Le eccellenze del Belpaese e la scommessa del Made in Italy

Questo contributo offre alcune riflessioni sulle recenti tendenze della domanda di cibo e su come il sistema agroalimentare italiano risponde a questa domanda.

L’attenzione si concentra sulla domanda di alimenti espressa da persone sazie e che possono ragionevolmente contare di continuare a esserlo nel futuro, ovvero persone che non conoscono la preoccupazione quotidiana di riempire la pancia, quella propria e quella dei propri figli. Infatti, a fronte di un allarme crescente per la tragedia della fame e della capacità del pianeta di sfamare una umanità in crescita esponenziale e con esigenze di consumo di beni di base anch’esse in espansione, il mondo conta oggi un numero enorme e crescente di persone dai consumi opulenti, e queste persone non si trovano solo nei Paesi relativamente più ricchi del mondo ma rappresentano fasce sociali sempre più ampie anche nei Paesi a medio reddito e in crescita economica e, seppure in misura molto più limitata, nei Paesi più poveri. La domanda di cibo di cui parleremo, dunque, non è un fenomeno solo italiano o europeo ma è ben più ampio e trasversale.

Si tratta di una domanda sofisticata, in rapida e, talvolta, capricciosa evoluzione, che guarda a molti aspetti dei prodotti e dei processi produttivi che li generano (Grunert 2005). Una domanda che si manifesta con modalità molto lontane da quelle proprie di consumi di cosiddetta prima necessità, come tradizionalmente veniva inquadrata nella teoria economica che ne derivava la conseguenza di una notevole stabilità, ovvero di una elevata disponibilità a pagare, una scarsa reattività rispetto a riduzioni dei prezzi e/o a variazioni del reddito.

 

Questa domanda così complessa – accanto ad aspetti più materiali e concreti come quelli sensoriali, nutrizionali e relativi alla salubrità dei cibi – è attenta ad altri caratteri che esercitano una notevole importanza nel determinare le scelte di acquisto alimentare (Carbone 2010). Tra questi, il cosiddetto contenuto “di servizio”, ovvero lavorazioni, trattamenti o tipi di confezionamento che rendono più facile l’acquisto, la conservazione, la preparazione, il consumo dei cibi. Ma anche aspetti sostanzialmente immateriali che coinvolgono le sfere psicologica, culturale, morale, sociale, assieme ad aspetti che possono essere definiti di edonismo e convivialità, in un elenco che probabilmente non esaurisce tutti gli aspetti che, di volta in volta, possono rivelarsi importanti agli occhi dei consumatori, tanto è variegato il mercato. Proprio come accade per il consumo di tutti gli altri tipi di beni. Gli esempi di quest’ultimo punto sono davvero disparati, includendo le preoccupazioni per l’impatto ambientale della produzione di materie prime agricole e della loro trasformazione, e, giù giù, fino a quello connesso al consumo dei beni e allo smaltimento dei residui. Ma si può citare anche la curiosità per i cibi esotici, etnici e per le novità in generale, in quanto la noia per i sapori noti e ricorrenti è un tratto comune ai consumatori sazi. O ancora, il desiderio di accostarsi a tradizioni alimentari o gastronomiche diverse da quella di appartenenza è una delle forme che assume la curiosità culturale di persone più istruite e più abituate a viaggiare e a venire in contatto con mondi diversi (Fischer 2004).

Il moltiplicarsi dei bisogni e dei desideri che ci spingono a consumare beni alimentari, così come l’ampliarsi delle inquietudini e delle preoccupazioni legate al cibo, si accompagna alla frammentazione della domanda e degli stili di consumo. Questo, a sua volta, induce una segmentazione dei prodotti ma anche dei mercati e dei canali commerciali. Un esempio efficace di questa galassia sempre più affollata è fornito dalla crescita davvero esponenziale del numero di referenze offerte nei supermercati e ipermercati, le cui dimensioni già pachidermiche sembrano non finire mai di crescere. Ma anche le tendenze evolutive degli esercizi commerciali mostrano con chiarezza questa crescente varietà. Infatti – dopo una fase di semplificazione, orientata alla prevalenza assoluta delle grandi superfici della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) – la distribuzione commerciale oggi conta su un ventaglio di canali che include gli spacci aziendali e i farmers’ markets; i negozi di vicinato aperti 24 ore sette giorni alla settimana e le catene di specialità alimentari; i GAS (Gruppi di Acquisto Solidali) e l’e-commerce; le Superette (o Convenience Store: piccoli supermercati nei centri cittadini) e le catene di consegna a domicilio di cibi bio come di pasti pronti per il consumo e molto altro ancora. Sono pochi i consumatori fedeli a uno stile di acquisto e di consumo, nella società liquida ciascuno nuota disinvoltamente e “laicamente” nel mare magno del consumismo (anche) alimentare, passando dalle sobrie acque dell’“ideologia” del bio o del commercio equo e solidale a quelle più opulente dell’alta gastronomia, del “fuori stagione” e dell’esotismo culinario.

Tutta questa varietà genera possibilità di scelta davvero enormi per i consumatori, ma in un certo senso, crea anche confusione e disorientamento: è sempre meno facile orientarsi sui mercati e fare scelte pienamente informate e che rispondano a istanze precise e convinte (Verbeke 2005). Dunque ai produttori, ma anche al sistema normativo, è richiesto uno sforzo crescente per produrre informazioni di quantità e affidabilità adeguate e corredare il funzionamento dei mercati con un sistema di controlli sempre più esteso e complesso.

A ogni modo, per il sistema agroalimentare italiano questa frammentazione dei mercati, questa ricerca di varietà, di qualità, di eccellenza, di tradizione così come di novità, rappresentano una straordinaria opportunità. È infatti ben noto che il nostro Paese è in grado di offrire tutto ciò grazie a una felice combinazione di varietà ambientale e socio-culturale che nel corso del tempo hanno sedimentato biodiversità, processi e ricette in numero elevatissimo e dallo straordinario valore sensoriale. Tutto questo è all’origine della altissima reputazione di cui gode nel mondo il Made in Italy agroalimentare.

 

Se a ciò si aggiungono le considerazioni che seguono, si comprende ancor meglio quanto la sfida della qualità sia importante per il sistema agroalimentare italiano. Questo, infatti, da un lato è caratterizzato da una elevata frammentazione – le imprese sono piccole e piccolissime, quasi sempre dalle dimensioni economiche tanto piccole da risultare poco efficienti – e dall’altro da condizioni ambientali che contribuiscono a limitare la produttività ma, in molti casi, enfatizzano la qualità dei processi produttivi. Si tratta, quindi, di caratteristiche che impediscono di competere sul terreno della convenienza, tanto più nei mercati globali e sostanzialmente liberalizzati, ai quali, come noto, hanno largo accesso sistemi produttivi che godono di forti

vantaggi competitivi rispetto al nostro, derivanti dal minor costo delle materie prime e/o del lavoro e dalla realizzazione di economie di scala e di scopo legati alla maggiore concentrazione.

Dunque, produrre alimenti di alta qualità e venderli su mercati dove la disponibilità a pagare dei consumatori è maggiore, rappresenta al tempo stesso una opportunità ma anche una via obbligata per l’Italia. È opportuno, quindi, capire, in quali delle molte nicchie esistenti nei mercati agroalimentari di qualità le nostre imprese sono collocate o si possano collocare e quali siano i loro punti di forza e gli eventuali svantaggi che ne limitano l’accesso e la competitività.

Non è necessario soffermarsi in questa sede su quali siano le punte di diamante dell’agroalimentare italiano in termini merceologici; a tutti sono noti, infatti, i prodotti che compongono il Made in Italy che ha reso famosa nel mondo l’enogastronomia del Belpaese: dalla pasta ai formaggi, dal vino ai salumi, dall’olio di oliva alla pasticceria, dal caffè ai pomodori pelati, dall’aceto balsamico ai kiwi, la lista potrebbe davvero allungarsi e ramificarsi a piacere. Le esportazioni italiane di prodotti agroalimentari nel mondo contano 30-32 miliardi di euro (valori medi degli ultimi quattro anni, con oscillazioni dovute alla naturale variabilità delle produzioni agricole e dei prodotti da esse derivati), pari a una quota dell’8-8,5% dell’export italiano complessivo e una quota dell’40% del fatturato del settore (INEA 2013). Un valore davvero elevato se si pensa che l’Italia è caratterizzata da una strutturale carenza di risorse naturali (in primis di terra coltivabile) idonee alla produzione di materie prime agricole. Di questi 30-32 miliardi, circa i due terzi sono rappresentati proprio dal Made in Italy, con il vino in testa. Inoltre, la quota del Made in Italy è in crescita grazie a tassi di espansione dell’export superiori alla media anche se non sempre in linea con il vivace ritmo di crescita del commercio agroalimentare mondiale che negli ultimi dieci anni è più che raddoppiato.

Ciò che, invece, vale la pena di approfondire nel poco spazio a disposizione, è il ruolo assunto da una tra le molte declinazioni possibili dell’eccellenza agroalimentare del Belpaese: la tipicità. Una caratteristica che si trova, in un certo senso, a monte di molte altre che da essa discendono. Con il termine tipicità si intende il carattere peculiare, e spesso esclusivo, di un alimento influenzato, ma spesso addirittura determinato, dall’area geografica di provenienza. Come ricordato poco sopra, i territori dello Stivale – con la loro marcata mutevolezza sia di ambienti naturali che di storia e civiltà – offrono una varietà di materie prime agricole e di prodotti trasformati davvero ineguagliata per quantità e qualità. Dunque, l’agroalimentare italiano si compone in larga parte di prodotti tipici dove la tipicità si declina di volta in volta su territori più o meno circoscritti ma sempre dalle caratteristiche decisamente peculiari. È così che, per esempio, il prosciutto di San Daniele prende il nome da un territorio le cui condizioni ambientali rendono possibile la sua stagionatura dagli esiti unici o che l’aceto balsamico tradizionale di Modena viene fatto maturare in piccole botticelle che la tradizione familiare emiliana ha tramandato nei secoli. Così i limoni di Sorrento vengono coltivati in terrazze dal valore paesaggistico unico al mondo e che contribuiscono a creare un microclima che li rende unici o ancora che il caciocavallo silano si ottiene dal latte delle vacche podoliche – che resistono nell’Appennino dell’Italia meridionale grazie alla pazienza e al sacrificio degli allevatori di quell’area – che per loro natura e per il tipo di alimentazione rendono così particolare il sapore del formaggio. In tutti questi casi il territorio regala al prodotto anche qualcosa in più: il nome. Infatti, attraverso il nome del territorio da cui origina, il prodotto si rende riconoscibile e comunica al consumatore l’essenza stessa della sua natura, della sua qualità; gli comunica la sua unicità (Josling 2006).

 

La relazione tra cibo e territorio è virtuosa da più di un punto di vista. Innanzitutto, se il territorio di origine conferisce ai suoi prodotti il loro carattere unico e gli consente di comunicarlo attraverso l’uso del suo nome, dal canto suo il prodotto diventa ambasciatore del territorio, portando il suo nome su tutti i mercati dove riesce a giungere e affermarsi. E nella misura in cui si afferma, può contribuire a realizzare un circolo virtuoso, attivando l’economia locale, sia in via diretta, per la produzione che corrisponde alla domanda del prodotto tipico, che in via indiretta, se si genera un flusso di presenze a seguito della maggiore notorietà dei luoghi. Naturalmente, in molti territori italiani (se non in quasi tutti), questo potenziale sinergico è accresciuto da un patrimonio paesaggistico e culturale straordinario e capillarmente diffuso.

Un altro elemento, spesso citato, di questo connubio virtuoso tra cibo e  territorio, sta nelle virtù ambientali dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione dei prodotti tipici. Si tratta, infatti, spesso, di produzioni che utilizzano specie e varietà “antiche”, che sono rimaste escluse dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell’agricoltura avvenuto grosso modo negli anni Sessanta-Ottanta e che rischiano l’estinzione a detrimento della biodiversità, patrimonio del mondo e delle generazioni future, senza la quale la forza creatrice dell’evoluzione non potrebbe esistere. Inoltre, si tratta di prodotti a carattere artigianale che utilizzano in modo estensivo le risorse naturali e che consentono di evitare l’abbandono anche di terreni poco produttivi che non sarebbe remunerativo utilizzare per produzioni più standardizzate.

Infatti, i prodotti tipici sono generalmente prodotti per i quali la trasformazione avviene o nelle stesse aziende agricole o in piccole strutture dal carattere artigianale e tradizionale, a forte radicamento territoriale.

Le politiche agricole e di sviluppo rurale dell’Unione Europea hanno dato e danno un certo spazio e molta enfasi a tutti questi aspetti fin da quando, agli inizi degli anni Novanta è stato introdotto un sistema di protezione delle indicazioni geografiche (Reg. CE 2081/92) comune a tutti gli Stati membri (Carbone et al. 2014). Da allora, l’interesse del pubblico e degli operatori per i prodotti tipici è senz’altro molto cresciuto, così come è molto cresciuto il numero dei prodotti la cui origine è certificata a uno dei due livelli ammessi dal Regolamento1. Oggi questi prodotti sono oltre 1200 (http://ec.europa.eu/agriculture/quality/door/) e l’Italia vi contribuisce con 273 tra DOP e IGP (numero ufficiale di registrazioni al 18/5/2015).

Alcuni di questi prodotti sono notissimi in Italia e nel mondo. Alcuni erano noti ben prima che entrasse in vigore la normativa europea. Altri, nel corso degli ultimi venti anni, sono riusciti a farsi largo, per così dire, non solo nel mercato italiano, ma anche nell’arena sempre più vasta e competitiva dei mercati agroalimentari internazionali.

Molte altre DOP e IGP registrate da anni, tuttavia, non riescono a portare prodotto certificato sul mercato e restano praticamente lettera morta. Non si tratta di eccezioni ma della quota di gran lunga prevalente della lista dei 273 prodotti registrati, dei quali i primi 20 in ordine di fatturato rappresentano circa il 90% del giro d’affari complessivo delle DOP/IGP italiane. Si tratta perlopiù di certificazioni scaturite dalla volontà di politici e amministratori dove è mancata una analisi di mercato che indicasse le condizioni della domanda e dell’offerta favorevoli all’inserimento del prodotto sul mercato. Solitamente, inoltre, si tratta di prodotti che fanno capo a imprese troppo piccole per riuscire ad andare oltre i limiti del mercato locale, ovvero laddove la certificazione dell’origine potrebbe esercitare il suo ruolo informativo e di garanzia e quindi portare valore al territorio (Carbone 1997).

 

Inoltre, non tutti i prodotti che arrivano effettivamente sui mercati come DOP/IGP rispecchiano davvero e pienamente quelle caratteristiche di tradizionalità e legame con il territorio che si è prima ricordato e che è proprio dello spirito della normativa, in modo chiaro ed esplicito. Si pensi, a titolo di esempio, a prodotti oramai relativamente standardizzati come il Parmigiano Reggiano DOP e il Grana Padano DOP o il Pecorino Romano DOP, per il quale, peraltro il nome indicherebbe un territorio di provenienza che è ben lontano e diverso da quello effettivo (attualmente si produce per oltre il 95% in Sardegna) (Carbone 2003), il prosciutto di Parma e quello di San Daniele DOP (prodotti con cosce di suino che provengono, rispettivamente, da 11 e 10 regioni italiane) o la mortadella di Bologna IGP. Prodotti che, al di là della loro indubbia qualità e valenza commerciale, difficilmente possono essere considerati artigianali o di nicchia o frutto di processi produttivi non intensivi. In alcuni di questi casi e in altri ancora, il legame tra l’industria di trasformazione e la componente agricola locale della filiera di produzione è molto labile o assente e gli approvvigionamenti di materia prima avvengono a scala globale con criteri e incentivi non dissimili da quelli usati per i prodotti di massa di carattere schiettamente industriale. In altri casi ancora, la governance dell’intera filiera è in mano a grandi industrie a carattere ormai multinazionale o alla GDO (è il caso per certi versi della mozzarella di bufala campana). Queste, forti del proprio ruolo dominante, riescono a modificare le rigide regole produttive e gestionali previste dai disciplinari di questi prodotti in base a esigenze commerciali che possono contrastare con la natura artigianale e tradizionale del prodotto. Con il risultato di generare una forte confusione su quale sia la “vera” natura del prodotto che arriva sui mercati con la certificazione DOP/IGP e di creare una concorrenza che può spiazzare i produttori più piccoli e più radicati sul territorio ma meno visibili sui mercati al di fuori dalla sfera strettamente locale. Proprio quella tipologia di produttori che il Regolamento europeo vorrebbe rafforzare sui mercati.

Infine, come è ben noto, la piaga dell’Italian Sounding – ovvero l’immissione sul mercato di prodotti che non essendo italiani evocano falsamente una origine italiana come, per esempio, il Parmesan o il Parmigianito, o anche prodotti con nomi del tutto di fantasia ma inseriti in una bandiera tricolore o che includono nel brand nomi di località italiane famose – non solo toglie enormi fette del mercato ai prodotti genuinamente italiani, ma ben più subdolamente, inquinando il mercato di prodotti che sembrano italiani ma non lo sono, mina la reputazione dei prodotti autentici e di effettiva elevata qualità e dal genuino radicamento con i territori dai quali dichiarano di provenire (Canali 2012).

Tutto questo costituisce un complesso di elementi di debolezza e sfida alla posizione che il Made in Italy ha saputo nel tempo conquistarsi su molti mercati internazionali. La sfida può e deve essere colta. Non è certo questa la sede per una discussione degli ingredienti che auspicalmente una politica di tutela delle eccellenze agroalimentari dei nostri territori dovrebbe includere, tuttavia si può chiudere questa breve riflessione delineando la natura di due ingredienti necessari di intervento efficace. Si tratta innanzitutto di abbandonare la visione un poco ingenua secondo cui i prodotti tipici sono essenzialmente prodotti agricoli, ignorando la dimensione di filiera come l’entità rilevante dal punto di vista della gestione dei processi e della valorizzazione commerciale di questi prodotti. I policy makers europei sembrano iniziare a mostrare una certa consapevolezza in questo senso ma occorre fare presto molto di più e in termini più decisi. In secondo luogo, occorre, anche coraggiosamente, prendere atto che allo stato attuale nel sistema delle denominazioni di origine convivono realtà commerciali troppo differenti per dimensioni e natura e che ciò finisce per rendere il sistema stesso poco funzionale a entrambe, probabilmente con svantaggio soprattutto per le DOP/IGP più piccole e più radicate sul territorio (Rama 2010). Un paradosso, se si pensa che questa è la natura più vera della tipicità e che la protezione di questi prodotti e dei loro produttori è il primo obbiettivo della normativa europea. Un ripensamento del sistema con una sua probabile maggiore articolazione interna si rende, quindi, necessario.

Si tratta delle DOP (Denominazioni di Origine Protette) e delle IGP (Indicazioni Geografiche Protette). In estrema sintesi: le prime rappresentano il livello più alto della relazione tra prodotto e territorio, con il vincolo per ogni fase del processo produttivo di essere realizzata nel territorio stesso; viceversa, le seconde prevedono una relazione meno stretta tra prodotto e territorio, includendo la possibilità che una o più fasi avvengano al di fuori di esso. Si noti bene che solo recentemente (Reg. 1051/12) anche il comparto dei vini è stato incluso all’interno di questo schema unificato al quale si potranno adeguare gradualmente e volontariamente i singoli Paesi che fino a oggi hanno certificato l’origine territoriale dei propri vini secondo schemi propri e notevolmente differenziati.

 

 

Bibliografia

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Fischer C., “The Influence of Immigration and International Tourism on the Demand for Imported Food Products”, Acta Agricolture Scandinavica Section C-Food, 1/1, 2004, pp. 21-33.

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Josling T., “What’s in a Name”, IIIS Discussion Paper, 2006, n. 109.

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Verbeke W., “Agriculture and the Food Industry in the Information Age”, European Review of Agriculture Economics, 2005, 32, pp. 347-368.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo