Ricivilizzare l’urbano

Traccia della relazione di Massimo Pica Ciamarra al Convegno internazionale “Planning Normality/Bio-Architecture – RE-HUMANISE URBAN AREAS – A global vision in a challenge for the future”, Firenze/Palazzo Medici Riccardi, promosso da: Provincia di Firenze e Fondazione Italiana per la Bioarchitettura e l’Antropizzazione sostenibile dell’ambiente.

 

“a map of the world that does not include Utopia is not worth even glancing at” (O. Wilde)    

 

Una serie di strisce umoristiche ne “Le Petit Français illustré” raccontavano del “L’idée fixe du savant Cosinus” che voleva fare il giro del mondo per “civilizzare i negri”. Intrappolato nei meandri del metrò, l’illustre sapiente però non riesce ad uscire da Parigi, benché inventi fantasiosi mezzi di trasporto alternativi1.

Era la fine dell’800. Oggi nessuno immagina più di andare a civilizzare altri popoli, ma proprio qui – nella civilissima Europa – è diventato urgente “ricivilizzare l’urbano”2.

A.1. Per millenni le città sono state una meravigliosa espressione della creatività umana. Come osservano gli archeologi3, le città sono nate quando lo spazio fra gli edifici ha assunto significato, o meglio quando questo significato ha cominciato a prevalere rispetto a quello dei singoli edifici.

Nella nostra cultura le città sono chiara testimonianza della necessità di eccedenza, dell’esigenza d’investire in cultura, di creare cioè un bene comune non necessariamente pubblico, ma con fondamentale funzione pubblica.

Le città sono anche testimonianza di integrazione, della capacità di tenere insieme i diversi aspetti della vita sociale e di articolarne le relazioni.

Ancora 200 anni fa questo intreccio – “architetture/infrastrutture/paesaggi” – appariva come una “seconda natura finalizzata ad usi civili”4.

A.2. È noto il paragone fra le espansioni urbane contemporanee e i fenomeni tumorali: in ambedue le cellule – gli edifici – si moltiplicano incontrollatamente perché perdono l’”informazione” che deve tenerle insieme5.

Questa metastasi fa sì che oggi le città appaiano dissolte nell’urbano. La differenza fra “città” e “urbano” è sostanziale:

  • “città” è relazioni fra le parti, disegno del vuoto, compresenze funzionali, integrazione, spazi di aggregazione e socializzazione;
  • “urbano” qui indica un territorio sostanzialmente costruito dove però prevalgono elementi o singoli edifici, come tali sintomi di disgregazione fisica e sociale.

Certo la città è luogo di conflitti, ma sono noti analisi e studi sull’influenza dello spazio fisico sul carattere degli abitanti, sui loro comportamenti, sui processi formativi dei più piccoli6.

Il trasformarsi delle “città” in “aree urbanizzate” sembra affermare un processo evolutivo opposto a quello biologico. Gli esseri primordiali erano “trasparenti” e dotati di doppio asse di simmetria: i loro rapporti con lo spazio erano determinati dalla luce e dal buio, dal calore e da stimoli chimici. Negli organismi superiori è poi comparsa la “pelle” che ha consentito relazioni visive, tattili, sensoriali7. Nel mondo vivente si è passati da esseri isolati a comunità sociali; da singole autonomie a possibilità relazionali e super individualità. Il dissolversi delle città nell’urbano è il risultato di un processo inverso: nel costruito prevalgono monadi edilizie, che a volte riportano al loro interno ogni complessità, ma che comunque galleggiano nello spazio.

A.3. Finalità basilare del costruire, del continuo trasformare gli spazi di vita, è contribuire a migliorare la condizione umana: un assunto elementare però scalfito e perfino negato quando prevalgono obiettivi settoriali.

Il progressivo affermarsi della cultura della separazione ha portato ad agire sempre più attraverso monadi, edifici cioè concepiti con attenzione alle loro “regole interne” e sempre meno attenti alle “regole di immersione” nel contesto 8. Un agire che ignora o vuole ignorare che qualsiasi trasformazione incide sull’ambiente in senso lato, è parte del paesaggio e s’inserisce nel processo di stratificazioni che individua ogni luogo.

La “cultura della separazione” permea in profondo la realtà contemporanea, benché non manchino sintomi dell’ambizione ad una visione opposta che ha come punto di fuga la “cultura dell’integrazione”. In questo senso alcune tradizionali distinzioni ormai non solo sono improprie, ma producono danni. Ogni trasformazione fisica – non importa la dimensione – è simultaneamente ambiente/paesaggio/urbanistica/architettura: questi termini sono sempre più sostanziali sinonimi, prima che ne si approfondiscano le specifiche articolazioni.

La forma degli spazi di vita riflette le regole che una comunità si è data: e queste regole riflettono il mutare delle mentalità dominanti. Con sempre maggior forza oggi emerge l’urgenza di visioni d’insieme: ”architettura” (fra i precedenti sinonimi è il termine più antico) ha quindi ormai significati diversi dal passato; non è più una perversione di pochi; non riguarda più solo i caratteri ed i linguaggi espressivi degli edifici; influenza benessere e felicità umana molto più che l’odore dei cornetti caldi9!

B.1. Un tempo – prima dell’era delle telecomunicazioni e della rivoluzione informatica – sostanzialmente le relazioni fra gli individui erano di tipo diretto e le relazioni nel costruito erano di tipo fisico. A metà del secolo scorso, il ruolo assunto dai sistemi di trasporto e dalle reti della mobilità portò a considerare che se -nelle città del passato- il fiume, l’acropoli, le mura o un particolare segno del suolo era l’elemento capace di spiegare le ragioni dell’aggregazione, la “nuova dimensione delle città” rendeva ormai improbabili elementi di riferimento visivo per l’intera aggregazione: solo i segni delle freeways erano in grado di assumere questa funzione10.

Oggi cresce il dominio delle reti immateriali. Le tecnologie ITC promettono futuri inimmaginabili 11. Le città hanno sempre avuto una loro intelligenza: l’hanno poi attutita dilatandosi, assumendo modelli impropri, non riuscendo più ad interpretare il rapporto con il territorio. “Smart city”12 non è una panacea: aiuta, mitiga, non risolve; richiede simultaneamente di ripensare alle trasformazioni degli ambienti di vita per cercare di reimmettere “città”  -“civiltà” e tensione al futuro – nell’urbano.

Di questa preoccupazione non c’è traccia negli apparati normativi, figli della “cultura della separazione ”per la quale ambiente/paesaggio/urbanistica/architettura sono questioni da trattare indipendentemente l’una dall’altra. Siamo sommersi da sempre nuove regole, obsolete anche quando nascono perché aggiungono requisiti settoriali e procedure inconsapevoli dei loro intrecci. Ad esempio, per le patologie dell’urbano non è sufficiente una terapia di edifici sostenibili. Un insieme di edifici sostenibili non produce ambienti di vita sostenibili. La sostenibilità peraltro non si esaurisce in termini energetici o ambientali: la sostenibilità sociale è prioritaria. Si impongono quindi mutazioni sostanziali13.

B.2. Le condizioni che avevano di fronte i costruttivisti russi li portavano a proclamare: “Noi contrapponiamo ai tipi architettonici prerivoluzionari: la casa di affitto, il palazzetto, il circolo della nobiltà ecc. che provengono dalle condizioni sociali, tecniche ed economiche antecedenti la rivoluzione […], un nuovo tipo di habitat comunitario, un nuovo tipo di club, di comitato esecutivo, di fabbrica che devono diventare il nuovo quadro di vita, il condensatore della cultura socialista”14. Gli architetti costruttivisti erano convinti che nuovi tipi di architettura -capaci di condensare i nuovi rapporti sociali- avrebbero risolto il problema del “contenuto ideale dell’architettura”15.Volevano agire con il costruito, cercavano nuove tipologie edilizie ricorrenti, come lo sono stati i templi, i fori, poi le chiese, i campanili, i mercati, le scuole.

Le condizioni attuali richiedono una terapia diversa, che non agisca sul “costruito”, ma prioritariamente sulle relazioni e sul “non costruito”16. Una rete di “luoghi di condensazione sociale” potrebbe contribuire a ridare senso all’urbano e generare ricorrenze immateriali supportate da reti ITC. Si tratta di spostare il centro dell’attenzione dall’edificio allo spazio pubblico con il quale si relaziona e che contribuisce a formare17.

Gli spazi pubblici sono una rete ad intensità variabile: il passaggio da uno spazio pubblico ad un altro avviene sempre tramite altri spazi pubblici che -al di là di quelli che hanno esclusivo o prevalente carattere funzionale (come una strada discorrimento)- quando intrecciano funzione/forma/significato possono assumere ruolo di fattori di aggregazione o di condensazione sociale. La rete minuta degli spazi pubblici -non solo quelli che si riempiono di gente, di musica e spettacolo- è l’essenza di una città.

B.3. Nell’urbano l’automobile -la mobilità veicolare individuale- non solo è fattore di inquinamento: soprattutto ha facilitato la dispersione. Quindi la fine dell’era del petrolio e l’adozione di propulsori ad idrogeno potrà azzerare l’inquinamento; ma di per sé non inciderà sugli effetti patologici dell’abbandono della città compatta e della dispersione.

Indispensabili -ma insufficienti- le reti ITC mitigano le domande di spostamento dovute a motivazioni puramente funzionali, a vantaggio di quelle diversamente motivate.

Al di là di idonee forme di mobilità adatte alla scala globale e alle dimensioni territoriali e urbane, opporsi alle patologie della dispersione richiede allora anche altro, come incrementare densità, mixitè / compresenze di attività; facilitare percorrenze pedonali e similari in ambiti di prossimità; adottare “edifici percorso”; tessere reti di “luoghi di condensazione sociale”.

C.1. I colloqui “L’Architecte et le Pouvoir”18 avviarono il confronto su regole e condizioni del costruire in una ventina di Paesi non solo europei: le diversità trovarono un primo sbocco nel progetto di “Directive européenne sur l’architecture et le cadre de vie”19. Riconvertire le regole richiede tempo ed impone intrecci di azioni convergenti tese a coniugare la trasformazione degli stili di vita verso forme di frugalità con l’esigenza di promuovere sempre nuove “eccedenze”.

Da una parte cioè ridurre emissioni e inquinamenti, ridurre gli spostamenti per necessità primarie, ridurre i fabbisogni di energia anche realizzando interventi capaci di produrre più di quanto consumano. Dall’altra accrescere qualità e bellezza, riconoscendone il potere sociale e civile e l’utilità collettiva nel perseguirla.

Città e civiltà hanno la stessa radice etimologica. Per la qualità della vita, questione base è re-immettere “città” nell’urbano, ri-civilizzare l’urbano.

Peraltro una Risoluzione del Consiglio d’Europa20 impegna a “promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica”; mentre l’art.9 della Costituzione “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico”, cioè lo straordinario sedimentarsi di innovazioni che, interrotto, subdolamente ha tradito l’essenza stessa della nostra tradizione.

C.2. Attraversando vari decenni, le iniziative per la “bioarchitettura” hanno prodotto concrete mutazioni: fra 5 anni21 quelle pubbliche e fra 7 quelle private, tutte le nuove costruzioni dovranno essere a “impatto zero”. Oggi quindi occorre una nuova e diversa mobilitazione culturale, che non riguardi più i singoli edifici, ma le loro relazioni e gli spazi “non costruiti”.

Per l’urbanistica italiana, un DM del 196822 avviò la stagione della classificazione in zone omogenee, dei requisiti minimi, degli standard tesi a garantire numeri eguali in condizioni estremamente diverse.

Quest’ottica arido-funzionalista è alle radici della crisi dei territori: la risoluzione separata di singoli problemi ha contribuito a creare un problema complessivo sempre più grosso ed inestricabile.

C.3. Come passare dall’era della separazione a quella dell’integrazione? come diffondere una rete di “luoghi di condensazione sociale” e realizzare la “città dei 5 minuti”?

La visione integrata tutela e valorizza il patrimonio del passato con simultanea costruzione del patrimonio del futuro. In altre parole assicura nuove indispensabili eccedenze: investe in cultura, risorsa che non si esaurisce, anzi ricca di effetti moltiplicatori.

Nel futuro l’innovazione sarà soprattutto nel modo di vivere le città. Anche per questo non ha senso continuare a misurare gli interventi in termini di cubatura: indici di edificabilità espressi in termini di mq. n.u. consentono l’effettiva gestione del territorio e liberano energie creative; né ha senso controllare le destinazioni funzionali, opporsi a mixité o conversioni degli usi se non per alcune chiare incompatibilità ambientali. Velocità e flessibilità sono oggi paradigmi ineludibili.

Per le trasformazioni fisiche degli ambienti di vita occorre ragionare anche su requisiti difficilmente misurabili, raccogliere indicazioni -non importa se a volte contrastanti- che comunque spingano a riflettere su principi unitari da declinare diversamente nelle singole realtà: molto utili – in questo senso – la volontà di apofenia23 (nel leggere quanto esiste) e gli strumenti della topologia (ai fini propositivi).

Con questa visione, come trasformare l’apparato normativo perché spinga a “ricivilizzare l’urbano” privilegiando relazioni e qualità del “non costruito”?

 “Le cose non si cambiano combattendo la realtà esistente, ma costruendo nuovi modelli che rendano obsoleti quelli esistenti”

(R. BuckminsterFuller)

 

 

Note

1  Georges Colombe (Christophe), L’idée fixe du savant Cosinus, Paris 1893-98

2 Le Carré Bleu” n°3/2013: sull’ambiguità del termine città cfr. intervento a Cantercel “L’organicitè, cheminement d’une utopie?”

3 Ruth Whitehouse, “Le prime città”, Newton Compton 1981

4 J. Wolfgang von Goethe, “Viaggio in Italia” (1817), Mondadori 2006

5 Konrad Lorenz, “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, Adelphi 1974

6 Alexander Mitscherlich, “Il feticcio urbano”, Einaudi 1968 (1965)

7 Adolf Portmann, “Le forme viventi”, Adelphi 1989

8 M.Pica Ciamarra, “La frontiera ambigua del progetto urbano”, in  Interazioni, Clean 1997

9 Ruwen Ogien, L’influence de l’odeur des croissants chauds sur la bonté humaine, Grasse F. 2011

10 Alison e Peter Smithson, “Conversazioni” /anni ‘60

 11 Antonio Saggio, L’impact de la révolution informatique sur la ville contemporaine, Le Carré Bleu, n°3/2013 

12  Smart city – smart planning”, editorial Bioarchitettura® n.76, 2012

13  Maurizio Carta, “Re-think, Re-load, Re-cycle: Mediterranean Urban Metamorphosis” ,Le Carré Bleu n°3/2013

14  Moisej Ginzburg, cit. in AnatoleKopp, “Città e Rivoluzione: Architettura e urbanistica sovietiche degli anni Venti”, Feltrinelli 1977 (a cura di E. Battisti)

15 “Critica del costruttivismo” in “SA” n.1/1928

16 Jorge Cruz Pinto, “Elogedu vide”, Le Carré Bleu, n°2/2010; M.Pica Ciamarra, “Apologia del (non costruito)” in Architettura e Città, n°12-13, Agorà 2004

17 cfr. “Carta dello Spazio pubblico”, http://www.biennalespaziopubblico.it/blog/blog/2013/05/17/carta-spazio-pubblico/ (italiano/inglese)

18 Le Carré Bleu, n°1/1996, articles par Adrien Boros et Philippe Fouquey

19 Le Carré Bleu, n°4/2008

20  12.02.2001 / Risoluzione del Consiglio d’Europa sulla qualità architettonica dell’ambiente urbano e rurale, GU C n°73 06.03.2001

21 L. n°90 del 03.08.2013 / recepimento della Direttiva 2010/31/UE -19.05.2010- del Parlamento europeo e del Consiglio

22 DM n°1444 del 02.04.1968, oggi scalfito dalla Legge n°58 del 21.08.2013 che apre a possibili deroghe da parte di Regioni e Provincie autonome

23 cfr. “Mémoire in mouvement”, La Collectiondu CB n°1, pag.116 (tutti i documenti del CB sono anche su www.lecarrebleu.eu)