Storia del concetto scientifico di razza

L’altro è, etimologicamente, il diverso. Il diverso da me. Ma anche il diverso da noi. Lo studio del «diverso da me» ha interessato e interessa svariate scienze, dall’immunologia alla psicologia. Ed è a queste discipline che demandiamo per l’approfondimento dei forti correlati biologici, mentali e filosofici che la tematica si trascina dietro. Lo studio del «diverso da noi», cioè dalle persone che normalmente frequentiamo e a cui tacitamente alludiamo quando, appunto, pensiamo a «noi», ha suscitato e suscita un interesse analogo, se non superiore in svariate altre scienze: dall’antropologia alla storia. I correlati filosofici che, da sempre, si trascina dietro il concetto di altro inteso come «diverso da noi» sono enormi. Le ricadute sociali e politiche dell’interpretazione di questo concetto attraversano l’intera storia umana. E hanno avuto, ahimé troppo spesso, epiloghi sanguinosi e spesso sanguinari. A ben vedere, gli etnocidi che costellano la storia, anche recentissima, dell’uomo sono il frutto di una interpretazione, tragica, del concetto di altro inteso come «diverso da noi».

Negli ultimi secoli, ma soprattutto nel XX secolo, si è tentato più volte con scarso successo di conferire dignità scientifica alla percezione dell’altro. Ebbene oggi è proprio una scienza, la genetica, a risolvere, decisamente e definitivamente, il problema filosofico e (ci auguriamo) sociale e politico del concetto di altro inteso come «diverso da noi»: nell’ambito della specie Homo sapiens l’altro, semplicemente, non esiste.

Ci riferiamo, naturalmente, alla nozione di razza, utilizzata in biologia per classificare insiemi di individui di una medesima specie che presentano caratteristiche comuni e distintive. Tipiche sono le razze canine: ciascuno di noi è in grado di distinguere un cane di razza bassotta da un cane pastore tedesco. Questa nostra capacità di distinguere cani di razza diversa ha dei fondamenti biologici. Benché siano interfecondi e appartengano, quindi, alla medesima specie, un bassotto è geneticamente «altro» da un pastore tedesco. Nel senso che la variabilità genetica interna all’insieme dei cani bassotto è inferiore alla variabilità genetica media che esiste tra l’insieme dei bassotti e l’insieme dei pastori tedeschi.

Esistono razze umane? Esistono «altri diversi da noi» nell’ambito della comune specie umana? Un bianco è diverso da un nero? E se c’è una qualche differenza, dove ha origine?

Queste domande non sono affatto recenti. Nel corso della storia sono affiorate alla mente di tutti coloro che, compiendo lunghi viaggi, si sono imbattuti in comunità con usi, costumi, culture e persino caratteri morfologici differenti. Molti hanno sentito il bisogno di classificarle, queste comunità. Già nel V secolo a. C., per esempio, Erodoto si impegnò nella descrizione dei diversi popoli, soprattutto mediterranei, che aveva direttamente conosciuto o di cui aveva avuto notizia, indicandone il nome, la collocazione geografica, l’aspetto fisico, gli usi e i costumi. Per questo Erodoto si è meritato la definizione di padre delle scienze antropologiche, oltre che di padre delle scienze storiche.

Erodoto ha il grande merito di aver scritto in modo ordinato i risultati dei suoi studi e delle sue conoscenze. E Aristotele, un secolo dopo, ha elaborato una classificazione che costituisce una vera e propria tassonomia della diversità umana. Tuttavia anche altri popoli mediterranei, a cominciare dagli Egizi e dai Fenici, conoscevano svariate popolazioni «diverse»: da quelle nere dell’Africa sub-sahariana a quelle dell’India o delle steppe euroasiatiche. I Romani entrarono, infine, in contatto un po’ con tutte le diverse popolazioni dell’Africa e dell’Eurasia: comprese le popolazioni dell’Asia orientale, conosciute per via indiretta attraverso il commercio.

 E così, nel I secolo d. C., Plinio il Vecchio inizia a chiedersi dove mai abbia origine tanta diversità. La sua risposta è piuttosto ingenua: la diversità anche morfologica tra le diverse popolazioni è una conseguenza diretta del clima. Nelle fredde regione settentrionali, quelle più lontane dal Sole, scrive Plinio: «le razze hanno pelle bianca come la neve, con capelli gialli che cadono diritti». Gli africani, invece, sono «bruciati dal calore del corpo celeste che è loro vicino, e nascono con un aspetto bruciacchiato, con capelli e barba riccioluti».

L’ingenuità di Plinio il Vecchio è certo estrema. Ma alla teoria climatica della diversità morfologica e culturale umana avevano già aderito, prima di Plinio, illustri studiosi, come Ippocrate e Aristotele, e aderiranno, dopo Plinio, studiosi altrettanto illustri, da Tolomeo a Galeno. Tutti pensano che il clima, la dieta, la natura dei luoghi e, in una sola parola, l’ambiente abbiano la capacità di influenzare le caratteristiche morfologiche e il modo stesso di comportarsi degli uomini. In discussione, semmai, è come l’ambiente esercita queste influenze. Agendo sul seme o agendo direttamente sul corpo, come è incline a pensare il vecchio Plinio? Certo è evidente a tutti che l’influenza dell’ambiente non è immediata: un africano dalla pelle nera non cambia colore se emigra nell’Europa del Nord e, viceversa, nessun bianco è mai diventato nero andando a vivere in Africa. Tuttavia molti pensano che se un uomo bianco va in Africa modifica se non l’epidermide, almeno i suoi comportamenti: va cioè incontro a quello che è definito un processo di «tropicalizzazione». Come dire: l’influenza dell’ambiente può essere diretta e, tutto sommato, rapida. Altri pensano, invece, che l’influenza dell’ambiente agisca sulla trasmissione dei caratteri ereditari. E sia, quindi, più indiretta e lenta. Ma abbastanza potente da generare diverse razze umane.

Ora, non e’ ben chiaro quale sia l’origine della parola razza. Probabilmente deriva dal latino radix o ratio, o magari dall’arabo raz. Ma, qualsiasi sia la sua etimologia, è certo che a lungo la parola non ha avuto il significato attuale, di insieme di persone con comuni caratteristiche fisiche. Per gli antichi la parola razza richiamava più l’identità familiare che non l’identità genetica.

Anche nel pensiero cristiano, la filogenesi delle razze (o meglio, la teoria prevalente sulla filogenesi delle razze) ha origine nella storia familiare di Noè e dei suoi tre figli: Cam, Sem e Iafet. Cam, colpito dalla maledizione divina, dà origine a una famiglia con carnagione scura che andrà ad abitare l’Africa. Alcuni esegeti delle Sacre Scritture pensano che il colore della pelle dei Camaniti sia generata da un’affezione del sangue. Altri pensano che sia dovuta all’immaginazione che la mamma sul feto di Cush, uno dei figli di Cam. Tutti pensano che le caratteristiche somatiche e comportamentali appartengano alla famiglia e siano dovute alla espressa volontà di Dio.

Ciò vale, naturalmente, anche per i discendenti di Sem, che popoleranno il Medio e il Lontano Oriente. E vale per i pii discendenti (i Greci e i Latini) del pio Iafet, che andranno ad abitare in Europa, diventeranno cristiani ed elaboreranno teorie sulle razze umane indulgendo all’autoglorificazione. In definitiva, per molti autori cristiani le grandi razze non sono altro che le grandi famiglie discendenti da un progenitore comune: Noè.

Il concetto attuale razza, come gruppo di persone con caratteristiche fisiche e comportamentali definite, ha una storia piuttosto recente. Risale al XVI secolo, dopo le grandi scoperte geografiche e la scoperta, da parte degli Europei, di ambienti, popolazioni, culture sconosciute. Tanta diversità spinge Carlo Linneo a riprendere il progetto aristotelico e tentare una tassonomia, una classificazione ordinata. Il genere umano, Homo, sostiene Linneo nella decima edizione del suo Systema naturae del 1758, appartiene all’ordine dei primati ed è costituito da due specie: Homo sapiens e Homo troglodytes. A quest’ultima appartengono le scimmie antropomorfe, tre cui gli orangutang. La specie sapiens è costituita invece da diversi sottogruppi, o razze: europeus, asiaticus, americanus, afer (africani), monstruosus e ferus (uomini inselvatichiti). Ma come distinguere tra questi gruppi, cui appartengono persone che differiscono in svariati modi e non senza continuità? Linneo sceglie alcuni caratteri che ritiene significativi. Compreso il modo di vestire. Rendendo con ciò evidente che la scelta dei caratteri razziali è tutt’altro che facile e tutt’altro che oggettiva. Tuttavia le differenze culturali e somatiche esistono. E molte sono le domande che affollano la mente dei naturalisti.

Qual è l’origine di tanta diversità culturale ma anche somatica? Come mai esistono civiltà avanzate e civiltà primitive? E c’è una correlazione tra i caratteri culturali e i caratteri somatici dei diversi popoli?

Risposte che sono destinate ad avere grande influenza sono quelle del francese George-Louis Leclerc conte di Buffon, uno dei progenitori del pensiero evoluzionista (evoluzione biologica). Nel secondo volume della sua Historie Naturelle, pubblicato nel 1749 e dedicato all’Historie de l’homme, Buffon propone una ipotesi sull’origine delle razze che è proprio di tipo evolutivo: «dopo essersi moltiplicati e diffusi sull’intera superficie terrestre, [gli uomini] andarono incontro a diversi cambiamenti dovuti all’influenza del clima, del cibo, dei modi di vita, delle malattie epidemiche e della mescolanza continua tra individui più o meno simili. All’inizio questi cambiamenti non erano così marcati, e determinavano soltanto varianti individuali; in seguito queste varianti divennero varianti della specie, perché l’azione continua di queste stesse cause le rese più generali, più marcate e più permanenti. Tali varianti si trasmettono di generazione in generazione, come le deformità e le malattie vengono trasmesse da padri e madri ai loro figli». Tuttavia, Buffon non si limita ad attribuire all’ambiente le caratteristiche morfologiche dei diversi tipi umani, come è ancora senso comune nel XVIII secolo. All’ambiente attribuisce, senza esitazione, anche la diversità culturale. E, soprattutto, definisce una scala gerarchica tra le diverse civiltà. Anzi, definisce anche una scala gerarchica tra le diverse caratteristiche morfologiche delle razze umane, a loro volta conformate a una scala di bellezza. Per Buffon i bianchi sono portatori di una bellezza somatica superiore, mentre i neri sono i più vicini alla animalità. Allo stesso modo tra i bianchi il livello di civiltà è il più alto, mentre tra i neri è il più basso.

In questa opera di classificazione gerarchica delle morfologie e delle culture umane, Buffon assume che ci sia una correlazione tra morfologia e cultura; che sia possibile collocare ciascun individuo in un gruppo (razza) portatore di caratteri morfologici e culturali precisi e che la massima variabilità interna a ogni gruppo (razza) è comunque inferiore alla variabilità media tra gruppi (razze). Ovvero: un uomo, un qualsiasi uomo, di razza nera, avrà necessariamente sia caratteristiche morfologiche che comportamentali diverse e inferiori rispetto a un uomo, a un qualsiasi uomo, di razza bianca.

Buffon è un grande naturalista. Ma commette un errore che molti scienziati commettono e che Tzevetan Todorov puntualmente rileva. Buffon parte dalle sue grandi competenze in fatto di scienze naturali, cerca di trasporre all’uomo ciò che ha osservato in natura e si avventura, infine, in una serie di affermazioni sul genere umano che non sono scientifiche, perché non sono suffragate né da fatti, né da osservazioni, ma solo da visioni metafisiche, inferenze logiche e pregiudizi.

Le risposte sono ancora insoddisfacenti, persino sbagliate, ma certo con Linneo e Buffon il problema dell’altro inteso come «diverso da noi» diventa un problema scientifico. Un problema su cui si esercitano molti studiosi di approccio scientifico nel ‘700, compreso Immanuel Kant. Che  riconosce immediatamente quanto sia scivolosa la corda della classificazione e dell’origine della diversità umana. Kant, infatti, propone una classificazione delle razze umane e una ipotesi sulla loro origine. Ma poi riconosce che il tutto è piuttosto superficiale e fondato su una pressocché assoluta mancanza di dati. Il problema scientifico esiste: quella che non c’è ancora è la capacità di fornire risposte scientifiche.

E’, dunque, per iniziare a colmare la lacune dei dati di fatto che il giovane Johann Friedrich Blumenbach dedicala sua tesi di laurea in medicina al De generis humani varietate nativa e nel 1775 a Göttingen propone una classificazione delle razze umane basata, almeno in parte, su osservazioni di tipo quantitativo, come lo studio della forma del cranio. Blumenbach, che è oggi considerato il padre dell’antropologia fisica, sostiene che la specie umana è una sola, distinta in cinque diverse razze: la caucasica, formata dagli abitanti dell’Europa, dell’Africa settentrionale, del Medio Oriente e dell’India; la mongolica, formata dagli orientali ma anche da Finlandesi e Lapponi; la etiopica, formata dalle popolazioni nere dell’Africa sub-sahariana; l’americana, formata dagli indigeni di quel continente; e, infine, la malese, formata dagli abitanti degli arcipelaghi del sud-est asiatico e della parte dell’Oceania allora conosciuta. Blumenbach  afferma la sua convinzione che l’uomo è nato nel Caucaso, nell’area dove tuttora vivono le genti più belle. E che tutte le altre razze siano state il frutto di un processo evolutivo e, in qualche modo degenerativo, della razza bianca originaria.

L’idea della degenerazione non è nuova. Essa appartiene da tempo alla mitologia delle razze umane. E, in particolare, appartiene all’idea monogenetica: secondo cui, appunto, l’umanità ha una origine unica e comune. I fautori di questa idea sono convinti che Adamo ed Eva, progenitori dell’intera umanità, furono creati da Dio con la pelle bianca. E che anche Noè e i suoi figli fossero bianchi. Poiché la razza bianca è quella di più piacevole aspetto e di più alta cultura, va da sé che il processo di diversificazione delle razze è stato in realtà un processo di degenerazione. A nessuno viene in mente, neppure a Blumenbach, che la razza bianca appare di più piacevole aspetto e di più alta cultura a osservatori che sono bianchi e depositari della cultura dei bianchi.

L’idea monogenetica è quella prevalente, tra i pensatori cristiani, perché è conforme alla narrazione biblica dell’origine dell’uomo. Tuttavia esistono anche idee poligenetiche, che prevedono svariati atti creativi da parte di Dio. Ogni razza, secondo questa ipotesi, sarebbe il frutto di un atto di creazione diverso e indipendente. E la gerarchia tra le razze umane non sarebbe il risultato di una diversificazione degenerativa difficile da spiegare, ma sarebbe una limpida struttura apriori. I bianchi sono superiori agli altri per decisione originaria di Dio.

Sia il frutto di una evoluzione degenerativa o di un originario atto creativo, pochi dubitano che le razze esistano e che le differenze biologiche tra loro siano enormi. Tanto che più d’uno mette in dubbio la completa interfertilità tra i diversi gruppi di umani. Insomma, l’umanità più che da diverse razze sarebbe costituita da diverse specie.

Quella della gerarchia tra le razze (o, addirittura, tra le specie) diventa una teoria scientifica intorno alla fine del ‘700, in seguito agli studi frenologici di Franz Joseph Gall che sviluppa gli studi di antropologia fisica di Blumenbach e inizia a misurare in modo sistematico le dimensioni dei crani e le forme delle teste, correlandole sia alle capacità intellettuali che morali. Alcuni anni dopo, il francese Lambert-Adolphe-Jacques Quételet inaugura la disciplina della biometria e l’anatomista svedese Anders Retzius introduce negli studi di biometria applicati all’uomo un parametro quantitativo semplice e preciso, l’«indice cefalico»: il rapporto tra larghezza e lunghezza del cranio. Il parametro ha un indubbio successo e resterà un fondamento dell’antropometria per un secolo e oltre. La sua fortuna inizierà a declinare solo dopo la seconda guerra mondiale, quando sarà dimostrato che l’indice ha una scarsa correlazione con l’ereditarietà e che è estremamente sensibile a effetti ambientali a breve termine.

Occorre attendere il 1859 e la pubblicazione dell’Origine delle specie perché Charles Darwin metta un primo punto fermo sul problema delle razze: le specie viventi, compresa quella umana, non sono entità statiche, ma si modificano nel tempo ed evolvono adattandosi ai cambiamenti dell’ambiente. Non ci sono specie o razze migliori in assoluto, ma solo specie e razze più o meno adatte a sopravvivere in un ambiente che cambia.

Un secondo e più diretto punto fermo Charles Darwin lo mette dodici anni dopo, nel 1871, quando pubblica L’origine dell’uomo. Darwin sostiene la completa interfertilità tra le razze umane, perché ciascuna «confluisce gradualmente nell’altra». L’uomo forma una sola e unica specie, perché quelle che vengono chiamate razze non sono abbastanza distinte da abitare una medesima regione senza fondersi. Anzi, queste presunte razze sono così simili le une alle altre, che non esistono due autori che abbiano ottenuto, cercando di classificarle in modo obiettivo, il medesimo risultato. Cosicché le differenze tra queste presunte razze, benché talvolta appaiano vistose, sono del tutto irrilevanti. Mentre, al contrario, vi è una grande uniformità nelle caratteristiche davvero importanti, comprese quelle mentali: malgrado le apparenti differenze che gli africani o gli indigeni d’Amazzonia mostrano rispetto agli europei, Darwin si dice colpito ogni volta che rivela persino dai tratti più piccoli del carattere «come le loro menti siano simili alle nostre».

L’origine della grande variabilità tra gli uomini, tuttavia, esiste, sostiene Charles Darwin. Ed è probabilmente il frutto di una selezione sessuale. Una selezione che il teorico dell’evoluzione biologica ritiene distinta dalla naturale.

Quello di Darwin è un autentico e autorevole manifesto antirazziale. Il primo contributo chiaro che il pensiero scientifico propone contro le discriminazioni tra le razze. Queste, sostiene Darwin, sostanzialmente non esistono.

Un ulteriore contributo all’idea che l’«altro da noi» non esiste, viene data settant’anni dopo dall’antropologo americano Franz Boas. Che nel 1940 pubblica uno studio sui caratteri antropometrici e morfologici dei figli degli immigrati negli Stati Uniti d’America in rapporto a quelli dei parenti rimasti nella madre patria. Benché con qualche superficialità di tipo statistico, Boas dimostra che gli effetti ambientali a breve termine sono importantissimi su parametri come la statura e che non ci sono sostanziale differenze tra immigrati provenienti da regioni diverse.

Non è l’antropometria, ma la genetica a porre la parola fine al dibattito sulle razze. Lo studio della caratteristiche genetiche ha dimostrato che la specie umana è una sola, che ha avuto medesima origine in Africa, circa 200.000 anni fa, e che al suo interno non ci sono ragioni obiettive per individuare una tassonomia di profili genetici ben definiti. Per tre motivi, molto ben chiariti dagli studi sistematici dell’italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza.

  1. Se si considerano singoli caratteri, o meglio singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, per la frequenza dei singoli geni, tutte le popolazioni umane si sovrappongono. E nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall’altra.
  2. C’è una grande variabilità genetica, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro individuo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens sapiens.
  3. La variabilità genetica all’interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o tra gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni. C’è maggiore differenza tra due italiani posti all’estremo di un profilo genetico, che non tra un italiano e un etiope posti al centro dei profili delle rispettive popolazioni. Le differenze tra le varie popolazioni della Terra sono continuamente annullate dalle migrazioni e dalla fusione tra individui che abitano le medesime regioni. Le differenze vistose che pure ravvisiamo tra le diverse popolazioni, per esempio il colore della pelle, sono marginali. Effetto di lungo periodo del clima e, probabilmente, della selezione sessuale.

Siamo ora in grado di rispondere a tutte le domande che ci siamo posti all’inizio.

Domanda: esistono razze umane?

Risposta: no.

Domanda: esistono «altri diversi da noi» nell’ambito della comune specie  umana?

Risposta: ciascuno di noi è diverso da ogni altro, nessuno è «diverso da noi», qualsiasi sia il gruppo di umani che intendiamo con noi.

Domanda: un bianco è diverso da un nero?

Risposta: no. La massima diversità tra i bianchi e la massima diversità tra i neri è di gran lunga maggiore di quella media tra un bianco e un nero.

Domanda: e se c’è una qualche differenza, dove ha origine?

Risposta: le differenze che ravvisiamo sono o sono irrilevanti o sono una costruzione della nostra mente. L’«altro da noi» semplicemente non esiste.