Il ruolo della “razza” nel razzismo

Per cominciare, conviene soffermarsi su un paradosso: tutt’oggi, per nominare il sistema di idee, discorsi, simboli, comportamenti, atti e pratiche sociali, volti a stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare, perfino sterminare alcune categorie di persone, si adopera il termine razzismo, che etimologicamente rimanda alla credenza nelle “razze” umane (Rivera, 2007).


Eppure la stessa “razza” – criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla – è categoria tanto infondata quanto essa stessa paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali.

Ricordo che nel 1950, il determinismo biologico fu formalmente denunciato dall’UNESCO nella Dichiarazione sulla razza, considerata il primo documento ufficiale a negare la correlazione tra le differenze fenotipiche e quelle psicologiche, intellettive, comportamentali. Tuttavia, questa Dichiarazione – che non decostruiva affatto né abbandonava la categoria di razza, ma solo il determinismo biologico – non era, neppure per l’epoca, un documento straordinariamente avanzato, sebbene alla sua stesura avessero contribuito studiosi del calibro di Claude Lévi-Strauss e Ashley Montagu.

Ricordo che il secondo – antropologo, biologo e psicologo – già nel 1942 aveva demolito “il mito della razza” in un saggio (Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race), che sarà tradotto in italiano ben ventiquattro anni dopo.
Quattro anni più tardi rispetto a Montagu, l’erudito cubano Fernando Ortiz (1946) – etnologo, antropologo, giurista, musicologo, archeologo… – avrebbe pubblicato El engaño de las razas. Influenzato soprattutto dall’antropologia culturale statunitense, in questo saggio egli confutava radicalmente, fra le altre cose, il razzialismo scientista.

“L’angolo facciale e l’indice cefalico non hanno alcun valore psicologico o sociale”; “L’inapplicabilità della psicometria”; “Non esiste la personalità razziale”: sono alcuni dei titoli contenuti nei sommari dei capitoli di questa sua opera. Mai avrebbe potuto immaginare, Ortiz, che, soprattutto a partire dagli anni ’70, il determinismo biologico-genetico, nell’ambito di alcune scienze o di pseudo-scienze come la sociobiologia, avrebbe ispirato pubblicazioni anche di grande successo (Rivera, 2012a).

Non brilla, invece, per audacia neppure la successiva Dichiarazione sulla razza, votata all’unanimità e per acclamazione nel 1978 dalla Conferenza Generale dell’UNESCO. Basta dire che, se per lo studioso cubano “razza” era «una mala palabra que non debiera decirse», qui gli aggettivi “razziale”/”razziali” vi ricorrono ben trentadue volte e vi si parla ripetutamente perfino di gruppi razziali come di un’evidenza, quasi fossero un dato oggettivo e scontato.
Su questa stessa linea si porranno quasi tutte le convenzioni internazionali sui diritti umani e anche i testi-base dell’Unione europea, compresa la Carta dei diritti fondamentali. Sicché non c’è da stupirsi troppo se la “razza” permane perfino nelle Costituzioni, compresa quella italiana, di cui si sono dotate le democrazie nate dalla resistenza al nazi-fascismo.

Eppure “razza” non è altro che una “metafora naturalistica”, per dirla con la formula di Colette Guillaumin (1972), sociologa femminista, autrice di una delle opere migliori che siano state scritte sul mito della razza e sul razzismo, mai tradotta in Italia. Tale metafora è adoperata per naturalizzare la stessa svalorizzazione, stigmatizzazione, gerarchizzazione, discriminazione ai danni di certi gruppi, minoranze, popolazioni.
In realtà, come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo, qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalla visibilità fenotipica e perfino dalle peculiarità culturali e sociali. Lo stigma applicato a certe categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza oggettiva, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica (Rivera, 2007).

Infatti, la stessa percezione dell’evidenza somatica dipende dalla storia, dalla società, dalla cultura. Tanto è vero che vi sono state e vi sono società per le quali quei caratteri fenotipici o morfologici (soprattutto il colore della pelle) che solitamente sono stati assunti come criterio di distinzione fra le “razze” non avevano (e non hanno) alcun valore tassonomico né valevano a istituire differenze fra individui e gruppi (Rivera, 2012).
Quanto al determinismo relativo a caratteri non somatici – l’intelligenza, per esempio – a smontarlo hanno provveduto studiosi del calibro di Stephen Jay Gould, biologo, zoologo, paleontologo e storico della scienza. Con l’opera del 1981, The Mismeasure of Man (Intelligenza e pregiudizio), ha dimostrato il carattere pseudo-scientifico, se non truffaldino, della cosiddetta misurazione del quoziente d’intelligenza, inventata apposta, com’egli scrive, «per trovare invariabilmente che i gruppi oppressi e svantaggiati sono innatamente inferiori e meritano il loro stato».

Nel razzismo odierno, che si è convenuto di definire “neorazzismo”, il determinismo biologico-genetico è spesso sfumato, talvolta assente: al fine di giustificare ostilità o rifiuto degli altri, di attuare e legittimare pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione, perlopiù si essenzializzano differenze sociali, culturali, religiose, fino a concepirle come a-storiche, assolute, immutabili (Rivera, 2007). Nondimeno, conviene ricordare che già l’antisemitismo moderno era culturalista e differenzialista: ha ragione Etienne Balibar (1991: 35) a sostenere che «il neorazzismo può essere considerato, dal punto di vista formale, come antisemitismo generalizzato».

Di conseguenza, conviene non assolutizzare neppure l’assunto secondo il quale il razzismo dei nostri giorni sarebbe differenzialista, culturalista, senza razze. In realtà, gli slittamenti, il mélange, i passaggi dal razzismo biologista a quello detto culturale, ma anche viceversa, ci sono sempre stati, ci sono tuttora, sono sempre possibili: al momento opportuno può riemergere l’immaginario sedimentato della “razza” (Rivera, 2010).

Per esempio, in Italia come in Francia, soprattutto nel corso del 2013, si è assistito a uno sconcertante ritorno della “razza”, evocata da immagini e rappresentazioni del tutto simili a quelle che potevano trovarsi nelle pubblicazioni popolari al servizio della propaganda fascista: anzitutto il topos che assimila i “negri” a scimmie, col classico corollario di banane. In Italia, dileggi e ingiurie di tal genere si sono intensificati in modo martellante e quotidiano, prendendo a bersaglio soprattutto la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge, congolese per nascita, fatta oggetto di attacchi al tempo stesso razzisti e sessisti; ma anche, negli stadi, contro calciatori di qualsiasi colore, di qualsiasi origine straniera, perfino meridionali: alterizzati, quindi negrizzati (Rivera, 2014).

Non fosse altro per questo, alquanto discutibile appare l’impegno profuso da studiosi, soprattutto francesi e italiani, che si rifanno alla “Critica postcoloniale”, diretto a reintrodurre il termine e la nozione di razza nel lessico delle scienze sociali, in tal modo vanificando un settantennio di paziente lavoro critico volto a decostruirli. Come è quasi banale precisare, a condurre questo lavoro sono stati gli studiosi più impegnati a contrastare razzismo, colonialismo e neocolonialismo, non già dei pigri retori dell’umanitario.

Incuranti del rischio di ri-legittimare la “razza” al livello del senso comune, i “postcoloniali” la hanno collocata al centro del loro apparato concettuale, sia pur intendendola come costruzione sociale e dispositivo d’inferiorizzazione, subordinazione, esclusione degli altri. Il ragionamento di alcuni di loro è riassumibile nei termini di un sillogismo di questo genere: la retorica dei diritti umani ha fatto della “razza” un interdetto; ma, poiché la discriminazione e il razzismo esistono, per renderli palesi, analizzarli, contrastarli, nominarne le vittime, conviene riesumare il nome di razza.

In verità, qualunque precauzione si prenda, « il passato delle parole si sedimenta e persiste –in modo latente o manifesto – nei loro usi ulteriori» (De Rudder, Poiret, Vourc’h 2000: 27): per quanto si faccia lo sforzo di sociologizzarla, “razza” conserverà sempre il significato biologico che le è stato attribuito nel XIX secolo.
A dimostrazione della non riducibilità del razzismo alla sola matrice coloniale, si consideri che in Europa la forma più strutturale è quella che ha per bersaglio rom e sinti: la più sistemica, vetusta e persistente, violenta e diffusa nei paesi europei, condivisa e trasversale alle classi sociali e agli orientamenti politici. Anno dopo anno, le inchieste di opinione confermano che al primo posto nella scala del disprezzo e del rifiuto degli altri rimangono costantemente gli “zingari”.

Lo conferma il sondaggio del Pew Research Center (2015) che indaga su come sia vissuto il rapporto con le minoranze rom, musulmana ed ebraica, nei sei Paesi europei più popolosi (Francia, Germania, Italia, Polonia, Spagna e Regno Unito). A illustrarsi per antiziganismo – e con un dato impressionante, anche rispetto alla Polonia – è l’Italia: l’86% del campione intervistato (nel 2014 era l’84%) esprime ostilità o paura per la presenza di appena 180mila fra rom e sinti (70mila dei quali cittadini italiani) corrispondenti a un magro 0,23% della popolazione totale.
In realtà, rom e sinti continuano a svolgere un ruolo vittimario assai simile a quello storicamente attribuito agli ebrei, a tal punto che sugli “zingari”, come un tempo sugli ebrei, tutt’oggi fioriscono e si propalano voci, leggende e “false notizie”, per dirle alla Marc Bloch: anche le più arcaiche, come quella della propensione al rapimento di bambini, pur smentita da dati e lavori scientifici (Tosi Cambini, 2008).

L’antiziganismo illustra in maniera esemplare il principio per cui il razzismo diviene sistemico quando si fa anche istituzionale e mediatico. Quando le pulsioni intolleranti o razziste, diffuse nella società, sono sollecitate, incoraggiate, legittimate dal sistema dalle istituzioni e dagli apparati dello Stato nonché dal sistema dell’informazione, è allora che s’innesca il classico circolo vizioso del razzismo. Occorre rimarcare che il razzismo è anche un sistema, spesso subdolo, di disuguaglianze giuridiche, economiche e sociali, spesso caratterizzato da forti scarti di potere fra i gruppi sociali coinvolti.

A soffermarsi sul razzismo italiano odierno, appare evidente come esso attinga le proprie retoriche e i propri dispositivi da una “memoria”, perlopiù irriflessa, costituita dai retaggi non solo dell’esperienza coloniale, ma anche dell’antigiudaismo cristiano, dell’antisemitismo, del razzismo antislavo, del pregiudizio antimeridionale e antizigano, infine del razzismo “sociale” verso le “classi pericolose”. La narrazione razzista, infatti, è una sorta di mito circolare, che si auto-conferma incessantemente, crescendo su se stesso e ricorrendo sempre al medesimo arsenale sincretico di metafore e pregiudizi.

Se l’antiziganismo è la forma di razzismo più strutturale, qualunque gruppo può diventare oggetto di razzizzazione. Si pensi al processo che investì i profughi albanesi nel corso degli anni ’90. Dapprima considerati fratelli separati della comune patria adriatica, non appena muta l’orientamento istituzionale italiano, tra uno sbarco e l’altro del 1991, nel giro di appena cinque mesi diventano i diversi, gli estranei, gli indesiderabili per antonomasia.
La stessa cosa può dirsi in rapporto con il lungo ciclo degli attacchi terroristici di marca jihadista, dall’11 settembre 2001 al 13 novembre 2013. Dopo ogni attentato, si rinfocola l’islamofobia, anch’essa strutturale, più o meno esplicita secondo le fasi. Così la propaganda e gli atti razzisti, e l’attenzione delle politiche istituzionali, si spostano decisamente sul Musulmano (oggi si dice “Islamico” perché questo vocabolo consente l’amalgama con “islamista”, cioè integralista, jihadista, terrorista, quindi la generalizzazione arbitraria).

In tal modo l’“Islamico”, reale o presunto, immaginario o fantasmatico, diventa il Diverso per eccellenza, il “negro” dei nostri giorni, talché gli si può attribuire un “altro colore”. Faccio un piccolo esempio. Il giorno dopo gli attentati di Parigi, un cittadino francese di origine turca viene ferito gravemente a colpi di pistola sparati da un’auto dal cui finestrino sventola il tricolore francese. La cronaca di quotidiani francesi riferisce che, secondo il procuratore di Cambrai, la vittima sarebbe stata scelta per il colore della pelle.

«Non si cambia la realtà cambiando i nomi; non si elimina il razzismo abolendo la parola razza», si sostiene da molte parti. Ma noi, che proponiamo di abolirla a cominciare dalla Costituzione italiana, non siamo così ingenui da pensare che così sarà bandito o solo incrinato il sistema-razzismo. Sappiamo bene che già da lungo tempo “razza” si maschera dietro qualche equivalente eufemistico come il dilagante “etnia” (sulla migliore stampa italiana può capitare di leggere individui di etnia latinoamericana o addirittura di etnia cinese). Intendiamo, invece, affermare che il razzismo non ha alcuna base scientifica o solo oggettiva; e che la presenza di “razza” nella Costituzione è assurda e immotivata esattamente com’era la nozione di “sangue reale” nello Statuto albertino.

Se non altro, la proposta di abolire “razza” sarebbe utile a riaprire il dibattito sul razzismo, che oggi sembra ancor più languente, nonostante in concomitanza con la cosiddetta emergenza-profughi si stia squadernando sotto gli occhi di chi vuol vedere un’inquietante semiotica da genocidio: dai vagoni blindati alla confisca da parte degli stati dei beni personali dei rifugiati.

Riferimenti bibliografici

Balibar Etienne, 1991, « Razzismo : un altro universalismo ? », Problemi del Socialismo, n.s., n. 2, Franco Angeli, Milano, pp. 33-44.

De Rudder Véronique, Poiret Christian, Vourc’h François, 2000, L’Inégalité raciste. L’universalité républicaine à l’épreuve, PUF, Paris.

Gould Stephen Jay, 1981, The Mismeasure of Man, W. W. Norton & Company Inc., New York; trad. it. Intelligenza e pregiudizio: le pretese scientifiche del razzismo, trad. di Alberto Zani, Editori Riuniti, Roma 1985.

Guillaumin Colette, 1972, L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, Mouton, Paris-La Haye, 1972.

Montagu Ashley, 1942, Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race, Columbia University Press, New York; trad. it, La razza. Analisi di un mito, Einaudi, Torino 1966.

Ortiz Fernando, 1946, El engaño de las razas, Editorial Páginas, La Habana.

Rivera Annamaria, 2007, Voce «Razzismo», in Enciclopedia UTET, Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, 6 voll. UTET, Torino.

2010, Les dérives de l’universalisme. Ethnocentrisme et islamophobie en France et en Italie, La Découverte, Paris 2010.

2012, «Idee razziste», in: R. Gallissot, M. Kilani. A. Rivera, L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari, pp. 153-187.

2012a, «Neorazzismo», ivi, pp. 279-309.

2014, «Una crisi anche politica e morale. L’Italia tra preferenza nazionale e ritorno della “razza” », in Lunaria (a cura di), Cronache di ordinario razzismo. Terzo Libro bianco sul razzismo in Italia, Lunaria, Roma, pp. 10-22: https://www.lunaria.org/wp-content/uploads/2014/10/impaginato-low.pdf

Tosi Cambini Sabrina, 2010, La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007), CISU, Roma.