Petali a Milano. Perché non anche a Napoli?

Milano. Il 24 febbraio il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha ribadito il suo progetto “petaloso”: l’IIT in accordo con le università meneghine realizzerà lo Human Technopole, che riceverà dallo stato 150 milioni l’anno per 10anni (1,5 miliardi di investimenti complessivi), dando lavoro a 1.500 ricercatori in 30.000 metri quadri di laboratori.

Napoli. Ha iniziato CISCO, 49 miliardi di fatturato e 60.000 dipendenti sparsi per il pianeta, azienda informatica tra i leader al mondo nei “dispositivi di rete”, che ha annunciato di voler investire 100 milioni in euro in una sede tutta napoletana, continuando la collaborazione con l’Istituto Galileo Ferraris di Scampia. Ha continuato Apple, la famosa azienda creata da Steve Jobs, 80.000 dipendenti per un fatturato di 183 miliardi di dollari, che ha annunciato di voler creare a Napoli  il primo Centro di Sviluppo App iOS d’Europa, con un investimento stimato in 60 milioni di euro che darà lavoro a 600 giovani qualificati. Ha chiuso la General Electric, 287.000 dipendenti e 151 miliardi di dollari di fatturato, che lo scorso 1 febbraio ha dichiarato di voler investire 60 milioni di euro in ricerca e sviluppo  su combustori e turbine presso il centro Avio Aero di Pomigliano, alle porte di Napoli (oltre a 100 milioni negli stabilimenti di Brindisi e Bari dove intende creare  un centro di eccellenza per la produzione di turbine e compressori nel settore petrolio e gas).

Alcuni hanno plaudito a queste iniziative, altri le hanno analizzate con maggiore spirito critico. Ma quello che interessa, in questa sede, sono le motivazioni addotte da Tim Cook.

Il CEO di Apple ha così motivato la scelta di localizzarlo a Napoli: «Perché da un punto di vista economico credo che lì possiamo dare una mano, fare maggiormente la differenza». Poi ha spiegato: «Quando a Milano annunciai a Matteo Renzi che avremmo voluto aprire una scuola per sviluppatori di app, lui mi chiese di immaginare una linea che divide l’Italia in due. Sopra quella linea, spiegò, ci sono dati demografici ed economici più alti dei paesi più ricchi d’Europa; sotto quella linea invece siamo ai livelli della Grecia. Questo discorso ci ha molto colpito e per questo abbiamo deciso di andare sotto la linea».

Proprio nei giorni dello scorso autunno in cui l’americano Tim Cook incontrava a Milano il Presidente del Consiglio italiano e gli preannunciava la sua decisione di investire in ricerca e sviluppo «sotto la linea» che divide in due la Penisola, Matteo Renzi annunciava la decisione di realizzare «sopra la linea», a Milano, nell’area lasciata libera da Expo 2015, un nuovo centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) che ha sede a Genova con un investimento da 150 milioni l’anno per creare un ponte tra scienza e industria e rendere più competitivo il sistema paese, iniziando finalmente la transizione verso un modello di sviluppo fondato sulla conoscenza avanzata e favorendo così l’innovazione di prodotto e di processo. Elena Cattaneo, senatrice a vita e biologa di gran vaglia, ha ben spiegato su La Repubblica tutti i limiti scientifici dell’iniziativa.

Noi qui aggiungiamo una domanda: perché creare un nuovo centro dell’IIT, che ha la sua sede a Genova, proprio in una città Milano, e in una regione, la Lombardia, che vanta i «dati demografici ed economici più alti dei paesi più ricchi d’Europa» e non in una città, Napoli, e in una regione, la Campania, che sono «ai livelli della Grecia»?

A grana grossa ci si sarebbe aspettati decisioni opposte: il governo italiano che decide di investire nel “Mezzogiorno alla deriva”, come lo ha definito SVIMEZ nel suo ultimo rapporto, per tentarne il  rilancio e un privato, la Apple, che investe in un’area “sicura”, nel Nord ricco del paese.

I fatti ci dicono che ha ragione il CEO di Apple: è giusto investire in conoscenza e creare un centro IIT a Napoli piuttosto che a Milano, perché da un punto di vista economico è lì che si può “dare una mano e fare maggiormente la differenza”.

La scelta avrebbe dovuto e dovrebbe ancora essere a favore di Napoli per due ragioni: 1) perché la città ha subito, nell’ultimo quarto di secolo, una profonda deindustrializzazione e l’intero Mezzogiorno è, come dimostra SVIMEZ, alla deriva; 2) il capoluogo campano ha tuttora una “carica innovativa” e una “capacità di ricerca” del tutto paragonabili a Milano.

I numeri della deriva sono molti. Ci sono quelli del Pil: tra il 2008 e il 2014 la produzione di ricchezza nel Sud è diminuita del 13%, quasi il doppio – rileva SVIMEZ – del Centro-Nord (-7,4%). E nel 2015 alla piccola ripresa del paese ha fatto riscontro la stagnazione del Mezzogiorno: il Sud non è ripartito. Più netta è la forbice del valore aggiunto dell’industria manifatturiera: tra il 2008 e il 2014 è caduto del 13,7% al Centro-Nord, ma del doppio al Sud (-34,8%). Invece di diminuire la forbice a cavallo della linea che divide il paese, gli investimenti l’hanno allargata. Tra il 2008 e il 2014 sono caduti del 17,1 al Centro-Nord ma di quasi quattro volte tanto al Sud (-59,3%). Di fatto l’Italia ha staccato la spina al terzo più malato di se stessa.

La deriva riguarda, purtroppo, anche l infrastrutture dell’economia e della società della conoscenza. Come dimostrato i dati ISTAT (rapporto BES), tutte le regioni meridionali hanno investimenti in ricerca e sviluppo inferiori all’1,0%; due (Calabria e Basilicata) stentano a raggiungere lo 0,5% e solo la Campania eguaglia a mala pena la media nazionale (1,2%). Per non parlare dei brevetti, un output della ricerca applicata e dello sviluppo tecnologico: la differenza tra quelli prodotti nelle regioni meridionali e quelli nel Centro-Nord è spesso di due ordini di grandezza. In altri termini, da anni il Sud non produce innovazione (salvo rare ma non rarissime eccezioni).

Analogo discorso vale per le università. Nell’ultimo decennio le immatricolazioni sono diminuite dell’11% al Nord, ma dal 30% al Sud (con una punta del 40% nell’anno accademico2014/15). Il Sud ha un numero di  laureati tra i giovani di età compresa fra 19 e 34 anni pari al 18%: sei punti sotto la media nazionale che pure è la più bassa tra tutti i 40 paesi OCSE. Di converso vanta il numero di NEET (che né studiano né lavorano) più alto d’Europa: 40%, superiore non solo alla percentuale della Germania (10%), ma anche a quella della Grecia (30%).

I giovani meridionali fuggono dall’università e gli investimenti pubblici certo non li aiutano: negli atenei meridionali massimo è stato il taglio dei fondi pubblici e minimo è l’aiuto diretto ai giovani meritevoli ma bisognosi. La situazione universitaria è tale che gli estensori del rapporto RES 2015 (Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud) non esitano a scrivere che  c’è un «disegno che si sta realizzando in Italia: con la “serie” A tutta concentrata in un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine); e la serie B che copre il resto del paese.

Dunque non c’è dubbio alcuno: il Mezzogiorno ha bisogno di investimenti, soprattutto nel settore trainante dell’economia della conoscenza, la ricerca e la formazione. Ecco perché Napoli sarebbe stata una candidata più accreditata di Milano a ospitare il nuovo centro IIT.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma per investimenti produttivi in ricerca, occorre la massa critica. Ebbene, questa obiezione proprio nel caso di Napoli non vale. La città ha una “capacità di ricerca” del tutto paragonabile a Milano. Ospita cinque università con migliaia di docenti e decina di migliaia di studenti; un’area del Cnr che è tra le maggiori del paese; centri di ricerca dell’Enea; l’Osservatorio Astronomico di Capodimonte, l’Osservatorio Vesuviano e i centri di geofisica tra i più accreditati d’Italia; la Stazione Zoologica “Anton Dohrn”, che è il massimo ente pubblico di biologia marina d’Italia; l’Istituto Tigem di Telethon per la ricerca genetica; ma anche dei grandi musei e dei grandi teatri e istituzioni culturali private – dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici alla Fondazione IDIS-Città della Scienza – che operano con un’ottica pubblica e ottengono straordinari riconoscimenti fuori d’Italia. Inoltre Napoli, con il centro di ricerca del CIRA  è di gran lunga la principale città italiana dell’aerospazio: dalla ricerca del CIRA ai centri industriali di Finmeccanica, ma non solo).

Riassumendo: nessun area in Italia più del Mezzogiorno ha bisogno di investimenti in conoscenza. Poche le città possono creare “massa critica” come Napoli. Perché dunque gli IIT solo «sopra la linea»?