel 1962 – sei anni prima del ’68 – e queste cose non erano proprio all’ordine del giorno. È per questo che il “sessantotto” lo prese come un affronto personale. Su queste cose poneva sùbito la mozione degli affetti: “io la contestazione non me la merito”. Ma non fu mai contestato dagli studenti ed era chiaro che il ’68 non era contro di lui. Fu, però, l’inizio della fine di un ciclo; l’inizio di un altro. In quello stesso 1968 fu eletto alla Camera dei deputati per il Partito repubblicano.

Poi venne il 1972: tante situazioni intaccate dal 1968 si incattivirono;la disgraziata elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica (ricordo la gioia fanciullesca con la quale si era compiaciuto sette anni prima per la elezione di Saragat e la sconfitta di Leone) creò molti malumori a “Nord e Sud”.

Dopo l’ultima votazione Compagna tornò stanco e stressato da Roma, ma anche molto amareggiato. Probabilmente pochi conoscono tutti i motivi di quell’amarezza. Ne parlammo sotto l’arco della porta che collegava le due stanze di “Nord e Sud” a via Carducci; forse solo Antonio Duva – suo preziosissimo e discreto collaboratore per le cose politiche – sentì senza ascoltare. Mi chiese che aria tirava; Rosellina che diceva. Gli risposi che, certo, c’era parecchio malumore in parecchi e che la Balbi era molto irritata. “Leò – mi disse – credete che per me è stato facile votare con Lauro per Leone?” La disciplina di partito aveva potuto e dovuto più di un decennio di lotte “certificate” in articoli ed editoriali su “Nord e Sud”.

Era la fine di un ciclo durato dieci anni. Poi venne l’abbandono dell’insegnamento attivo perché riteneva impossibile far bene il deputato e il professore. Ma ciò non gli impedì di lavorare attivamente per costituire, insieme soprattutto con Giuseppe Cuomo che poi ne sarebbe diventato il Preside, la Facoltà di Scienze Politiche. E non gli ha mai impedito di partecipare con assiduità ai Consigli di Facoltà e di far sentire la sua presenza in quella Facoltà la ha poi dedicato al suo nome e al ricordo del suo insegnamento l’Istituto di geografia.

Professore, ma non solo

Giornalista, certamente. Amava molto sottolinearlo; anche ostentarlo. Quando fu eletto alla Camera dei Deputati gli piaceva ricordare che, invitato a dichiarare la sua professione, si era professato giornalista, mettendo in secondo piano, con una punta di civetteria, la docenza universitaria. Come giornalista il suo prodotto più noto è la rivista “Nord e Sud”. Essendo, questo che sto sviluppando, un ricordo – anche molto intimista – e non una biografia, non starò a dire di “Nord e Sud”, della sua nascita, del passaggio da Mondadori alla Esi di Claudio Andalò, dell’ambiente politico (quello della Napoli laurina) della sua nascita e prima crescita, delle modificazioni “ambientali” successive. Sono tutte situazioni datate, in corrispondenza delle quali venivano, anch’essi datati, i comportamenti e gli atteggiamenti: il civile e costruttivo confronto con la quasi coetanea rivista “Cronache meridionali” di Gaetano Macchiaroli; la comune, ferma lotta contro il laurismo; la lotta aperta alla speculazione edilizia (ricordo la raccolta di firme – del tutto inconsueta per “Nord e Sud”- contro lo scempio che si stava perpetrando di Palazzo Roccella); la vigilante, critica attenzione nei confronti de “Il Mattino”; le talora laceranti posizioni in politica estera con particolare riguardo alle crisi del vicino Oriente.

Piuttosto mi piace ricordare “Nord e Sud” come istituzione; come luogo di incontro, di dibattito e di scontro; come Istituto di geografia; come Istituto di studi e ricerche per il cui funzionamento soprattutto Antonio Rao si batteva molto. Tutte caratteristiche trasversali nel tempo e nello spazio: da via Carducci a via dei Mille, ancora a via Carducci, a via Chiatamone dove si è andata via via spostando la sede della rivista insieme con la ESI suo editore.

Quando vi misi piede per la prima volta, “Nord e Sud” ruotava intorno a tre personaggi fissi: Compagna, sempre; nel pomeriggio Rosellina Balbi che al mattino era  “bottegaia” (come il professore la definiva, irritandola non poco) nel paterno negozio di abbigliamento a via Roma e Renato Cappa al mattino impegnato nelle pubbliche relazioni dell’Italsider. Erano Perry Mason, Della Street e Paul Drake, secondo una delle tante felici battute di Compagna.

L’apertura di “Nord e Sud” era preceduta da un rituale quasi fisso: una puntatina alla libreria Macchiaroli a via Carducci (Compagna faceva due chiacchiere con Gaetano e sfogliava qualche libro, consigliato anche da Alfredo Profeta) ed un’altra al bar Marino a via dei Mille dove non sapeva se cedere al piacere di un caffé-caffé o all’obbligo di un caffè hag meno dannoso per le sue coronarie già provate da un infarto. La mattinata cominciava con la lettura dei giornali nella sua stanza: guai a chi tentava di “sverginarli” prima di lui. Poi correggeva tesi di laurea, dando ai suoi studenti più bravi l’emozione di una telefonata di commento. E scriveva: articoli, saggi e quelli che definiva i dischi delle sue conferenze. Li “incideva” su fogli piccoli e a terzine: periodi brevi e sfalsati nel foglio in modo da essere di più agevole lettura.

Al pomeriggio cambiavano persone e atmosfera. Stanca, dopo una mattinata di lavoro al suo negozio di via Roma (senza succursali, dove qualche volta noi più giovani e squattrinati ci consentivamo il lusso di una cravatta importante più bella di quelle di Marinella), ma sempre dolce come il suo nome e serena, quando l’emicrania non la tormentava, arrivava Rosellina Balbi. Costituiva con Cappa, la redazione fissa. Faceva la cucina, cioè leggeva, correggeva e non di rado riscriveva i pezzi che avrebbero costituito il prossimo numero della rivista. Correggeva le bozze e “litigava” al telefono con Armando, Sorrentino e Solimene, i Tre moschettieri de La Buona Stampa, la già ottima tipografia in cui si stampava “Nord e Sud”. Rosellina era la sindacalista del gruppo giovani e Compagna i sindacalisti non li ha mai gran che sopportati. Ma Rosellina era un’altra cosa. Paul Drake, Renato Cappa, era anche a “Nord e Sud”, l’addetto alle pubbliche relazioni. Curava i rapporti con il prossimo: dal telegramma alla telefonata all’amabile intrattenimento. E non mancava di spezzare una lancia in favore dell’Italsider, in un ambiente, industrialista, sì, ma, specialmente dal finire degli anni Sessanta, sensibile ai problemi dell’ambiente.

Negli anni iniziali della nostra “iniziazione” noi più giovani non frequentavamo il pomeriggio. Non perché non vi fossimo ammessi, ma perché, obiettivamente – almeno per quanto mi riguarda – l’ambiente era più impegnativo, dava un po’ di soggezione. Erano le ore di Ernesto Mazzetti, nostro già affermato coetaneo, assistente del professore e giornalista professionista arrivato. Erano le ore di Giuseppe Galasso che, però, l’insegnamento universitario portava spesso in Sardegna. Erano le ore nelle quali, più o meno regolarmente, passavano per “Nord e Sud” Ninni Mozzillo, Antonio Vitiello, Domenico De Masi, Tarcisio Amato, altre persone che ricordavamo all’inizio, e tutti i giornalisti che venendo a Napoli per trasmettere le loro corrispondenze sulla Napoli laurina e sulle possibilità di uscita democratica da quella situazione, venivano ad informarsi in una delle roccaforti della opposizione.

Spesso Compagna ci invitava a partecipare a questi incontri, perché dicessimo anche la nostra. Qualcuno lo faceva con scioltezza e sicurezza: Cesare De Seta e Antonio Rao, per esempio; altri, come il sottoscritto partecipavano timidamente silenziosi. Qualche volta gli incontri avvenivano nell’albergo in cui il giornalista – ricordo l’incontro con Piero Ottone – alloggiava. Compagna arrivava sempre dopo di noi. Ci dovevamo fare le ossa. Mentre discutevamo col giornalista, sopraggiungeva, un po’ ciabattando, e diceva la sua.

Erano anche le ore di Percy Allum. Con lui Compagna amava pure discutere o “litigare”; ma era una persona che certo non gli era molto simpatica. Non sopportava il suo sedersi con “i piedi in aria”. E non lo sopportava non tanto per eccesso di sensibilità verso questi atteggiamenti, ma perché il fatto che essi provenissero da un inglese gli sconvolgeva la sua idea di Inghilterra patria di altri inglesi e di altri atteggiamenti.

Sempre al pomeriggio c’era la componente lucana seria e compassata sempre aperta alla discussione impegnata, raramente alla risata.

Di tanto in tanto passava qualcuna di quelle che compagna chiamava “le bizoche di Italia Nostra”. Aveva il difetto di forzare certi atteggiamenti per antipatie personali o per il gusto della battuta. Perciò lui che aveva fondato e dirigeva una rivista dalle cui fila erano usciti praticamente tutti i soci fondatori della ricostituita sezione napoletana di Italia Nostra; sulle cui colonne non sono state mai risparmiate parole di fuoco contro la speculazione edilizia a Napoli come nella valle dei templi di Agrigento, come a Potenza; per queste battute veniva considerato in ambienti ignoranti della sua biografia, un filo-speculatore. Ma la battuta secondo la quale se nel Cinquecento vi fosse stata Italia Nostra, l’Italia non avrebbe avuto il Rinascimento, è veramente degna di essere ricordata.

In questo ambiente, nel quale, ripeto, si sposavano la geografia come interesse universitario e lo studio di Napoli e del Mezzogiorno come impegno civile e politico, si sono formati, negli anni sessanta, oltre le persone che prima ricordavo, Italo Talia, Alfredo Testi, Franco Bordieri, Antonio Rao, Cesare de Seta, i fratelli Vitiello (Antonio ed Enrico), Massimo Galluppi, Tullio D’Aponte. Molti di loro laureati in Geografia politica ed economica e molti diventati geografi universitari.

C’era anche, in questo ambiente, una sorta di “corte dei miracoli”. Lo dico con affetto, anche per l’affetto che mi ha legato ad alcune di quelle persone. Due, in particolare: don Costabile Cilento e Vincenzo Montefusco. Don Costabile – amico e seguace di Giovanni Amendola – era persona di sensibilità rara, pari alla indigenza e alla solitudine nelle quali chiaramente in quegli anni si dibatteva. Soffriva di stomaco e le pillole che ingeriva per alleviare il dolore gli portavano sonnolenza. Spesso, infatti, sonnecchiava: mentre Compagna parlava con Ronchey; mentre ciascuno dei presenti cercava di dare un senso alla sua giornata; mentre Antonio Vitiello coniava alcune delle sue lapidarie definizioni: Ubi omo. IBM o Annamaria Goretti e “’a Coreana”, a proposito della sessantottina Annamaria Damiani; mentre Cesare de Seta, un po’ pontificando, un po’ scherzando, scandalizzava Sara Esposito; mentre Antonino De Arcangelis, detto Erode, elaborava le sue statistiche sulla mortalità infantile e Filippo Scalese costruiva le sue previsioni e proiezioni elettorali; mentre Guido e Luigi –allora giovanissimi, poi affermati, figli di Compagna – non gli lesinavano qualche battuta, ricevendone pronta risposta nel rapido passaggio che ne derivava, dal sonno alla veglia. È stata una presenza difficile da dimenticare o da ricordare senza commozione.

Come quella, più greve, del pittore Vincenzo Montefusco cui Compagna commissionava quadri-regalo per matrimoni. “Vicie’, si sposa una mia collaboratrice”; “pere o mele?” era la risposta-domanda del pittore; “mele!” E, per 20.000 lire di allora, un’altra natura morta finiva sulle pareti di casa di un allievo amico e Montefusco guadagnava qualche giorno di serenità.

Poi si formò veramente una corte, che crebbe in coincidenza con i successi elettorali: la corte di quelli che Compagna, molto aiutato da Cappa, chiamava i “clientes”. Li sopportava, non poteva farne a meno. La loro presenza non ha lasciato traccia: non se ne ricorda alcuno.

C’è stato anche un mio “Nord e Sud”. Rosellina, dopo la travagliata vendita del negozio fu più presente in redazione, anche al mattino. Ne risentì subito il clima, anche quello meteorologico per migliorare il quale fu installato nella stanza in cui, con gli altri, lavorava Rosellina, un condizionatore d’aria. Fu un disastro. Spesso questo infernale aggeggio produceva ghiaccio, bisognava spegnerlo e il ghiaccio si trasformava in acqua: il tutto destava anche ilarità ma le emicranie di Rosellina ne risentivano drammaticamente, specialmente quando, ed avveniva sempre più di frequente, da “La Stampa” le telefonavano per chiederle un arti- colo di terza. I primi articoli furono una vera sofferenza, anche per i più intimi, invitati in tutti i modi a partecipare al travaglio. Poi le soddisfazioni morali per il riscontro che gli articoli ricevevano e le importantissime gratificazioni economiche, sciolsero la mano della bella penna che la Balbi possedeva. Il nome, già noto, circolò più rapidamente e la sua firma fu molto richiesta. Tanto da indurla e costringerla a lasciare “Nord e Sud”: prima per “Il Globo” di Antonio Ghirelli, poi, sin dalla prima uscita nel 1975, per “la Repubblica”. E il lavoro nella rivista, pur senza consegne ufficiali, ma di fatto, toccò a me che avevo (per essermela fatta seguendo Rosellina) una certa esperienza anche di cucina e di rapporti con la tipografia. Devo confessare che ero molto meno attento di Rosellina a quello che si pubblicava. Qualcuno notò e fece notare a Compagna certe “stranezze” e il contenuto di taluni articoli non in sintonia con la linea politica della rivista. Il professore mi spiegò che ”Nord e Sud” era una rivista di opinione, con una sua opinione e con il conseguente intento di fare opinione, non una rivista di dibattito. Mi resi conto di avere approfittato troppo della carta libera che, di fatto, Compagna mi aveva lasciato e che se avevo effettuato un servizio per la rivista non avevo reso un pari servigio a Compagna (al contrario di quanto aveva sempre fatto Rosellina Balbi). D’altra parte io mi sentivo in grado solo di sviluppare e alimentare dibattiti, non certo di contribuire a fare opinione, anche in considerazione del fatto che le mie opinioni politiche andavano un po’ diversificandosi da quelle di Compagna. Anche per questo la cura sostanziale della rivista passò a Luigi Compagna che mi sostituì molto più attivamente.

 

L’uomo politico

Quando decise di accettare l’investitura dall’alto che Ugo La Malfa gli fece affidandogli il n. 1 della lista del Pri per le elezioni politiche del 1968, Compagna prese una decisione che non solo avrebbe profondamente mutato il corso della sua vita, ma, nell’immediato, lo costrinse a fare i conti con le prime inimicizie. Scontenti furono anche molti amici liberali del professore combattuti tra il votare liberale negando il voto ad un amico caro e capace e il votare quest’ultimo in un partito che non era il loro.

Ma prescindendo da questi distinguo, nell’àmbito dei quali Compagna fece, comunque, sicuramente il pieno di voti; il cimento elettorale fu una prova importante per misurare l’affetto e la stima che i suoi amici, i suoi allievi, i collaboratori della rivista, nutrivano per il professore. E della speranza che tutti riponevano nella possibilità di portare al Parlamento un deputato nuovo, capace di intendere i problemi di Napoli e del Mezzogiorno in un modo diverso.

Senza convocare adunate, Compagna riuscì ad allestire un esercito di cirenei al quale si erano volontariamente arruolati, con vario tipo di impegno, una quindicina di persone. Il professore ne era contento; la sua vanità ne era molto gratificata: sapeva bene che il risultato sarebbe stato centrato solo nella misura in cui fosse riuscito a dotarsi di un ricco patrimonio personale di voti. Così fu e, veramente sul filo del rasoio, ce la fece.

Quanto sia stato un deputato diverso nei quattordici anni di mandato parlamentare, è difficile dire: ogni risposta risentirebbe del carico di soggettività che ciascuno può mettere nel termine “diverso”. È stato certamente un deputato, un sottosegretario, un ministro capace allo stesso modo in cui era stato un professore e un giornalista onesto e capace.

Non è stato mai un uomo di potere: nel senso comune e dispregiativo del termine. E non solo da deputato. Quando partii per il servizio militare partecipò vivamente alla mia sofferenza. E a quella di mia madre la quale, ritenendo che Compagna fosse una persona influente, andò a trovarlo a “Nord e Sud” perorando la mia causa che, in fondo, era una causa comune essendo io affettivamente utile alla famiglia, ma anche a Compagna. E Compagna scrisse a Guadalupi, allora sottosegretario alla difesa, chiedendogli che dopo il Car a Bari potessi avvicinarmi il più possibile a Napoli. Cosa che sarebbe stata “molto utile essendo il giovane Leone assistente volontario alla cattedra di Geografia politica ed economica e prezioso collaboratore di ‘Nord e Sud’.”.

Credo di non essere stato mai tanto vicino all’invio ai confini come in quella circostanza. Compagna non aveva alcuna influenza di questo tipo e non voleva averne. Non sapeva chiedere e non voleva chiedere.

La libera docenza negata ai suoi allievi Giuseppe Sacco e Ernesto Mazzetti e le modalità di quell’episodio (i due furono invitati da una commissione ostile ad evitare perfino di presentarsi al giudizio) sono estremamente significative di influenza al negativo. Ma quando (parlo dell’inizio degli anni Settanta) qualcuno nei Consigli delle Facoltà di nuova istituzione si poneva il problemadi come coprire un incarico di geografia, andava da lui, caposcuola, a chiedere se avesse qualche nome da suggerire per ricoprire quell’incarico: a Teramo, come a Padova, come a Lecce. E se ai corsi che annualmente la Svimez organizzava, Compagna chiedeva di far partecipare qualcuno dei suoi laureati più bravi, spesso questi erano ammessi per titoli (e la presentazione di Compagna lo era) più che per esami e non è raro il caso di discenti che abbiano poi continuato a frequentare la Svimez anche come docenti.

In parecchi siamo passati da Via di Porta Pinciana e anche questa è una pagina significativa della biografia di Compagna. A Roma andava spesso, anche prima di trasferirvisi per il mandato parlamentare. La Svimez era una tappa obbligata delle sue giornate romane. E ci veniva a trovare e amava farci intrattenere o almeno conoscere, Saraceno, Dell’Angelo, Salvatore Cafiero, Pilloton, Rosenstein Rodan. Qualcuno più fortunato può inserire anche Mario Pannunzio tra le sue occasionali conoscenze.

La convivialità si esauriva in questi incontri. Ma una volta – S. Ugo del 1965 – andammo a pranzo insieme – con Franco Bordieri e Italico Santoro – da Mario  a piazza di Spagna. Terminato il secondosi alzò e ci salutò dicendo di dover andare da un altro Ugo più importante: La Malfa, naturalmente. Il terrore si impadronì di noi giovani squattrinati borsisti a 125.000 lire al mese. E quando il cameriere venne a chiederci come volevamo continuare, l’imbarazzo fu vinto solo quando ci fu detto che era stato pagato anche il dessert.

Questo era. Odiava, però, essere utilizzato o avere l’impressione di esserlo. Non gli piaceva, come diceva, essere usato come un taxi dal quale si scende, anche in corsa, nel momento in cui non serve più.

Il meridionalista

Teorico di un meridionalismo che “come quello di Nitti, Fortunato, Salvemini, non è rivendicazione regionalista”, ma “è un modo di sentire e di interpretare gli interessi generali del paese”, di un Mezzogiorno “industriale e cittadino”; non ha mai deviato da questa impostazione.

Prima di diventare anche lui un “classico” ha studiato e ci ha introdotto allo studio dei classici: Fortunato e Maranelli; Nitti, Salvemini e Dorso; Franchetti e Sonnino; Azimonti (molto meno Gramsci), la cui conoscenza era ritenuta indispensabile per conoscere e per capire.

Imparammo così di “Mezzogiorno arido come un pomice”; di pessimismo geografico; di segregazione topografica; di infrastrutturazione e pre-industrializzazione; di aree e poli; di polpa e osso; di cattedrali nel deserto; di ciminiere e campanili; di incentivi e disincentivi; di intervento ordinario e straordinario; di Cassa per ilMezzogiorno; di congestione costiera e desertificazione interna; di emigrazione e immigrazione; di coree e bidonvilles.

Imparammo di tutte queste cose per arrivare a concludere che “il Mezzogiorno deve essere molto diverso, tutto diverso, da come era ai tempi di Salvemini e Dorso, ed anche da come era in tempi recentissimi, quelli che sono stati a Napoli i tempi del laurismo e in Sicilia i tempi del milazzismo e che magari sono ora tempi di centro-sinistra alla napoletana o alla siciliana”… che il Mezzogiorno può diventare diverso e sconfiggere per sempre certi suoi imperversanti attori “i banditi sardi o la mafia politico-bancaria di Palermo, gli ex qualunquisti, gli ex monarchici, gli ex fascisti diventati democristiani in Campania o in Puglia, i membri di una camorra edilizia che ha operato da Napoli ad Agrigento e che ha fatto di Napoli una città che corre il rischio di una frana tale da far impallidire pure il ricordo di Agrigento”… che per superare tutto questo è necessario puntare sull’industrializzazione “e anche, magari soprattutto, su un’industrializzazione legata alla ricerca scientifica: comunque, su un’industrializzazione che consenta di valutare nel Mezzogiorno la ‘materia grigia’, le energie intellettuali del Mezzogiorno”. Ciò perché “quando i migliori non fossero più costretti a partire dal Mezzogiorno, non avremmo più una classe politica e dirigente formata, se non proprio dai peggiori, certo attraverso una selezione alla rovescia. Quando si aprissero nel Mezzogiorno, per i migliori, possibilità di carriera come dirigenti, e non più soltanto come subalterni; quando nel Mezzogiorno il giovane di talento non fosse più posposto sistematicamente a chi è stato ‘affiliato’ da Tizio o cooptato da Caio per servire, allora sì che i nostri figli non sarebbero costretti a partire come sono partiti ieri i nostri compagni di scuola e come stanno partendo ancora oggi i nostri allievi; allora sì che sarebbe più facile risolvere l’antico problema di Dorso e di Salvemini; allora sì che si formerebbe una moderna società di quadri e quindi una moderna classe dirigente e politica; allora sì che la palude politico-amministrativa si restringerebbe di molto, fino a scomparire. Ma da dove cominciare? Posso forse provare a dirlo con un riferimento a Napoli. Non dimentichiamo che a Grenoble si eleggevano dei mediocri notabili e poi è stato eletto Mendès France, quando Grenoble è diventata una capitale della ricerca scientifica e delle industrie di avanguardia. E Marsiglia, rinnovata dall’industrializzazione, non è più la città di Topaze (il corrotto amministratore che era il protagonista di una commedia di Pagnol che ai suoi tempi ebbe grande successo) ma la città di Gaston Defferre. Noi confidiamo che anche Napoli possa essere rinnovata dall’industrializzazionee soprattutto che anche Napoli possa diventare una capitale della ricerca scientifica a servizio di tutto il Mezzogiorno.

Perciò abbiamo iniziato tre o quattro anni or sono la battaglia per un’area napoletana della ricerca scientifica. Abbiamo vinto con fatica il primo round di questa battaglia, ma sappiamo di dover combattere altri rounds per demolire le resistenze passive di un ambiente che non ha mai creduto a niente, che non crede a niente, e non crede neanche all’”area della ricerca”; teme, anzi, che dall’area della ricerca possa venire la condanna più eloquente e definitiva del suo cinismo, della sua accidia, del suo conservatorismo… “L’atteggiamento tradizionale dei meridionali è di rimpianto del passato, anche di un passato del Mezzogiorno che non merita affatto di essere rimpianto. Noi abbiamo appreso da Benedetto Croce che la sola tradizione da cui l’Italia meridionale possa trarre intero vanto, è la tradizione degli uomini di dottrina e di pensiero. A questa tradizione siamo rimasti fedeli: l’abbiamo assimilata dagli amati maestri, appena intravisti nella persona, ma tanto frequentati nelle opere di Croce, Omodeo, Salvemini, Dorso… la strada verso il futuro è, se non aperta, socchiusa; e lo è, socchiusa, anche perché il presente, che non ci soddisfa, e non ci deve soddisfare, è pur sempre migliore, molto migliore, del nostro passato servile di società contadina e borbonica”.

Questi che ho riportato sono passi del discorso tenuto da Compagna nella campagna elettorale, al Maschio angioino, il l7 marzo 1968 e mi sembra che i contenuti di quel discorso valgono per raccontare il Compagna meridionalista, almeno quanto i suoi volumi su La questione meridionale, su La politica della città, sui Terroni in città.

In buona sintonia con il Gruppo dei meridionalisti pugliesi di Vittore Fiore, Mario Dilio e Pasquale Satalino, è stato tra i pochi nel Mezzogiorno a portare avanti questa politica. Con una coerenza che ha rasentato l’ostinazione quando il mutare di uomini e situazioni ha cominciato a far scricchiolare qualche mito e a far riflettere su quelli che lui stesso definiva i “nuovi termini della questione meridionale”. Forse anche per questo motivo, pur essendo ricordato soprattutto come meridionalista, nell’àmbito di una questione meridionale la cui presenza è oggi vista o sopportata con fastidio pari alla assenza di analisi dei suoi contenuti contemporanei; in questo contesto, mi sembra che la figura di Compagna meridionalista sia quella che più si va sbiadendo nel ricordo di molti e nella conoscenza dei più. Se questa sensazione è giusta, mi sembra grave: indipendentemente dalla disponibilità a condividere le diagnosi e le terapie proprie dell’analisi di Compagna. “Noi siamo gli stregoni che conoscono il Mezzogiorno” gli piaceva dire negli anni Sessanta quando metteva a confronto le riflessioni e le analisi anche quantitative contenute in molte inchieste pubblicate poi su “Nord e Sud”, con le indagini sociologiche (che considerava con crociano fastidio sopportando giusto quelle di un caro amico come Gilberto Marselli), o con le valutazioni degli economisti che si basavano troppo sulla matematica. Delle une e delle altre, però, noi “stregoni” dovevamo tener conto avvantaggiati come eravamo dal fatto di conoscere (anche in qualità di geografi) il Mezzogiorno. È grave, dicevo, che si vada sbiadendo la conoscenza dei contenuti del meridionalismo di Compagna, perché essi costituiscono, quanto meno – né questa vuole essere una valutazione riduttiva di quei contenuti – una lezione di meridionalismo lunga venti anni.