Noi, gli altri e le “razze umane”

Il tema delle “razze umane” è al tempo stesso antico e recente. Antico, perché il dibattito sul senso e il significato di suddividere tutti noi umani in un gruppo limitato di gruppi che si presume rispecchino la nostra biologia, e magari anche la nostra cultura, va avanti da almeno un paio di secoli.  Ma, al tempo stesso è un argomento di strettissima attualità, visto che la globalizzazione ha ridotto enormemente le distanze fisiche, anche se ha lasciato intatte gran parte di quelle nel modo di vivere e pensare. La diversità umana è così entrata nella nostra quotidianità, come mai era successo prima d’ora. E non sempre nei suoi risvolti più allegri.

Se si considera l’aspetto strettamente scientifico, il problema delle “razze umane” non esiste, o per meglio dire non esiste più. Sappiamo molto bene che per descrivere la diversità umana è meglio fare ricorso a moltissimi insiemi di individui che condividono uno spazio, un tempo e un sistema sociale, ovvero le popolazioni.  I dati genetici ci dicono che è proprio nelle popolazioni che è presente la gran parte (80-90%) della variabilità genetica totale. Le popolazioni, inoltre, riescono a “catturare” molto meglio delle categorie razziali una caratteristica fondamentale della nostra variabilità genetica: la distribuzione a gradiente. Con questo si vuole indicare che il cambiamento nella genetica dei gruppi umani non si struttura in zone omogenee unite da confini che segnalano un cambiamento repentino, come vorrebbero le razze, ma piuttosto in andamenti graduali, fatte salve le dovute eccezioni dovute a barriere fisiche e culturali (ad es. quelle linguistiche). Come se tutto questo non bastasse a demolire le “razze umane”, va considerato che guardando alla diversità con approcci rigorosi, le differenze nelle qualità intellettive e morali appaiono per quello che sono: frutto dei nostri pregiudizi.

E’ partendo da queste considerazioni che nel nostro paese si è sviluppato un dibattito sulla presenza del termine “razza” nella Costituzione, più precisamente all’articolo 3 dei principi costituzionali.

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Non ce ne vogliano i padri costituenti, ma le cose nel tempo cambiano. Nel 1947, il termine razza non era così vuoto di significato scientifico come lo è oggi, ed è innegabile che la loro idea fosse di usarlo per sottolineare una sostanziale uguaglianza tra diversi. Chi la legge, invece, nel 2016, e sa di cosa si sta parlando, non può fare a meno di notare un’incoerenza profonda: vengono messi insieme termini che hanno nell’uso sociale implicazioni molto diverse. Riferendoci a una delle tante lingue, religioni, opinioni politiche, condizioni personali e sociali non diamo un giudizio di ordine morale o intellettuale sul suo portatore. Ma questo non vale per le “razze umane” perché, nella visione razziale è insita una gerarchia di valori, con gli Europei in cima e gli Africani in coda.

Detto questo ci si poteva aspettare un certo consenso all’idea di cambiamento costituzionale che incidesse proprio sul termina “razza”.  E invece, va registrato che gli scettici non mancano, e sollevano fondamentalmente tre questioni non prive di interesse.

Per primi vennero “Quelli che è impossibile”. Per loro toccare i principi costituzionali, anche se con scopi condivisibili, è come creare un precedente in cui altri, meno ben intenzionati, possono incunearsi. Non che il pericolo non esista, ma forse andrebbe fatto uno sforzo in più per capire che lavorando su quel termine (non semplicemente abolendolo) possiamo rendere molto più coerente la traduzione formale con il principio ispiratore, quello dell’uguaglianza.

CI sono poi “Quelli che …tanto è inutile”. Ma perché perdere tempo con delle parole? Ci vuole ben altro… Ma intanto sono parole scritte nella nostra Costituzione, e diventa facile l’obiezione a chiunque voglia argomentare che le razze non esistono dicendo “ma se non hanno senso queste razze, perché sono riconosciute dalla nostra Costituzione?”

Infine, “Quelli che…in fondo è banale!”. Per loro basta dire “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”. Eliminiamo ogni categoria e il gioco è fatto, senza tante complicazioni. Peccato che eliminando ogni possibile riferimento al termine razza, finiremmo, per esempio, per svuotare di significato l’articolo 1 della legge Mancino (25 giugno 1993, n. 205) che ha come oggetto la “Discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Più che un uovo di Colombo, sembra un modo di mandare tutto in vacca.

E’ evidente che nessuna di queste obiezioni pare davvero convincente. Anzi, proprio nel dare a ciascuna di esse le nostre risposte si possono trovare ulteriori motivi di convincimento per un’azione di cambiamento. Ma, esattamente, si chiederanno molti, come andrebbe cambiato la Costituzione? Ecco la proposta che abbiamo formulato insieme a Maria Enrica Danubio dell’Università de l’Aquila e altri colleghi – Antropologi culturali, Archeologi, Storici e filosofi della scienza – che fanno parte dell’Istituto Italiano di Antropologia:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di aspetto fisico e tradizioni culturali, di genere, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. La Repubblica non riconosce l’esistenza di presunte razze umane e combatte ogni forma di razzismo e xenofobia”.

Non sono parole a caso. Il concetto di diversità viene espresso facendo riferimento alla sua percezione (con l’esplicito riferimento all’aspetto fisico) che tanta importanza ha da un punto di vista sociale, rispettandone le diverse declinazioni, biologica e culturale. Non c’è nulla che sembri lontanamente evocare gerarchie di valori visto che le “razze umane” sono richiamate solo allo scopo di esplicitarne l’insussistenza, mentre i comportamenti che possono derivare da una visione razziale vengono apertamente rigettati.

L’ idea è che anche sul piano formale – per quanto può essere solo formale un principio costituzionale – vale la pena di riconoscere a tutti gli stessi diritti, anche alla luce delle nostre diversità. Facendo tutto questo nell’ambito della Costituzione, inserisce il cambiamento in un quadro di riferimento che non può essere messo in discussione: andare nella direzione dell’inclusione, riaffermando nel contempo il valore assoluto di tutti i valori stabiliti dai principi costituzionali. Immaginiamo quanto sarebbe potente il messaggio che può dare una società la quale, mentre accoglie e integra, riesce a trasmettere il senso di una comunanza profonda che trascende le diversità. Incominciamo a farlo liberandoci da questo aggeggio inutile e dannoso, quali sono le “razze umane”.