Trent’anni dopo

La ventinovesima edizione di Futuro Remoto, tenutasi a Napoli a Piazza Plebiscito nel recente ottobre, ha registrato una straordinaria partecipazione di pubblico, a conferma di quanto sia diffusa fra la gente la curiosità nei confronti della scienza e dei suoi raggiungimenti; e di quanto il mondo della ricerca scientifica nella nostra regione, un mondo così ricco di eccellenze, sia disponibile a rispondere a tale curiosità e più in generale a interagire costruttivamente  al proprio interno e con il mondo.

Futuro Remoto è stata ed è la prima “festa popolare” della Scienza in ambito europeo; e la sua prima edizione fu accolta con sospetto dalla fazione più conservatrice della comunità scientifica. E ciò, nonostante fin da allora il suo rigore e la sua ortodossia fossero garantite dalla presenza di relatori la cui credibilità era indiscussa: la prima mostra (l’Immaginario scientifico)  ospitata a Futuro Remoto era firmata da Paolo Budinich, e la conferenza inaugurale fu tenuta da Tullio Regge. I primi di una lunga serie di personaggi eccellenti che si sono alternati da allora fino ad oggi sul palco di Futuro Remoto.

Personalmente, per stabilire con chiarezza i confini entro i quali Futuro Remoto avrebbe operato, scrissi per “Rinascita” una serie di articoli, due dei quali in particolare costituiscono un vero e proprio manifesto culturale e politico: entrambi sono riportati in questo sito.

Il primo (“Con un po’ di fantasia”; Rinascita 36, 19/9/87) non intendo qui commentare; per dedicare la mia attenzione solo al secondo (“C’è una alternativa al modello settentrionale”; Rinascita 40, 17/10/87). In vista della progettazione di Futuro Remoto del prossimo anno – della edizione del trentennale – è giusto e doveroso che ci interroghiamo su cosa resti attuale ancor oggi di quel manifesto; e per quali aspetti vada invece aggiornato e modificato. In quanto segue chiameremo “modello settentrionale” il modello di sviluppo adottato dai paesi industrializzati, basato su una scelta liberistica estrema nell’ambito della cosiddetta globalizzazione; e “modello meridionale” quello da noi proposto nel suddetto manifesto, basato sulla valorizzazione delle risorse ambientali  e culturali non espropriabili, sulla capacità di lavoro potenziata dall’innesto delle nuove tecnologie, su una economia fondata sulle cosiddette industrie della conoscenza a basso impatto ambientale e territoriale, e bassa intensità di energia e di risorse.

Il punto di partenza della nostra analisi è la constatazione che oggi più di allora il modello settentrionale non è sostenibile, nel senso che esso è destinato ineluttabilmente – in un tempo più o meno lungo – al collasso. Non è sostenibile per almeno tre ordini di motivi:

  1. Esso è basato su un consumo crescente di risorse non rinnovabili – in particolare di risorse energetiche fossili – e ciò non è compatibile con un contenitore finito quale è il nostro pianeta.
  2. Esso produce un impatto sull’ambiente che ne modifica alla scala locale e globale i parametri fisico – chimici in misura non compatibile con le esigenze delle attività umane e tale da pregiudicare la nostra stessa speranza di vita.
  3. Una economia basata solo sulle leggi del mercato, il cui unico parametro di merito sia il profitto, non può che amplificare i dislivelli fra classi sociali e fra paesi, fra ricchi e poveri; e queste ingiustizie e queste disuguaglianze sono destinate a trasformare il mondo in una polveriera – un processo degenerativo di cui stiamo già soffrendo le prime avvisaglie.

A meno che non si intervenga prontamente, questi sintomi sono destinati ad aggravarsi via via che il sistema si approssimerà, anche di poco, a una condizione di instabilità  che deve essere governata con provvedimenti capaci di risolvere i problemi di breve termine senza compromettere l’obiettivo strategico che è quello della sostenibilità asintotica.

Obiettivo facile da enunciare ma difficile da centrare, considerato che di norma gli interventi utili sul breve confliggono con le esigenze di lungo termine: un conflitto che si presenta tanto più acuto quanto più decisa sia la scelta liberistica adottata come regolatore dell’economia, e che interessa tutte tre le tipologie di problemi cui abbiamo testé accennato. E non è difficile capire perché.

In regime di libero mercato, il combustibile che alimenta il motore dell’economia è rappresentato dal consumo di beni e di servizi espresso dal sistema della domanda. Ogni qualvolta il volume della domanda tenda  a diminuire, si interviene tempestivamente per sostenerlo: ma il conseguente incremento dell’impiego di risorse (in particolare, di risorse energetiche) tende a peggiorare il rapporto fra le riserve di combustibili e i relativi consumi. Analoghi meccanismi di reazione si manifestano all’interno di ciascuno dei tre sistemi sopra citati.

Sarebbe quindi stupido e miope, per noi, adottare il modello settentrionale. Vorrebbe dire immettersi in un processo che porterebbe ineluttabilmente al collasso globale passando attraverso crisi temporanee e locali sempre più frequenti e gravi relative all’impatto ambientale delle attività umane (dissesti idrogeologici e fenomeni macroclimatici, ecc); crisi dei rapporti fra classi sociali, fra etnie, fra stati ( guerre, terrorismo, ecc). Sarebbe stupido e miope adottare tale modello nel progettare il futuro del Nord industrializzato. Ma ancor più stupido e miope sarebbe sperare in tal modo di attenuare il divario fra il nostro Mezzogiorno e il resto del paese. Il modello settentrionale, per il suo connotato di liberismo estremo, ha come suo naturale effetto quello di amplificare- e non attenuare- la forbice tra regioni ricche e regioni povere. E inoltre, se fra due atleti, ad uno si assegna il ruolo di inseguitore dell’altro, automaticamente si sceglie di misurare la sua posizione in termini di ritardo; paradossalmente, di ritardo in una incosciente corsa verso il baratro.

Se, al contrario, si prenderà coscienza del fatto che il percorso di gara va compiuto in senso opposto (ridurre i consumi, anziché incrementarli; valorizzare le risorse, anziché dissiparle; praticare la solidarietà e l’accoglienza anziché demonizzare il diverso; ecc) allora quello che era un ritardo diviene un vantaggio. E, diviene addirittura realistico anche lo scenario che veda il nostro Mezzogiorno nel ruolo di locomotiva di un processo virtuoso centrato attorno all’area euromediterranea.

Solo così anche questo trentennio passato sarà un tempo costruttivamente guadagnato, e non la più recente delle sconfitte.