Giorno della memoria o memoria di un solo giorno?

Mi capita, in queste giornate dedicate alla memoria della Shoah, di cogliere in giro espressioni di inquietudine, a volte come di delusione e rammarico. In particolare, si sente ragionare sul doloroso contrasto tra la preoccupazione di ricordare e far ricordare oggi tragedie di settant’anni fa, e l’indifferenza, l’assuefazione con cui si reagisce alle tragedie che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Comprendo questo sentimento, tra lo scontento e l’insoddisfazione persino stizzita, e tuttavia occorre provare a fare alcune riflessioni.


Intanto, la più ovvia si riferisce alla differenza evidente tra le situazioni, ma forse la più importante riguarda natura e percezione del passato, da un lato, e cognizione e valutazione dell’evento che scandisce la dimensione del nostro affollato e totalizzante quotidiano. Nel primo caso, il compito è ragionare su che cosa è successo allora, perché è accaduto e ad opera di chi, in quale contesto. Ammesso che sia stato adempiuto al meglio possibile il non facile impegno, si apre il discorso sul rapporto con siffatto passato.

C’è stato chi (Nino Daniele) ha suggerito che la giornata della memoria si ponga e si imponga per tutti come giornata dell’indignazione, proprio ad indicare che debba trattarsi di uno stato d’animo e di coscienza assolutamente ‘perdurante’, in grado di protrarsi nel tempo e di accompagnarci alimentandosi dal lontano al vicino del nostro vissuto.

 

Mi pare giusto, e soprattutto assai più convincente del ricordare perché ciò che di orribile ognuno ricordi, non abbia a ripetersi mai più. La realtà odierna sembra smentire che davvero succeda o sia successo così. Il fatto è che memoria non può essere mera legge dello Stato, né tantomeno solo rito o celebrazione; la memoria è un diritto, e non può dunque essere tenuto, in quanto tale, disgiunto da pratiche e concezioni che con i diritti hanno a che fare: educazione ed esercizio.

Qualcuno (L. Catania) ha scritto: «la memoria è un bene prezioso quanto fragile e deperibile. Per questo, dimenticare le proprie origini, perdere la memoria storica equivale a un suicidio sociale e politico. Significa mettere a rischio la capacità di sviluppo di se stessi e degli altri.
Quando la società è ridotta, come oggi, a consumo di merci, gli uomini sottomessi a questa logica che cancella la natura e la volontà, come ciechi brancolano nel vuoto dei valori e campano alla giornata. La memoria, allora, preda del silenzio, assume l’aspetto di una pagina bianca che l’oblio contribuisce a riempire con inchiostro intinto nell’ipocrisia e nella menzogna».

 

Attenzione, insomma, ai “vuoti di memoria”, inevitabilmente destinati ad essere mal riempiti; e attenzione al tempo stesso, e questa volta in senso positivo, a quelle che potrebbero sembrare sintomi di rassegnazione e invece intendono riuscire salutari provocazioni. Mi riferisco, ancora a frasi e proposizioni colte a volo in queste ore, di chi suggerisce che s’intitoli piuttosto “giornata delle memorie” (al plurale) o anche giornata degli smemorati.
Chi scrive ha deciso da anni di combattere la battaglia per affermare la memoria come diritto, e per indurre i più a ritenerla come qualcosa che ha a che fare, certo, con il passato, ma ancora più con il presente e massimamente con il futuro.

Ricordare, insomma, per promuovere e produrre futuri, per aiutarci a decifrare un presente così carico di informazioni da non essere più in grado di stimolare formazione, di occasionare pensiero critico e volontà di sapere. Il senso delle cose galleggia per un attimo alla superficie, quindi si inabissa e deposita nel profondo; educare a conoscere implica addestrarci a scendere giù, giù, per raccoglierlo e riportarlo al nostro sguardo e alla nostra coscienza.