C’è un’alternativa al modello settentrionale

Costruire il futuro
La vocazione profonda di Città della Scienza

 di Pietro Greco

Il 17 ottobre 1987, quasi un quarto di secolo fa, Vittorio Silvestrini pubblicava su Rinascita un articolo che aveva per titolo: C’è un’alternativa al modello settentrionale e per sottotitolo Di fronte alla divaricazione della forbice che separa il Nord industrializzato del paese dal Sud. 

L’analisi, la forbice che si divarica tra il Settentrione e il Mezzogiorno, era puntuale.

La proposta, l’alternativa al modello settentrionale di crescita economia, originale.

L’analisi era puntuale, perché proprio in quegli anni si andava consumando con una forte accelerazione la “desertificazione” dell’industria manifatturiera classica a Napoli e un po’ in tutto il Sud, senza che nessun nuovo tipo produzione venisse a sostituirla.

Vittorio Silvestrini aveva infatti intuito, tra i primi in Italia, che il mondo era entrato in una nuova era economica – l’era della conoscenza – e che lo sviluppo (non la sola crescita) del Mezzogiorno era possibile solo attraverso un modello di produzione fondato sulla conoscenza, scientifica ma non solo.

Quello industriale del Settentrione era un “modello di crescita senza ricerca” e, dunque, con una specializzazione produttiva centrata su beni a media e bassa tecnologia. Il modello alternativo per il Mezzogiorno (e per l’intero paese) doveva essere non solo un “modello di sviluppo fondato sulla ricerca”, fondato sulla produzione di beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto e, dunque, fortemente dematerializzata, per far entrare il Sud nella nuova “era della conoscenza”, ma anche un modello socialmente ed ecologicamente sostenibile. Un modello per la costruzione di una “società democratica della conoscenza”.

Insomma, Silvestrini indicava un nuovo meridionalismo che si proponesse come modello generale, valido per l’intero paese e non solo.

L’analisi e la proposta sono più che mai attuali. Per questo Il Centro Studi ha deciso di ripubblicare l’articolo su Rinascita. Lo troverete qui di seguito. Ma gli ha anche chiesto di scriverne uno nuovo (lo trovate qui), per rilanciare il dibattito sul meridionalismo oggi ma, soprattutto, far emergere ancora una volta la vocazione profonda di Città della Scienza: costruire il futuro.

 

C’è un’alternativa al modello settentrionale

Di fronte alla divaricazione della forbice che separa il Nord industrializzato del paese dal Sud

di Vittorio Silvestrini

Quali possono essere i fondamenti di un progetto di sviluppo meridionale che sia altro e diverso rispetto al processo in atto nella parte industrialmente più forte del Paese. Territorio e ambiente naturale, cultura, capacità di lavoro sono le risorse da salvare, valorizzare e porre come punti di partenza anche per attività industriali e produttive in grado di competere sul mercato.

L’andamento degli indicatori economici e occupazionali – quale risulta ad esempio dall’ampia raccolta di dati contenuta nell’annuale rapporto Svimez – mostra chiaramente che il grande processo di innovazione tecnologica in atto nei paesi industrializzati e in particolare in Italia sta divaricando la forbice che separa il Mezzogiorno del nostro paese, immerso nel Mediterraneo, dal Nord industrializzato sempre più proiettato oltre le Alpi.

 

Ciò d’altra parte non può sorprenderci. Va infatti considerato che i più efficaci canali di trasferimento della innovazione tecnologica – necessaria premessa allo sfruttamento della sua potenziale valenza imprenditoriale – sono quelli che collegano il mondo della ricerca al mondo dell’industria e più particolarmente della grande impresa industriale; cosicché lo sviluppo tecnologico risulta finalizzato principalmente al raggiungimento degli obiettivi giudicati prioritari da quest’ultima. Più precisamente, mi sembra che tre siano le grandi linee di trasformazione che si accompagnano con la rivoluzione informatica e telematica:

  1. Una automazione sempre più spinta dei processi produttivi, al fine di raggiungere non solo l’obiettivo di ridurre il costo del lavoro, ma anche quello di liberare per quanto possibile le scelte di politica aziendale dal condizionamento esercitato dalla base produttiva, sia attraverso la sua obiettiva rigidità (è più lungo, difficile e oneroso riconvertire le maestranze umane che non riprogrammare una linea robotizzata) sia attraverso il potere contrattuale che le organizzazioni del lavoro si sono conquistate su questo terreno. Dal punto di vista occupazionale il risultato netto della automazione del processo produttivo è quello di una drastica riduzione del numero di addetti a parità di volume di produzione e un contemporaneo innalzamento del livello medio di qualifica, con una tendenza della nuova occupazione a concentrarsi – in termini topografici e in termini di organigramma – più in vicinanza delle strutture dirigenziali aziendali. Contemporaneamente, la riduzione della incidenza che il costo del lavoro ha sul costo totale del prodotto riaccende l’interesse del nord industrializzato anche nei confronti di settori produttivi “maturi” che in passato venivano demandati alle aree industriali più deboli, e in particolare a quelle meridionali. Come risultato netto, il settore industriale del Nord espelle da un lato mano d’opera con basso livello di qualifica (e tendenzialmente elevata anzianità), ma alimenta d’altro lato una offerta di lavoro qualificato (e tendenzialmente giovanile) addirittura eccedente – talvolta eccedente di molto – la domanda di occupazione. Questa compensazione ( che è più di una compensazione, visto che favorisce la occupazione giovanile qualificata) è praticamente assente nelle regioni meridionali; tanto che all’aumento della disoccupazione – e segnatamente di quella giovanile – si affiancano i primi sintomi di una nuova stagione dell’emigrazione (l’emigrazione dei colletti bianchi) destinata a depauperare il Mezzogiorno anche dell’investimento rappresentato dal generale innalzamento del livello medio di qualifica professionale e di cultura dei suoi giovani. Va osservato che gli stimoli a questa emigrazione vengono non solo dalla configurazione che va assumendo il mercato del lavoro, ma anche dalla debolezza della risposta che la situazione generale strutturale e infrastrutturale del Mezzogiorno riesce a dare alle esigenze esistenziali – di vita e di tempo libero – dei giovani cresciuti nella cultura del 2000.
  1. Con l’ampliarsi delle attività direttamente o indirettamente collegate con l’informatica, si registra una marcata tendenza della offerta di prodotti (specie di quella indirizzata verso settori diversi da quello industriale, e segnatamente verso il settore dei servizi) a trasformare il mercato da mercato di oggetti a mercato di funzioni. Anziché vendere macchine e strumenti, sempre più si tende a vendere le funzioni e i servizi che tali macchine sono in grado di compiere. Questa tendenza è giustificata, dal punto di vista tecnico-organizzativo, dal fatto che la gestione degli strumenti della informatica – e il loro aggiornamento a una rapidissima evoluzione – richiede una articolazione di competenze che non è diffusa sul territorio così come è invece diffuso l’impiego di tali strumenti. La ristrutturazione del mercato come mercato di funzioni risulta, tuttavia, soprattutto ben funzionale alla monopolizzazione del mercato da parte di pochi gruppi multinazionali, che così si difendono anche da produttori “pirati” di componenti dell’informatica; produttori che immettono sul mercato apparecchiature realizzate a basso costo parassitando lo sforzo di ricerca e sviluppo sostenuto dai grandi operatori. Come risultato netto, la maggior parte del valore aggiunto del settore informatico è prodotto nella fase di gestione delle apparecchiature, fase che viene controllata da soggetti imprenditoriali che operano lontano dal luogo dell’utenza, in larga misura indipendentemente da chi abbia prodotto e da chi abbia acquistato le apparecchiature stesse. Contestualmente, la diffusione crescente degli strumenti dell’informatica nel settore terziario, tende a riprodurre anche in questo settore quei riflessi occupazionali che abbiamo più sopra discusso per il settore industriale: spostamento delle qualifiche professionali dai bassi livelli verso gli alti, e migrazione della offerta di lavoro dalle aree imprenditorialmente e strutturalmente deboli verso quelle forti.
  1. Una forte pressione a favore di scelte di organizzazione e di infrastrutturazione territoriale motivate non tanto dalla qualità dei servizi offerti, quanto dal criterio del trinceramento delle tecnologie gestite in regime di monopolio dai gruppi industriali più forti: valga per tutti l’esempio del settore trasporti, reso ormai pressoché esclusivamente ed irreversibilmente dipendente dai veicoli su gomma.

Queste tre linee di tendenza convergono verso l’effetto di divaricare lo iato fra le due metà del paese, convogliando verso il Nord molti dei benefici economici e occupazionali anche degli stessi investimenti pubblici operati nel Mezzogiorno.

L’esigenza che il Mezzogiorno si dia un progetto di sviluppo che si confronti con questo processo in atto nella parte industrialmente più forte del paese (processo che per brevità chiameremo da qui in poi “modello settentrionale”) ma sia altro e diverso rispetto ad esso – una esigenza che viene spesso svilita nello slogan, velleitario e riduttivo a un tempo, di una scelta post-industriale per il Mezzogiorno – nasce non solo dalla ovvia considerazione che chi si pone come obiettivo quello di imitare un modello altrui fa la scelta di limitarsi ad inseguire, e chi insegue è per definizione condannato a misurarsi solo in termini di ritardi. Ma nasce anche da due diversi ordini di motivazioni: a) il “modello settentrionale” non è estendibile a tutto il paese, sia perché a tale modello è funzionale un Mezzogiorno diverso e assistito, che ne costituisca un serbatoio controllato di mercato e di forza lavoro; b) un modello come quello settentrionale, così intensivo come impiego di risorse e così marcatamente tecnologico, produce da un lato un impatto ambientale inaccettabile sul lungo termine, ed è dall’altro lato in prima approssimazione indifferente ai benefici complessivi che esso produce per la collettività umana (una affermazione, questa, che meriterebbe un approfondimento per il quale non v’è qui spazio); per questi motivi esso non può comunque, a parere mio e di molti, essere assunto come riferimento strategico.
Del resto, anche le regioni settentrionali e centrali esterne al triangolo industriale si sono date – in base alle stesse motivazioni da me ora enunciate – una strategia per molti aspetti diversa rispetto al “modello settentrionale”: un modello di industrializzazione che, pur accettando fino in fondo gli innesti di innovazione tecnologica, si pone in termini espliciti – se pure non sempre operativamente efficaci – il vincolo di rispetto e di uso ottimale delle risorse ambientali e culturali del territorio su cui insiste, in uno scenario di confronto e di adeguamento del ritmo di impiego delle risorse primarie (in particolare energetiche) al ritmo della loro rigenerazione naturale. Va anzi rilevato che proprio quei soggetti imprenditoriali che più decisamente hanno imboccato la strada di questa diversità di prospettiva, riescono a trarre vantaggio dal confronto con il triangolo industriale, ed hanno conquistato in esso alcune teste di ponte di rilevante importanza strategica.
Ma tornando al Mezzogiorno, traccerò ora alcune linee che ritengo obbligate per il suo progetto di sviluppo. Va da sé che non ho la presunzione di disegnarlo, tale progetto, nella sua interezza, compito per cui sono lontano dal possedere le competenze. Mi limiterò qui  a considerare quei tasselli che possono condizionare, ed essere condizionati, dalla politica del trasferimento tecnologico e della promozione culturale. In particolare, toccherò solo marginalmente il ruolo che la grande impresa industriale dovrà giocare nel Mezzogiorno, visto che tale ruolo può essere pilotato con strumenti assai più diretti dalla programmazione politica anche in considerazione del peso che in questo comparto hanno gli imprenditori a partecipazione statale.

Cominciamo con l’osservare che se il progetto di sviluppo del Mezzogiorno deve essere originale – cioè disegnato su obiettivi che siano funzionali al Mezzogiorno e non ad altri e che non siano espropriabili al Mezzogiorno stesso – allora necessario riferimento dovranno essere le risorse meridionali.

Il primo punto sarà allora quello di salvare tali risorse, affinché esse possano essere usate come mattoni per costruire una condizione ambientale generale compatibile con la qualità della vita che il progetto si pone come obiettivo. Il secondo punto sarà quello di valorizzarele risorse, costruendo con esse e intorno ad esse quelle attività che possano ottimizzarne la potenziale valenza sociale, economica e produttiva. Il terzo punto sarà quello di assumere tali risorse come punto di partenza anche per attività industriali e più generalmente produttive che portino il Mezzogiorno a competere vantaggiosamente sul mercato nazionale e internazionale.

Del progetto complessivo, l’innovazione tecnologica dovrà essere uno strumento e una ancella, non un vincolo e un padrone.

Queste enunciazioni generali possono essere tradotte in indicazioni politiche abbastanza precise considerando che l’elenco delle risorse meridionali è assai breve, e può essere sintetizzato in tre voci: a) il territorio e l’ambiente naturale, includendo in questa voce la qualità del suolo, del mare, delle acque e dell’aria; b) la cultura, espressione di una civiltà profondamente radicata nella storia ma in continua vivace evoluzione, e che si esprime a sua volta nei segni che tale civiltà ha consegnato, nella sua storia, al territorio; c) la capacità di lavoro, soprattutto quando essa è anche espressione di cultura.

La prima di queste risorse – l’ambiente naturale – è stata profondamente intaccata negli ultimi decenni in nome di un suo improprio sfruttamento per attività turistiche e industriali che hanno prodotto ritorni economici trascurabili rispetto al degrado ambientale che esse hanno provocato. Per le attività industriali, non occorre grande sforzo di originalità per dichiarare inaccettabili quegli insediamenti che accompagnano a un grande dispendio di risorse ambientali un basso ritorno occupazionale ed economico; è dunque necessario invertire, ed annullare per quanto possibile, la linea strategica perseguita negli ultimi decenni per la cosiddetta “industrializzazione” del Mezzogiorno. Ugualmente consolidata è la consapevolezza della necessità di strutturare il territorio con strumenti di presidio ambientale (di protezione del suolo, delle acque, dell’aria). Va tuttavia rilevato che gli interventi, qualitativamente e quantitativamente consistenti, che gli operatori pubblici hanno direttamente fatto o indirettamente stimolato in questa direzione (principalmente impianti di depurazione) si sono curati del solo aspetto realizzativo trascurando pressoché completamente quello gestionale, tanto che i risultati prodotti in termini di risanamento ambientale sono praticamente trascurabili. Inoltre, gli interventi effettuati o programmati sono finalizzati a riparare i guasti già prodotti, anziché alla loro prevenzione.

Un piano coordinato di interventi finalizzato a superare questi limiti (organizzazione di strumenti gestionali, reti telematiche di controllo degli impianti e di monitoraggio dello stato dell’ambiente) secondo linee progettuali per altro già in larga misura sviluppate, può consentire con investimenti assai modesti e ad alto contenuto di tecnologie di rendere produttivi gli enormi investimenti già effettuati; di fornire alla pubblica amministrazione efficaci strumenti di controllo; di stimolare attività produttive aperte ad un mercato ben più ampio di quello meridionale.

Quanto alle attività turistiche, nel loro nome è stata data via libera a uno sviluppo edilizio selvaggio che ha devastato le località più significative dal punto di vista paesaggistico, e segnatamente le coste; mentre i ritorni di tale politica sono stati assai scarsi dal punto di vista economico e occupazionale per la assenza di una linea progettuale per l’utilizzazione razionale delle strutture realizzate. Per invertire questa tendenza, lo sviluppo del turismo – una attività fondamentale per un equilibrato sviluppo del Mezzogiorno – non può puntare su un ulteriore sviluppo delle strutture immobiliari, ma su un aumento della loro redditività. Ciò può essere ottenuto trasformando l’attuale turismo stagionale “povero” (ormai sottoposto a insostenibile concorrenza da parte dei paesi mediterranei in cui il costo della vita è più basso) in turismo annuale ricco, in ciò facilitati dal fatto che la domanda di turismo espressa dalle classi e dai paesi più ricchi ha una curva stagionale assai più piatta rispetto alla domanda espressa dal nostro paese. Ciò richiede tuttavia che si dia prevalenza al richiamo culturale rispetto a quello climatico; e ciò ci induce a portare la nostra attenzione sull’altra grande risorsa meridionale, quella rappresentata dai suoi beni culturali monumentali e storici, oggi in gran parte abbandonati a un galoppante degrado.

Se l’obiettivo è quello di utilizzare questa enorme ricchezza per promuovere una generale riqualificazione del territorio, stimolando con essa e intorno a essa condizioni di vita e di lavoro capaci di contribuire ad arrestare il flusso della emigrazione giovanile qualificata (e così a salvare la terza grande risorsa meridionale), allora non possiamo limitarci al restauro; ma è necessario programmare una loro complessiva rivitalizzazione facendone il centro di attività culturali, sociali, turistiche, ricreative. Ciò richiede un progetto caratterizzato da un elevato contenuto culturale; ma anche da un elevato contenuto di innovazione scientifica e tecnologica (tecnologie per la diagnosi e il restauro; informatizzazione di biblioteche e musei; coordinamento dei circuiti turistici ecc.); con l’apertura di un ventaglio di indotti imprenditoriali e produttivi ancora una volta proiettati su un mercato ben più ampio di quello meridionale.

Siamo così portati ancora una volta a considerare attività più strettamente produttive (e in particolare industriali). Volendo lanciare prospettive nuove per attività fondate sulla valorizzazione delle risorse il punto di partenza non può essere che quello di valorizzare – in termini di sbocchi di mercato –le attività di questo tipo di cui già oggi esiste un ampio qualificato ventaglio. Citerò a titolo di esempio le industrie agro-alimentari e la produzione enologica e gastronomica; le attività industriali e artigianali nei settori dell’abbigliamento, degli accessori per la persona e per la casa; le attività connesse con la produzione di cultura (musica, editoria, ecc.). Sono tutti settori che producono nel Mezzogiorno un valore aggiunto sproporzionatamente basso rispetto al loro volume di attività e al loro livello di qualità; e ciò principalmente per la carenza di infrastrutture che consentano loro di accedere al mercato con una attrezzatura promozionale adeguata a quella dispiegata dalla concorrenza. Non di rado i prodotti meridionali penetrano il mercato in maniera clandestina, nella forma di imitazione di prodotti firmati, o semiclandestina, cedendo la maggior parte del profitto a imprenditori che li immettono sul mercato con la loro firma.

Tutto ciò considerato, mi sembra evidente che nel Mezzogiorno lo sforzo della programmazione politica nella direzione di promuovere l’innovazione tecnologica scientifica e culturale non debba occuparsi tanto – come oggi si tende a fare – di incentivare strutture di trasferimento dalla ricerca alla grande impresa industriale, tanto più constatando che la grande impresa industriale, anche quella meridionale, sta compiendo di propria iniziativa un notevole sforzo in tale direzione.

È viceversa compito della programmazione politica quello di progettare, promuovere e incentivare strutture di trasferimento verso tutte quelle attività, di cui ho più sopra presentato uno spettro, connesso con la salvaguardia e la valorizzazione della risorse meridionali.

Ciò può essere fatto favorendo il coagulo di soggetti imprenditoriali misti (pubblici, a partecipazione statale, privati) che costituiscano il braccio operativo della pubblica amministrazione per i suoi interventi nei settori dell’ambiente naturale, dei beni culturali, delle attività turistiche, dei servizi e più in generale per la diffusione di una cultura dell’innovazione; e ciò non solo nella fase degli investimenti e delle realizzazioni, ma anche e soprattutto nella successiva fase di gestione.

La grande manifestazione “Futuro Remoto” da noi organizzata, che si aprirà a Napoli il 16 ottobre e il cui “manifesto” culturale ho illustrato alcune settimane fa su queste stesse pagine (Rinascita, n 36) – una manifestazione fatta di mostre, spettacoli, rassegne, conferenze, ecc. finalizzati a diffondere la conoscenza scientifica e le relative proiezioni tecnologiche presenti e future – vuol essere non solo un momento effimero, e tuttavia rilevante, di promozione della diffusione della cultura scientifica, ma anche il momento di lancio del progetto – che stiamo promuovendo – di una grande struttura permanente che possa svolgere la duplice funzione di diffusione della cultura scientifica, e di promozione della innovazione verso i settori diversi da quello della grande impresa industriale. Una funzione – ne sono profondamente convinto – cui la Regione Campania e Napoli, crocevia fondamentale per lo sviluppo meridionale, non possono venire meno, pena la condanna del nostro Mezzogiorno a una scelta di sottosviluppo.

Quanto ho scritto qui è, naturalmente, pensiero mio. Sono stato, però, profondamente influenzato dall’aver partecipato ad alcuni pomeriggi di discussione informale organizzati da Sergio Zoppi, al fine di riceverne stimoli per programmare la futura attività del Formez che egli presiede.

A queste discussioni hanno partecipato oltre a Sergio Zoppi e al sottoscritto, Achille Ardigò, Daniele del Giudice, Biagio De Giovanni, Cosimo Damiano Fonseca, Tullio Gregory, Raffaele La Capria, Thomas Maldonado, Aldo Musacchio.

*Pubblicato su “Rinascita“, numero 40 del 17 ottobre 1987