La tossicità finanziaria dei nuovi farmaci innovativi

Non la conosco, Nandita Khera. Ma credo che sia un buon medico. A Phoenix, in Arizona, ha in cura Ms. R., una donna di 59 anni che da tre anni lotta contro un tumore della mammella. R. ha già speso di tasca sua 40.000 dollari, ha perso il lavoro e per far fronte alle spese ha dovuto prendere i soldi dal suo fondo pensione. R. è angosciata. Come farà quando il fondo pensione sarà esaurito? Dovrà vendere la casa? Dichiarare bancarotta? Ridurre le spese per il cibo per pagare i farmaci? Andare in un hospice? E quanto costa l’hospice? Nandita è in difficoltà. È probabilmente un buon medico, ma non sa rispondere a queste domande. In realtà, quando andava all’università, non avrebbe neanche immaginato che domande di questo genere le sarebbero state poste.

Nandita aveva in cura anche Mr. M., un uomo di 38 anni, con una moglie, due figli ovviamente piccoli e una leucemia acuta. Un anno prima, per ricevere un trapianto di cellule staminali, M. aveva speso tutti i soldi che aveva. Aveva anche perso il lavoro e l’assicurazione che gli veniva pagata dal suo datore di lavoro. Poi anche sua moglie ha perso il lavoro, purtroppo proprio quando c’è stata una recidiva della leucemia. M. ha scelto di non curarsi. Non voleva lasciare la moglie e i due figli sul lastrico.

Nandita è una provocatrice. Ha scritto sulla più importante rivista di oncologia degli Stati Uniti (Journal of Clinical Oncology, 2014; 32: 3337-3338) che non possiamo far finta di niente. E che, come siamo abituati a misurare e codificare la tossicità dei farmaci contro il cancro, dovremmo anche iniziare a codificare la tossicità finanziaria. Grado 1: cambio stile di vita e non vado più in vacanza. Grado 2: perdo momentaneamente il lavoro, metto mano ai risparmi o al fondo pensione. Grado 3: il lavoro è definitivamente andato, faccio un mutuo sulla casa, le spese causate dalla mia malattia superano ampiamente le entrate complessive della mia famiglia. Grado 4: vendo la casa, dichiaro bancarotta, penso di smettere di curarmi, penso di suicidarmi.

Perché accade questo? E’ un fenomeno solo degli Stati Uniti? Dobbiamo preoccuparci? Che cosa si può fare? Proviamo a rispondere.

Negli Stati Uniti, chi si ammala potrà accedere alle cure necessarie grazie alla propria assicurazione sanitaria (se ne ha una). La parentesi è velenosa. Barack Obama paga in questi mesi con l’incanutimento dei suoi capelli lo sforzo che gli è costato aver ridotto dal 21% al 16% (sembra poco, ma non lo è) la percentuale di cittadini statunitensi senza assicurazione sanitaria. Ma il veleno non finisce qui. Chi ha una assicurazione sanitaria è chiamato a partecipare all’acquisto dei farmaci, in misura variabile dal 10% al 20% a seconda della tipologia della sua polizza; in inglese si chiama co-payment, una cosa che in Italia non conosciamo. I farmaci contro il cancro funzionano molte volte, sempre di più fortunatamente. Ma i farmaci contro il cancro costano, molto e sempre di più, sfortunatamente. Il costo medio negli Stati Uniti si aggira intorno ai 10.000 dollari per mese di terapia e ci sono trattamenti in sperimentazione che in un anno potrebbero raggiungere il costo di un milione di dollari. Fate voi i conti del co-payment e capirete perché molti non ce la fanno. In aggiunta, nessuno di questi farmaci è miracoloso; alcuni sono molto efficaci e altri solo poco; la maggior parte prolunga la sopravvivenza ma non produce una definitiva guarigione, almeno per quanto ne sappiamo fino ad oggi. E intanto la letteratura sulla tossicità finanziaria si arricchisce. Gli ammalati di cancro dichiarano bancarotta due volte e mezza di più dei non ammalati. Quelli che hanno problemi finanziari non riescono a rispettare le cure prescritte e hanno un impatto negativo su tutti gli indicatori di qualità della vita.

In Europa i farmaci costano un po’ meno, perché dopo la autorizzazione concessa dall’agenzia centrale EMA (European Medicine Agency) i singoli stati membri avviano trattative separate con le aziende farmaceutiche per trovare accordi negoziali che consentano, a seconda della tipologia di servizio sanitario, l’accesso ai farmaci innovativi. Paese che vai sistema che trovi, l’Europa non ha una voce univoca in questa materia e si difende dietro all’ipocrita affermazione che la salute non è materia comunitaria ma garantita dalle costituzioni proprie dei singoli paesi. Il sistema consente di ottenere prezzi mediamente più bassi che negli Stati Uniti; in Italia, forse anche un po’ più bassi della media Europea. Ma il veleno c’è anche in Europa, sotto forma di una terribile disparità nell’accesso ai nuovi farmaci. In molti paesi dell’Est i tempi necessari per raggiungere un accordo sul prezzo vanno ben oltre i due anni; anni in cui un Europeo occidentale potrà accedere a un farmaco che al contrario rimarrà un sogno per un Europeo orientale.

In Italia si stima che il tempo tra l’autorizzazione di EMA e la reale disponibilità di un nuovo farmaco oscilli intorno a un anno. E recentemente, con i farmaci contro l’epatite C, è stato necessario introdurre un sistema di rimborsabilità e disponibilità progressiva, iniziando dai pazienti con malattia più avanzata, per rendere sostenibile una terapia che se prescritta indiscriminatamente a tutti i portatori di una infezione da virus C avrebbe messo a rischio la tenuta dei conti del Servizio Sanitario Nazionale. Il passo tra rimborsabilità progressiva e razionamento è breve; secondo qualcuno solo semantico. In oncologia, nel dicembre 2015 non è ancora rimborsato un farmaco efficace contro il melanoma i cui risultati sono stati resi pubblici nel maggio 2015. Non sappiamo ancora come verranno gestiti i nuovi farmaci contro le ipercolesterolemie familiari; sono molto efficaci, ma costano cento volte di più dei farmaci attualmente in uso.

Dobbiamo preoccuparci. Il Servizio Sanitario italiano, pur nella confusione e nelle disequità derivanti dalla sua declinazione regionale fortemente condizionata dalle difficoltà economiche, resta tra i sistemi migliori in quanto a universalismo e qualità. Ma ci sono segni di affanno, e il costo delle innovazioni terapeutiche è tra i maggiori fattori di rischio per la sua tenuta.

Che fare? Per iniziare, ognuno dovrebbe fare la sua parte. In oncologia, le maggiori società scientifiche, dando voce ai propri associati che sono allo stesso tempo ricercatori impegnati nella sperimentazione dei nuovi farmaci e potenziali medici prescrittori di essi una volta che siano entrati nella pratica clinica, hanno chiaramente messo sul banco degli imputati le aziende farmaceutiche per la inaccettabile gara al rialzo dei prezzi che va ormai ben oltre tutte le possibili giustificazioni tecniche. Chi latita, a mio parere, è la politica. Negli Stati Uniti il sistema è schiavo di una legge (approvata anni fa da una maggioranza trasversale di repubblicani e democratici) che vieta alle maggiori compagnie assicurative di trattare il prezzo dei farmaci e che vieta alla agenzia regolatoria di valutare il costo come uno degli elementi di valore di un nuovo farmaco. Obama non ha più tempo né forza per cambiarla. Ma la materia è molto presente nei programmi elettorali dei democratici candidati alla sua successione. In Europa, la valutazione di efficacia e sicurezza di un nuovo farmaco è completamente separata dalla definizione del prezzo e delle procedure di rimborso. Ed è molto timido, per ora, il dibattito sulla ipotesi di definire un prezzo di riferimento europeo che tenga conto della dimensione di beneficio apportato da un nuovo farmaco. Sarebbe necessario, poi, un accordo politico per declinare l’eventuale prezzo di riferimento nei singoli stati membri in base agli indicatori di ricchezza (o povertà) nazionale. Ci vorrebbe una comunione di intenti che metta la salute al riparo dalle tempeste economiche. Ma i segnali in questo senso sono assenti. In sostanza, nel mondo, il prezzo dei farmaci viene oggi definito unilateralmente dalle aziende farmaceutiche che, per la sfortunata combinazione di regole perverse, accuratamente disegnate, e di regole mancanti, accuratamente evitate, non sono tenute a darne ragione o a  giustificarlo in alcuna sede. E sebbene il crescente e irragionevole costo dei farmaci innovativi non sia l’unica minaccia per i servizi sanitari pubblici, non vi è dubbio che sia tra le più serie.