Accordo di Parigi: analisi da una prospettiva ambientale e legale

Introduzione

Dal 30 Novembre al 12 Dicembre 2015 si è svolta a Parigi la COP21, ossia la XXI sessione della Conferenza delle nazioni (Conference of Parties, COP) che hanno sottoscritto la Convenzione ONU sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, o UNFCCC). Il risultato di queste due intense settimane di negoziati è stato il Paris Agreement, un accordo approvato dai 195 Paesi partecipanti alla Conferenza.

La COP21 di Parigi è stato il culmine di un processo di negoziazione lanciato a Durban, in Sud Africa, nel 2011. Il suo obiettivo era di stabilire un nuovo accordo internazionale sul clima che entrerà in vigore nel 2020, quando scadrà il secondo periodo d’impegno del Protocollo di Kyoto. Sul tavolo della trattativa erano state riproposte le stesse questioni negoziate del vertice sul clima a Copenaghen, nel 2009: gli sforzi globali di mitigazione (che nel gergo dell’UNFCCC esprime la riduzione delle emissioni di gas-serra) e la loro ripartizione tra i Paesi; l’adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico; la conservazione delle foreste in quanto la loro distruzione e degrado causano una quota significativa delle emissioni globali; i trasferimenti finanziari verso i paesi in via di sviluppo; i partenariati tecnologici; lo sviluppo di competenze scientifiche e il rafforzamento istituzionale a livello nazionale e sovranazionale; gli accordi su strumenti transnazionali di protezione del clima. L’unica novità di rilievo ha riguardato il tema delle perdite e dei danni, dove sono state dibattute le modalità per la compensazione dei paesi poveri per i danni che questi subiscono a causa del cambiamento climatico.

Il ministro degli esteri francese e presidente della COP21, Laurent Fabius, subito dopo l’approvazione, ha definito l’accordo “giusto, sostenibile, dinamico, equilibrato e legalmente vincolante”. Ovviamente, non sono mancate opinioni e valutazioni contrastanti. È davvero così? Sarà sufficiente rovesciare la tendenza del cambiamento? O servirà solo a rendere un po’ più lenta la catastrofe climatica?

 

Il carattere legale dell’Accordo di Parigi

Sicuramente, uno dei maggiori argomenti di discussione dopo la conclusione della COP21 riguarda la natura legale dell’Accordo di Parigi. Su questo punto molti analisti hanno espresso forti dubbi. Per ottenere qualche chiarificazione relativa a questa delicata tematica, bisogna fare riferimento alla XVII Conferenza delle Parti, tenutasi a Durban nel 2011. Infatti, per evitare che in futuro potesse reiterarsi un risultato fallimentare come quello di Copenhagen, il Durban Platform for enhanced action stabiliva che durante la COP21 di Parigi nel 2015, dovesse essere adottato “a protocol, another legal instrument or an agreed outcome with legal force under the Convention applicable to all parties”. Sulla base di questa premessa, gli stati avevano definito una roadmap che doveva portare, entro il 2015, all’adozione di un protocollo, un altro strumento legale o una conclusione condivisa, avente forza legale secondo la Convenzione e applicabile a tutte le Parti che lo avessero sottoscritto. Tale accordo avrebbe dovuto prevedere impegni di limitazione delle emissioni clima-alteranti non solo per i Paesi industrializzati, ma anche per le maggiori economie emergenti (Cina, India, Brasile). La procedura approvata a Varsavia in occasione della COP19 per facilitare la predisposizione di un testo che contenesse impegni accettabili da parte di tutti prevedeva che ciascun Paese inviasse, entro il primo trimestre del 2015, una comunicazione contenente informazioni sul contributo (INDC, Intended Nationally Determined Contribution) che ogni nazione avrebbe dato in termini di contenimento delle emissioni di gas-serra.

 Indipendentemente dal nome adottato, il fatto di precisare che uno strumento debba avere “forza legale secondo la legge internazionale”, rimanda implicitamente alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. In particolare, secondo l’articolo 2 di tale Convenzione, un trattato è “un accordo internazionale concluso in forma scritta fra Stati e disciplinato dal diritto internazionale, contenuto sia in un unico strumento sia in due o più strumenti connessi, e quale che sia la sua particolare denominazione.”  Il documento adottato a Parigi può quindi essere definito un trattato poiché presuppone un accordo internazionale stipulato in forma scritta tra stati. Inoltre, esso è governato dalla legge internazionale in quanto è stato adottato ai sensi dell’UNFCCC, perseguendo gli obiettivi della medesima Convenzione.

La formula scelta a Durban nel 2011 rappresenta un tentativo di compromesso tra gli interessi divergenti degli stati; in particolare, l’EU e molti paesi in via di sviluppo volevano un trattato legalmente vincolante; gli USA preferivano uno strumento che non avesse poi avuto bisogno di una ratifica del Senato; la Cina e l’India insistevano affinché non ci fossero obblighi per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, il fatto che l’accordo di Parigi possa essere considerato un trattato, non significa che sia in toto vincolante, ovvero che ogni sua parte sia fonte di obblighi internazionali per le parti contraenti. Un trattato può infatti contenere sia elementi giuridicamente vincolanti che non vincolanti. Per capire quali parti dell’accordo creino delle obbligazioni legali, bisognerà dunque interpretare il trattato, analizzando il contenuto dell’accordo e le circostanze in cui è stato adottato.

Più specificatamente, secondo l’articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, un trattato deve essere interpretato in buona fede:

– seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato, ovvero analizzando letteralmente il testo;

-esaminando l’intenzione delle parti, cioè le circostanze in cui il trattato è stato concluso; – analizzando l’oggetto e lo scopo del trattato.

Prima di esaminare legalmente il testo e di analizzare le circostanze in cui è stato adottato, riteniamo opportuno chiarificare lo scopo e l’oggetto del trattato.

 

Analisi dello scopo e dell’oggetto del Paris Agreement

L’Accordo di Parigi riconosce il cambiamento climatico come una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile sia per la società umana sia per il pianeta; gli stati riconoscono la necessità di agire con urgenza,  considerando il cambiamento climatico un pericolo per l’umanità. Nello specifico, le parti si impegnano ad adottare delle misure per mitigare il cambiamento climatico, a cooperare tra di loro e a dare una risposta internazionale efficace, appropriata e progressiva.

In generale, gli obiettivi dell’accordo di Parigi prevedono: -impegni nazionali di riduzione e politiche di adattamento; con la verifica di questi impegni periodicamente, con un primo resoconto globale nel 2023 e successivamente ogni cinque anni; l’obiettivo di mantenere la temperatura media globale al di sotto dei 2 °C, ma di fare ogni sforzo per non aumentare la temperatura media globale rispetto all’era preindustriale di più di 1,5 °C; l’ incremento delle capacità di adattamento agli impatti avversi del cambiamento climatico e il rafforzamento della resilienza climatica e di uno sviluppo a basse emissioni di gas serra in una modalità che non minacci la produzione di cibo; -la coerenza dei flussi finanziari con i percorsi verso uno sviluppo resiliente a basse emissioni.

 

Analisi legale dell’Accordo di Parigi 

Dopo aver analizzato lo scopo e gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, l’analisi letteraria del testo adottato ci permetterà di precisare il linguaggio obbligatorio presente nel trattato, individuando i termini che potrebbero comportare obbligazioni legali maggiori. L’impiego  del modale shall, per esempio, crea un maggiore vincolo per gli stati rispetto a should, poiché indica che dei comportamenti devono essere intrapresi per raggiungere un certo risultato.

Nell’Accordo di Parigi, il termine shall è utilizzato con maggiore frequenza soprattutto in relazione al concetto di mitigazione, trasparenza, adattamento e finanza. Vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta: –

Mitigazione: L’accordo prevede che le parti debbano adottare misure di mitigazione interna con lo scopo di raggiungere gli obiettivi indicati dai contributi volontari determinati a livello nazionale. Ogni parte deve comunicare i contributi nazionali ogni cinque anni. Inoltre, l’Accordo stabilisce che tutti i paesi debbano intraprendere sforzi ambiziosi al fine di raggiungere gli obiettivi definiti nell’articolo 2 dell’Accordo e che questi sforzi dovranno progredire nel tempo, con il riconoscimento del bisogno di supportare i paesi in via di sviluppo nell’effettiva implementazione dell’ accordo. Questo significa che le parti sono obbligate a stabilire, comunicare e aggiornare i contributi determinati a livello nazionale che intendono raggiungere e intraprendere degli sforzi attraverso misure di mitigazione nazionale per conformarsi a tale obbligo; misure che dovranno progredire secondo il massimo grado di ambizione, alla luce delle proprie responsabilità comuni differenziate e delle rispettive capacità e circostanze nazionali.

Adattamento: L’accordo stabilisce che ogni parte dovrà impegnarsi in processi di pianificazione e nell’attuazione di azioni di adattamento, compreso lo sviluppo e il potenziamento di programmi e di politiche per raggiungere quest’obiettivo.

Trasparenza e responsabilità: Al fine di aumentare la fiducia reciproca tra le parti e di promuovere un’attuazione effettiva dell’Accordo, è istituito un quadro di maggiore trasparenza basato su una flessibilità organizzativa che tiene conto delle diverse capacità delle parti e che si fonda sulla cooperazione collettiva. Il quadro di trasparenza dovrà essere attuato in modo “non intrusivo, facilitante, non punitivo, rispettoso della sovranità nazionale”. Gli stati sono quindi obbligati a fornire informazioni per monitorare i progressi compiuti nell’attuazione e nel raggiungimento del contributo nazionale indicato. Inoltre, i paesi industrializzati e le altri parti che forniscono supporto dovranno fornire informazioni riguardanti il finanziamento, il trasferimento tecnologico e la creazione di capacità forniti ai paesi in via di sviluppo. Inoltre, le informazioni saranno sottoposte ad una revisione tecnica di esperti.

Finanza: l’Accordo stabilisce che i paesi industrializzati dovranno fornire risorse finanziarie per aiutare i paesi in via di sviluppo rispetto alla mitigazione e all’adattamento, in coerenza con gli obblighi assunti nel quadro della Convenzione. L’accordo prevede un fondo di investimento pubblico e privato di almeno 100 miliardi di dollari l’anno, a partire dal 2020, per aiutare i paesi in via di sviluppo a fronteggiare il cambiamento climatico. Inoltre, i paesi industrializzati dovranno comunicare ogni due anni informazioni indicative, qualitative e quantitative, rispetto ai livelli previsti di risorse finanziarie pubbliche da fornire ai paesi in via di sviluppo. Riassumendo, dall’Accordo si evince che gli Stati sono obbligati a comunicare e mantenere i contributi volontari determinati a livello nazionale e i contributi finanziari rispettivamente ogni cinque anni e ogni due anni; ad adottare misure nazionali per raggiungere tali contributi; a riportare regolarmente le loro emissioni ed azioni intraprese. .

Il transparency framework assieme al take stock, ovvero al resoconto globale dei progressi collettivi relativi alla mitigazione, all’adattamento e ai contributi finanziari sono elementi essenziali per l’implementazione dell’accordo di Parigi e per poter valutare il progresso verso il raggiungimento degli obiettivi presenti nel trattato. Il primo resoconto globale sarà effettuato nel 2023 e successivamente ogni cinque anni. I risultati del resoconto globale forniranno informazioni alle Parti per aggiornare e migliorare, secondo modalità stabilite a livello nazionale, le loro azioni e il loro sostegno e per rafforzare la cooperazione internazionale per la lotta al cambiamento climatico. L’Accordo di Parigi stabilisce che anche nel 2018 sarà fatto un resoconto, ribadendo però che gli stati dovranno solo comunicare e rivedere i loro contributi senza obbligo di rafforzarli. Il linguaggio legale diviene invece più vincolante per il periodo post-2020. Difatti, le parti si impegnano, a partire dal 2023, a far “progredire” i contributi determinati a livello nazionale. Il transparency frame work e il global stock take sono quindi necessari non solo per fare il punto della situazione, ma rappresentano dei veri e propri momenti di pubblico scrutinio in cui gli stati possono rivedere e rafforzare gli impegni presi e cercare di raggiungere gli obiettivi previsti dall’Accordo.

 

Chiarificazioni dei dubbi sui contributi determinati a livello nazionale

Gli stati sono quindi giuridicamente vincolati e hanno l’obbligo di comunicare e rivedere i propri contributi volontari determinati a livello nazionale. Tuttavia, si tratta di un obbligo di condotta ma non di risultato. L’Accordo prevede che gli stati adottino le misure necessarie per raggiungere i contributi nazionali e notifichino le misure implementate e i risultati raggiunti; ma non esiste nessun obbligo legale di realizzare quei contributi.

Gli stati dovranno comunicare i progressi raggiunti e saranno quindi sottoposti a una revisione internazionale, ma non sono obbligati a raggiungere i contributi previsti. Gli obblighi legali riguardano il prendere delle misure per mantenere tali contributi e la trasparenza nella loro implementazione. Infatti, l’accordo afferma che i contributi nazionali devono essere rivisti ogni cinque anni, assicurando trasparenza, accuratezza, completezza, comparabilità, consistenza ed evitando il doppio conteggio. Il fatto che si parli di precisione e di trasparenza costituisce un maggiore obbligo legale per gli stati.

 Un altro punto che creava dei dubbi riguardava il fatto che i contributi nazionali fossero conservati in un registro UNFCCC e non potessero, pertanto, essere considerati parte integrante dell’accordo. In questo modo, gli stati non sono obbligati a ratificare la parte riguardante i contributi determinati a livello nazionale ma sono comunque legalmente vincolati a prendere delle misure di mitigazione per raggiungere tali contributi.. Quindi, la loro deposizione al di fuori dell’accordo, sebbene possa avere dell’implicazioni pratiche, non determina il loro carattere legale. Inoltre, il fatto che i contributi non siano iscritti nell’accordo potrebbe rendere il loro controllo più semplice e generare una maggiore volontà ed ambizione nel rafforzare i propri contributi.

 

Analisi delle circostanze in cui è stato concluso l’accordo

Per poter comprendere che cosa abbia indotto gli attori politici ad optare per un accordo contenente sia elementi vincolanti che non vincolanti, bisognerà analizzare le intenzioni delle parti e le circostanze in cui l’accordo è stato adottato. La strategia adottata dagli stati partecipanti alla Conferenza è piuttosto flessibile e si basa sull’implementazione di una global climate policy che sia meno vincolante ma che abbia dei risultati effettivi, garantendo una cooperazione politica più costruttiva. Alla base di questa decisione vi è la volontà di evitare un’impasse o dei risultati deludenti come accadde a Copenhagen. Si è pertanto preferito adottare dei punti d’accordo meno vincolanti ma che garantissero un maggiore compromesso tra gli interessi particolari e divergenti degli stati.

Inoltre, dato che la presenza di elementi vincolanti e di obbligazioni in un accordo potrebbe comportare una riduzione del potere sovrano e dell’autonomia decisionale,  molti stati preferiscono optare per una scelta legale più “soft” in modo da proteggere la propria sovranità dalla pressione internazionale. .

La strategia scelta per l’accordo di Parigi può essere definita come processo “bottom up”; infatti, mentre il protocollo di Kyoto stabiliva quali fossero gli emission targets e richiedeva una lista annessa per raggiungerli, l’accordo di Parigi chiede ai paesi di stabilire volontariamente i propri impegni nazionali e di chiarificare il modo per raggiungere questi obiettivi. I principi su cui si basa l’accordo di Parigi sono quelli di equità, responsabilità comuni e differenziati, sulla base delle responsabilità diverse e rispettive capacità e delle differenti situazioni nazionali. Viene meno, pertanto, la divisione rigida stabilita dal protocollo di Kyoto tra paesi industrializzati e in via di sviluppo, poiché ogni paese può scegliere dove collocarsi. Inoltre, mentre ai paesi sviluppati spettano “obiettivi di riduzione”, ai paesi in via di sviluppo si richiedono “sforzi di mitigazione”.

 

Il meccanismo del “naming and shaming” e le sanzioni reputazionali 

L’Accordo di Parigi non prevede dei meccanismi costrittivi o punitivi; il che significa che non ci sono delle conseguenze legali vere e proprie per gli stati che vengono meno agli obblighi previsti dall’accordo. L’Accordo prevede però che gli stati siano obbligati a riportare e a rivedere i risultati raggiunti ogni cinque anni e a migliorare eventualmente i propri obiettivi. Vi è quindi un obbligo di comunicare le azioni intraprese nell’arena internazionale.

Il meccanismo utilizzato è quello del “naming and shaming”, cioè una forma di pressione sociale nella governante globale. Più precisamente, secondo quanto affermato da Gopalan e Fuller nel 2014 il naming and shaming è “a deliberate attempt to negatively impact a state, regime, or leader’s reputation by publicizing and targeting violations on International law norms”, ovvero quel tentativo deliberato di avere delle ripercussioni negative sulla reputazione di uno stato, di un regime o di un leader, pubblicizzando o mettendo in evidenza la violazione delle norme internazionali. Quindi, pur non essendoci delle sanzioni e dei mezzi coercitivi, lo stato che viene meno agli obblighi previsti dall’accordo corre dei rischi di tipo reputazionale. Gli stati sono incoraggiati ad agire poiché violando un accordo potrebbe cambiare il modo in cui gli altri stati lo tratteranno in futuro. Sono quindi in gioco la credibilità, la posizione diplomatica e la fiducia che gli altri stati avranno nei suoi confronti.

Secondo Kehoane, il comportamento degli stati nell’arena internazionale non è influenzato solo dall’aspetto razionale o strumentale, ma anche da quello psicologico. Gli stati, infatti, sono concentrati sulla loro immagine e sulla stima che hanno gli altri nei loro confronti e la decisione di rispettare alcune norme internazionali potrebbe essere il risultato di un calcolo dove il focus è la posizione sociale dello stato nella comunità internazionale. Ne consegue che per motivi di reputazione o per paura degli effetti che deriveranno nel perdere la reputazione, i governi potrebbero seguire le regole e i principi dei regimi internazionali anche se i loro interessi nazionali non ne beneficerebbero.

La reputazione di uno stato può quindi essere paragonata ad un bene pubblico: nell’anarchia delle relazioni internazionali gli stati, attori razionali, sono portati ad adottare gli obblighi previsti dai trattati per mantenere una reputazione in vista di una cooperazione futura con gli altri stati, accettando i costi che comporta la produzione e il mantenimento di tale reputazione. E dato che il meccanismo del naming and shaming danneggia la reputazione e lo status del trasgressore, lo stato si impegnerà a rispettare le obbligazioni internazionali. Altrimenti correrà il rischio di non poter prendere parte a trattative future (anche relative ad altre tematiche)e vedrà cambiare il modo in cui gli altri stati si comporteranno in futuro.

 

Il dopo Parigi

Anche se alcuni analisti hanno espresso i loro dubbi sull’efficacia dell’accordo e sulla sua forza di invertire la tendenza dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici, l’accordo di Parigi, nel suo complesso, invia un messaggio forte a imprese, investitori e cittadini: l’era della dipendenza delle economie dalle fonti fossili di energia è alle spalle, mentre per il futuro l’energia che alimenta la crescita economica potrà essere solo rinnovabile e pulita.

Va dato merito, dunque, alla presidenza francese di essere riuscita in questo difficile tentativo di accomodare le richieste e le aspettative contrastanti dei Paesi sviluppati, dei Paesi in via di sviluppo, dei Paesi produttori di petrolio, dei Paesi più vulnerabili, dei Paesi che difendono l’integrità ambientale del processo Onu sul clima.

Di sicuro l’accordo di Parigi ha riconosciuto le esortazioni della comunità scientifica ad affrontare con urgenza il cambiamento climatico. I tre elementi chiave per farlo (mantenere il riscaldamento al di sotto di due gradi; abbandonare i combustibili fossili; rivedere, ogni cinque anni, gli impegni dei Paesi di riduzione dei propri livelli di emissioni di gas-serra) sono nel testo dell’accordo, come pure importanti aperture a temi trasversali, quali l’integrità biologica e la sicurezza alimentare.

Riassumendo, l’accordo di Parigi ha accolto l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale “ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”. Il target di 2°C era necessario per evitare almeno gli effetti devastanti del climate change. L’accordo di Parigi accetta l’obiettivo di “contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali e di proseguire gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 °C”, riconoscendo che ciò ridurrebbe in modo significativo i rischi e gli impatti del cambiamento climatico.

Il testo richiama anche l’impegno per un “global peaking of greenhouse gas emissions as soon as possible” e di procedere verso la riduzione progressiva delle emissioni nella seconda metà del secolo “as science allows”.

Sul tema della ‘trasparenza’ l’accordo di Parigi richiede a tutte le Parti di valutare i loro sforzi di riduzione delle emissioni ad intervalli di cinque anni e conseguentemente alzare la barra degli impegni. Rispetto al nodo del finanziamento ai Paesi poveri per contrastare il caos climatico, l’accordo finale rinnova l’impegno (già siglato nel 2009) dei Paesi sviluppati di donare 100 miliardi di dollari l’anno ai Paesi in via di sviluppo, come somma base che dovrà essere accresciuta progressivamente.

L’accordo include inoltre l’eventualità che gli Stati possano attuare le loro Intended Nationally Determined Contributions (INDC) in cooperazione, per esempio attraverso i trasferimenti internazionali dei “risultati di mitigazione”. Al fine di garantire che i trasferimenti internazionali non compromettano l’integrità ambientale dell’accordo, questo rimanda all’istituzione di un meccanismo credibile e trasparente per garantire che la riduzione delle emissioni non siano registrati due volte.

L’accordo di Parigi può pertanto essere considerato come un buon punto di partenza; difatti, i contributi volontari determinati a livello nazionale potrebbero incoraggiare una cooperazione maggiore tra le parti dell’accordo, considerando che gli stati s’impegnano ogni cinque anni a illustrare gli sforzi compiuti e sono sottoposti ad un periodico controllo internazionale.

Le reazioni pratiche degli stati e il loro impegno a rendere effettive le disposizioni dell’accordo saranno quindi fondamentali per capire se l’accordo di Parigi avrà degli effetti legali obbligatori La credibilità di un accordo è infatti dato dalla precisione degli obblighi e della loro coerenza. Di fatto, come afferma la giurista Rosalyn Higgins “Legal consequences can also flow from acts which are not, in the formal sense, binding. Not binding rules may have legal consequences because they shape states ’s expectations as to what constitutes compliant behavior”; ovvero anche gli elementi meno vincolanti contenuti in un trattato possono avere conseguenze legali se si traducono in comportamenti precisi e coerenti da parte degli stati.

Il rispetto dell’accordo deriva quindi dal modo in cui gli stati comunicano i contributi determinati e prendono delle misure a livello nazionale per implementarli. E gli incontri internazionali in cui sono comunicati e rivisti questi contributi potrebbero rappresentare dei momenti politici in cui si metterà pressione agli stati, sollecitando un impegno maggiore.

Questa strategia flessibile potrebbe essere una buona base per creare una fiducia reciproca e, sulla base di questa fiducia, rafforzare lo sforzo di ogni singolo stato per tenere fede agli impegni. Ma, dato che non esiste un meccanismo per far rispettare l’accordo, quello che succederà dopo Parigi sarà più importante dell’accordo stesso.

Il rispetto degli accordi è dunque nelle mani di ogni singolo stato e del modo in cui implementerà l’Accordo a livello nazionale; ma anche la società civile avrà un ruolo molto importante: esercitare pressione sugli stati affinché non vengano meno ai loro obblighi.

In ogni caso, il fatto che questa tematica sia inserita come un punto essenziale e ricorrente sull’agenda politica, si può ipotizzare che esso conduca le parti ad impegnarsi con maggiore vigore, cercando di rispettare gli accordi e ponendo le basi per azioni future che siano più ambiziose.