Argentina, DNA e nipoti ritrovati *

I fatti risalgono all’Argentina degli anni ‘70, ma restano attuali ancora oggi, e molto oltre il continente latinoamericano. E infatti anche in Italia se ne torna a parlare spesso.

Come poche settimane fa, a dicembre, quando Mario Bravo ha avuto una fortuna molto rara: non solo è stato il 119esimo argentino a ritrovare la sua vera famiglia, a cui la dittatura militare lo aveva strappato appena nato, sui circa 500 che si stima siano stati rapiti; ma è stato anche uno dei pochissimi (soltanto sei) ad aver abbracciato non solo nonni e zii, ma anche la madre, prigioniera politica al momento della sua nascita, ma poi salvatasi e viva ancora oggi.

Gli oppositori veri o presunti della dittatura militare che aveva preso il potere nel 1976, quando venivano rapiti e imprigionati in carceri clandestine, erano di solito destinati a essere torturati e poi uccisi e fatti sparire, finendo nelle schiere dei desaparecidos. Se però una prigioniera era gravida, prima di ucciderla si aspettava che partorisse, per dare i neonati a famiglie di militari o loro amici impossibilitate a procreare, che li registravano con falsi documenti come figli propri. Lo stesso accadeva ai bambini molto piccoli quando erano rapiti insieme ai genitori. La madre di Mario Bravo è stata una delle poche, per motivi fortuiti, a salvarsi ed essere poi liberata.

Il traffico dei bambini non passò a lungo inosservato. I familiari dei piccoli rimasti in vita – e primi fra tutti i loro nonni, genitori dei desaparecidos – iniziarono presto a insospettirsi e poi a capire cosa stava succedendo. A volte venivano informati dalle infermiere che avevano coadiuvato il parto, o da una compagna di cella liberata. O il vicino di casa di un militare raccontava perplesso del neonato spuntato d’improvviso da una madre mai vista col pancione. Il susseguirsi di notizie simili rese presto chiaro quel che stava succedendo. E molte madri dei giovani scomparsi, riunite nella famosa associazione delle Madres de Plaza de Mayo, si resero conto di essere anche nonne di bambini ancora in vita, e per cercarli crearono un’altra associazione: le Abuelas («nonne» in spagnolo) de Plaza de Mayo.

La vicenda in sé è abbastanza nota, ma meno noto è il ruolo che ha avuto in essa un pugno di scienziati, che ha aiutato le madri e le nonne nelle ricerche. E soprattutto, l’importanza che queste indagini scientifiche hanno avuto non solo per i diretti interessati, ma per la società argentina nel suo insieme, per le possibilità di fare giustizia dei responsabili, e per gli scienziati stessi.

 

Le nonne indagano
Le nonne intrapresero vere indagini poliziesche, raccogliendo testimonianze, consultando documenti, pedinando i militari sospetti. E presto iniziarono a individuare alcuni dei presunti nipoti. Ma allora veniva il difficile: come dimostrare chi erano davvero quei bambini, smentendo i documenti ufficiali?

L’idea giusta venne nel 1979 da un articolo di giornale su uno dei primi riconoscimenti di paternità: un padre recalcitrante era stato inchiodato alle sue responsabilità da un’analisi del sangue che ne dimostrava il legame biologico col bambino. Il concetto era chiaro: nel sangue si conserva qualcosa che, a differenza dei tratti somatici mutevoli o dei documenti contraffatti, resta immutato all’interno della famiglia. Le nonne si chiesero allora – visto che i genitori dei bambini non c’erano più – se l’identità dei piccoli si potesse accertare confrontandoli con loro. Qui entrò in gioco la scienza, e precisamente la genetica.

Quel che si trasmette da una generazione all’altra, come sappiamo, è il DNA. Oggi è un gioco da ragazzi analizzare il DNA di una persona e dei suoi presunti familiari e verificare se le somiglianze denotino un vincolo di sangue. Ma all’epoca queste analisi del DNA non erano praticabili. Fino a poco prima, l’unica possibilità era di analizzare proteine del sangue come quelle che determinano il gruppo sanguigno. Se il presunto figlio ha un gruppo sanguigno incompatibile con i genitori, ciò esclude la paternità; se però risulta compatibile, questo non dà alcuna certezza, perché i gruppi sanguigni sono pochi, e il bambino sarà compatibile anche con le migliaia o milioni di altre coppie che hanno lo stesso gruppo.

I veri test di paternità, come quello riferito dal giornale, erano nati pochi anni prima quando si era scoperto un altro gruppo di proteine del sangue: le cosiddette proteine HLA, da cui dipende la compatibilità (se coincidono) o il rigetto degli organi trapiantati. Il sistema HLA comprende diversi geni, ciascuno dei quali può presentarsi in decine di varianti; esiste quindi un’enorme varietà di combinazioni possibili, e ciascuna è presente solo in una frazione minima della popolazione. Perciò, se un bambino non è figlio di una coppia, è molto improbabile che abbia una combinazione di proteine HLA simile ai presunti genitori. Se le combinazioni sono compatibili, con semplici formule si può calcolare la probabilità che il figlio appartenga davvero alla famiglia in questione (in pratica, si calcola il numero di famiglie che per caso avranno la stessa combinazione HLA nella popolazione d’appartenenza, alle quali il piccolo potrebbe quindi appartenere).

Con l’appoggio di un genetista argentino in esilio a New York, Víctor Penchaszadeh, e dell’associazione degli scienziati statunitensi, la American Association for the Advancement of Science, le Abuelas riuscirono a radunare una squadra di esperti che analizzò il loro caso e adattò le formule dei test di paternità alla relazione nonno-nipote. E per paradosso, anche se questi all’epoca erano esami d’avanguardia, proprio a Buenos Aires si trovava un laboratorio avanzato in grado di eseguirli, costruito su iniziativa della dittatura per eseguire trapianti.
Torna la democrazia

Nel 1984, appena tornata la democrazia, le Abuelas approfittarono subito del nuovo strumento per fare causa a una delle 25 famiglie di rapitori che erano certe di aver smascherato: il comandante di polizia Ruben Lavallen e la sua compagna, che per l’anagrafe erano i genitori di Paula Lavallen. Secondo le indagini delle Abuelas la bambina era invece Paula Logares, rapita nel 1978 con i genitori, poi scomparsi.
Il processo partì e il risultato delle analisi fu netto: gli HLA di Paula erano identici per metà al nonno paterno e per metà al nonno materno, ed erano varianti rare fra gli argentini, per cui la probabilità di ritrovarle in una persona estranea alla famiglia era minima. Con il 99,9% di probabilità, le Abuelas avevano ragione: quella bimba era Paula Logares.

Questa però non era ancora una prova. Era pur sempre possibile che la bambina fosse compatibile anche con i Lavallen. Se i test avessero dato questo esito, sarebbe stata una rara coincidenza in cui uno dei due risultati positivi era dovuto al caso. La genetica sarebbe stata incapace di dirimere la controversia. E il giudice, in base ai documenti e alle testimonianze, avrebbe probabilmente confermato che Paula era figlia del poliziotto.

Ma i Lavallen rifiutarono «l’umiliazione dell’esame». Così il giudice, considerando l’insieme dei fatti, riconobbe che la bimba era Paula Logares e ne ordinò la restituzione alla famiglia autentica, confermata poi con sentenza definitiva della Corte Suprema dopo un’ulteriore trafila legale. Così, nel dicembre del 1984, grazie alla tenacia delle nonne e a un pugno di genetisti volenterosi, Paula Logares fu restituita alla sua vera famiglia.
Confortate dal successo le Abuelas proseguirono le ricerche e la battaglia politica, ottenendo l’approvazione legale del loro metodo e l’istituzione, nel 1987, della Banca nazionale dei dati genetici: un istituto destinato a raccogliere i campioni di sangue dei familiari e condurre le analisi sui giovani, destinato a operare fino al 2050 così da permettere a chiunque di verificare la propria identità in qualsiasi momento, anche dopo il decesso dei nonni, come infatti sta avvenendo in questi anni.

Non per questo i guai erano finiti. Per imperizia dei magistrati ci furono errori anche clamorosi, e una minaccia veniva dallo stesso successo delle Abuelas: centinaia di nonni e altri familiari stavano donando i campioni alla Banca, e sempre più bambini venivano esaminati, così che il rischio di una coincidenza casuale diventava sempre più alto. Servivano strumenti più precisi, capaci di catturare più informazione genetica e rispondere con un minor margine d’incertezza.

 

Dalle proteine al DNA
Per fortuna i genetisti avevano sviluppato nuovi metodi che permettevano un salto di qualità: anziché le proteine del sangue, si poteva leggere direttamente la sequenza del DNA.

Il primo fu un DNA un po’ particolare, il DNA mitocondriale. Mentre la maggior parte del DNA si trova nel nucleo delle cellule, una piccola frazione è localizzata nei mitocondri, gli organelli che fanno da centrali energetiche della cellula. È un DNA minuscolo, quindi facile da analizzare, ma molto vario da persona a persona, e che ciascuno riceve esclusivamente dalla madre, perché i mitocondri si trasmettono solo nell’ovulo e non negli spermatozoi. Tutti i figli di una stessa madre hanno perciò il DNA mitocondriale identico alla madre, alla nonna materna, alla bisnonna materna e così via. Basta che sia disponibile la nonna materna – o un qualsiasi altro familiare della stessa linea materna – per stabilire se un individuo può appartenere alla famiglia. Se il DNA mitocondriale del nipote non coincide, l’appartenenza è esclusa; se coincide, l’appartenenza è probabile.

La genetista di Berkeley Mary-Claire King, fin dall’inizio nella squadra che aveva aiutato le Abuelas, si rese conto che questo DNA era perfetto per le loro esigenze e dal 1988 lo introdusse come potente metodo di prima scrematura, per escludere in un sol colpo l’appartenenza del bambino alla gran parte delle famiglie possibili e proseguire i confronti solo con quelle compatibili, abbattendo il rischio di coincidenze causali. «Credo che Dio abbia messo sulla Terra il DNA mitocondriale apposta per le Abuelas» dichiarò King.

Ancor più risolutivo sarebbe stato poter leggere il DNA nucleare, che contiene la stragrande maggioranza dell’informazione genetica di un individuo. Ma c’era un problema: in vaste regioni del DNA nucleare gli essere umani sono tutti identici, che si tratti dei genitori biologici, dei rapitori o di un aborigeno australiano. La svolta venne quando Alec Jeffreys, dell’Università di Leicester nel Regno Unito, individuò certe regioni del DNA nucleare che, al contrario, sembrano fatte apposta per l’identificazione personale, i cosiddetti minisatelliti e microsatelliti: tratti formati da una breve sequenza ripetuta in decine o centinaia di copie consecutive. Nell’evoluzione questi tratti si sono diversificati in numerose varianti che differiscono per il numero delle ripetizioni e dunque per la lunghezza, facile da rilevare. Dai primi anni ’90 l’esame dei microsatelliti è divenuto fattibile e si è via via affermato, e resta tutt’oggi il fulcro dei test genetici forensi. Con questa tecnica, coadiuvata da ancora altre analisi sviluppate in seguito, si è raggiunta praticamente la massima certezza che la genetica può dare.

 

Nuove tecnologie per una nuova società
Non per questo le tecniche hanno smesso di evolversi per rispondere alle nuove esigenze della società. Un nuovo problema si pose man mano che i bambini crescevano, e con la maggiore età dovevano acconsentire ai prelievi per le analisi. Non per tutti era facile, per i timori che la scoperta potesse sconvolgere le loro vite, e per non mandare in carcere quelli che fino ad allora avevano considerato i loro genitori, che – eccetto i pochi casi di buona fede – venivano perseguiti per i rapimenti. All’inizio in caso di rifiuto si ricorse ai prelievi di sangue forzati, che presto però furono giudicati inaccettabili. Ancora una volta venne in soccorso la tecnologia: era ormai divenuto possibile recuperare e analizzare il DNA che lasciamo sugli oggetti personali, come spazzolini e cicche di sigaretta; per quanto poco e deteriorato fosse, spesso si riusciva a ricavarne informazione sufficiente.

Bastava quindi acquisire questi oggetti per procedere alle analisi. «Così si arriva lo stesso all’identificazione e al processo, ma il giovane ha la serenità di non essere stato lui a mandare in carcere i “genitori”. Il turbamento è minore e il cammino psicologico per ristrutturare la propria identità è più facile» spiega la presidente delle Abuelas, Estela Carlotto, che solo meno di due anni fa, nell’estate 2014, dopo quasi quarant’anni di ricerche ha anch’essa ritrovato il suo nipote, Ignacio Guido. E con lei, finora, 119 dei nipoti scomparsi hanno ritrovato la loro vera famiglia.
Identità ricostruite

Un problema sollevato fin dagli inizia delle ricerche è quello di come avrebbero reagito i bambini alla scoperta C’era chi ne era sinceramente e ragionevolmente preoccupato, temendo traumi psicologici catastrofici. E agitava queste paure strumentalmente a favore dei rapitori, per sostenere che ormai «quel che è stato è stato» e i bambini non dovevano vivere altri traumi, ma restare, per il loro bene, con chi li aveva cresciuti.

In realtà i timori che i piccoli potessero essere sopraffatti dal dolore con effetti devastanti non si sono mai verificati, né agli inizi né man mano che i nipoti crescevano diventando adolescenti e poi adulti. «È stato duro, ma non c’è stata confusione. Per attraversare l’esperienza della restituzione serve molto sostegno… stai ristrutturando la tua vita, ti rendi conto di cosa sei e non sei» ha dichiarato Paula Logares, la prima nipote restituita.

 

Giustizia per tutti
Della lunga lotta delle Abuelas, come si diceva, non hanno beneficiato solo le loro famiglie. Poco dopo il ritorno della democrazie infatti i governi, anche per paura di un esercito ancora potente, vararono una serie di leggi che di fatto garantivano l’impunità agli assassini dei desaparecidos e ai perpetratori degli altri crimini della dittatura, dapprima per i militari di basso grado «che avevano solo eseguito ordini», e poi via via fino ai vertici.

Ma l’impunità aveva una falla: non includeva i rapimenti dei bambini, che grazie ai test genetici si continuavano a scoprire e non potevano essere relegati nelle nebbie di un passato da archiviare. Così continuarono perlomeno i processi agli appropriatori dei piccoli. Ma non solo.

Man mano che emergevano la quantità e la sistematicità dei rapimenti, fu evidente che non poteva trattarsi di iniziative individuali: una macchina così pervasiva doveva essere organizzata dall’alto. Così furono chiamati a rispondere dei rapimenti anche i capi delle prigioni e poi i livelli superiori della catena di comando, fino agli ex dittatori. E non era finita.

Continuare a perseguire i rapitori, e perdonare chi si era macchiato del reato molto più grave di omicidio, era palesemente incoerente. Questa constatazione è stata uno dei principali motivi per cui, fra il 2001 e il 2007, le leggi di impunità sono state progressivamente annullate dalla magistratura, e sono ripresi centinaia e centinaia di processi ai responsabili dei crimini più vari. Così il lavoro delle Abuelas e dei genetisti è stato uno strumento di giustizia non solo per le famiglie colpite, ma per l’intera società argentina.

 

Il dono per gli scienziati
Gli altri protagonisti della caccia ai nipoti sono stati gli scienziati. Che cosa ha significato questo lavoro per loro? Victor Penchaszadeh, uno dei genetisti più coinvolti, non ha dubbi: «questa sfida ha permesso alla genetica, che così a lungo nei decenni passati aveva servito gli interessi del razzismo e del nazismo, di porsi al servizio della vita» e «redimersi come scienza di fronte alla società». Al giorno d’oggi tanta enfasi può apparire retorica e forse ingiustificata. Ma lo è meno se si guarda con gli occhi di quegli anni. All’epoca il primo farmaco ricombinante, l’insulina, iniziava appena a comparire. Il DNA non incastrava gli assassini nei serial TV, e i geni non competevano con gli oroscopi nel pronosticare il successo sportivo del figlio, né surclassavano gli studi di araldica nel risalire a remote parentele. Né, più seriamente, si intravedeva nel genoma uno strumento per offrire a ciascun malato terapie su misura.

La genetica umana rievocava ancora in molti le aberrazioni razziste che avevano preso piede in tanta parte dell’Occidente pochi decenni prima, fino a culminare negli orrori del nazifascismo. All’inizio del secolo – ricorda Penchaszadeh – le concezioni razziste promossero negli Usa la sterilizzazione forzata di decine di migliaia di persone catalogate come asociali, ritardate o difettose, e fu ristretta l’immigrazione delle «razze» slave e del Sud Europa in quanto geneticamente inferiori alle nordeuropee. E queste tesi, sebbene infondate e non giustificate dalle conoscenze dell’epoca, erano suffragate dai più noti genetisti. Il culmine si toccò con i nazisti, che commisero le atrocità più abiette in nome dell’igiene razziale. «I più famosi scienziati tedeschi convinsero i politici della correttezza di quelle vedute, offrendo una facciata scientifica al genocidio».

Dopo la seconda guerra mondiale, la genetica umana impiegò anni a riprendersi dal discredito. In quest’ottica è più comprensibile che per Penchaszadeh il ritorno di Paula Logares con i suoi familiari abbia segnato uno spartiacque, il momento in cui la riabilitazione poteva dirsi compiuta.

*La vicenda delle Abuelas de Plaza de Mayo è una di quelle narrate nel libro: «Come provarlo? La scienza indaga sui diritti umani», Laterza, Roma-Bari, 2010, con prefazione di Marcello Flores