Cambiamenti climatici e migrazioni: i climate refugees

Conosciamo il numero annuale dei rifugiati ufficiali, quelli “politici”, i refugees, assistiti da una Convenzione internazionale e da due apposite strutture dell’Onu. E conosciamo il loro nome e cognome, sono un elenco nominativo, distinguibile per sesso, età e paese di provenienza, per paese di accoglimento della domanda di richiesta d’asilo, per localizzazione del campo profughi o del centro di assistenza. Tutti vorrebbero sapere il numero attuale dei rifugiati non politici, quelli ambientali, quelli climatici. Sono di più, ma conosciamo molto poco di loro, non ci sono identità e numeri ufficiali, percorsi, assistenza.

Asilo si può dare solo a chi è perseguitato o a rischio di guerra (civile) nel proprio paese, riconoscendolo come refugee (cosa giustissima), ma non ad altri migranti forzati. Esistono? Si esistono! Nella motivazione del Premio Nobel per la Pace 2007 (ad Al Gore e al gruppo di scienziati dell’International Panel on Climate Change) e nella recente Enciclica papale (al punto 25) si sottolinea il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate e si ricorda che oggi il rifugiato climatico non ha riconoscimento giuridico. Da una decina di anni vari organismi scientifici e dell’Onu ripetono che saranno circa 250 milioni i rifugiati climatici entro il 2050, pure nello scenario migliore (e qualcuno sostiene entro il 2030).

Le persone con lo status di rifugiato sono 19,5 milioni di donne e uomini: si trovano fuori dal paese di origine e residenza, non possono tornarvi per ciò che sono o in cui credono, sono attualmente senza diritti di cittadinanza e solo in parte ricadono sotto il mandato dell’Alto Commissariato Unhcr. Per 5,1 milioni il mandato è quello di un’altra struttura Onu (l’agenzia Unrwa per i rifugiati palestinesi). Sotto il mandato Unhcr ricadono 14,4 milioni di persone, una cifra anch’essa relativamente stabile anche se negli ultimi anni la crescita è stata maggiore. Gran parte delle donne e uomini oggi refugees aveva lo stesso status già nel 2015, nel 2014, nel 2013 e così via, la media è di ben oltre 5 anni prima che lo status venga in qualche modo revocato.

L’Unhcr contabilizza formalmente a) i veri e propri refugees, sotto il mandato delle due strutture, b) i richiedenti asilo (in attesa di diventare refugees), c) i profughi (sfollati) che restano nel paese d’origine (della fuga). Come ogni primavera, ad aprile 2015 è stato reso noto l’annuale rapporto dell’Unhcr, si tratta di 59,5 milioni migranti forzati alla fine del 2014 rispetto ai 51,2 milioni di un anno prima e ai 37,5 milioni di dieci anni fa. Nel 2014, ogni giorno 42.500 persone in media sono divenute rifugiate, richiedenti asilo o profughi interni, cifra che corrisponde a un aumento di quattro volte in soli quattro anni. Dei 60 milioni di migranti forzati, dunque, sono refugees 15 milioni, una cifra abbastanza stabile nell’ultimo decennio (dunque, sono cresciute le altre)!

Profughi o sfollati interni non hanno “status”, quelli che sono cresciuti di più, sono internally displaced people, un insieme che origina da più cause: guerre civili e disastri soprattutto, quindi anche i delocalizzati ambientali e i rifugiati climatici! Infatti, travolti da traumatiche dinamiche reali, da una ventina di anni è stato introdotto il disastro naturale o provocato dell’uomo (proprio perché è difficile distinguere, soprattutto rispetto alla drammaticità degli effetti) come ragione di delocalizzazione forzata all’interno del proprio paese. Il fatto è che alcune vittime di disastri varcano i confini o subito, per la prossimità fisica dell’evento da cui fuggono, o nel corso del tempo successivo per svariate ragioni: la mancata o carente assistenza, la ricerca di sicurezza, l’inutile attesa nei campi profughi, la nuova situazione sociale ed emotiva creatasi con la fuga.

Da circa trenta anni si utilizza la nozione di “migrazioni ambientali” per distinguerle da quelle “economiche”, senza chiarire se forzati o meno. Nella storia e geografia della presenza umana sul pianeta tutto è sempre intrecciato, libertà e costrizioni, la migrazione non risulta mai una risposta meccanica (con la parziale eccezione della fuga), ogni spinta conflittuale o ambientale si mescola a una dimensione sociale o culturale. Le migrazioni sono sempre e comunque “ambientali”, causa ed effetto di cambiamenti negli ecosistemi di partenza, di arrivo, di transito. Le più forti impronte delle attività umane contemporanee sul contesto di fattori biotici e abiotici e sul clima hanno suggerito una categorizzazione, in particolare per le migrazioni ambientali forzate, cioè le migrazioni da ecosistemi divenuti inospitali a causa di comportamenti umani non violenti.

Il termine “environmental refugee” viene dalla scienza e dalla militanza ecologiste degli anni settanta ed è divenuto di uso comune e ufficiale dopo il saggio del ricercatore cairota Essam El-Hinnawi, edito nel 1985 dall’agenzia dell’Onu che si occupa del programma ambientale, United Nations Environment Programme (Unep), diretta allora dall’egiziano Tolba. Il successo della nozione e del termine fu immediato, producendo definizioni e tipologie, critiche e polemiche, nel mondo scientifico e nel sistema delle Nazioni Unite. La stessa Unep ha continuato da allora a promuovere ricerche e lanciare allarmi, pur senza aver mai definito tuttavia uno specifico mandato e un piano d’azione. E così ha fatto l’Unhcr nell’ultimo decennio.

Dall’inizio degli anni novanta vari autori e organizzazioni hanno tentato di stimare i concreti rifugiati ambientali sulla base di classificazioni sempre più sofisticate, verificandole alla dura prova della realtà di tante evacuazioni, fughe, delocalizzazioni. Un calcolo abbastanza giudizioso effettuato nel 1994-95 (da Norman Myers) ha indicato la cifra di 25 milioni, la più universalmente citata: una cifra che serviva soprattutto a porre un problema nuovo, a darne la notevole dimensione (superiore ai rifugiati politici), a segnalarne la probabile esponenziale crescita entro il 2020 e il 2050. Analisi e dati di altre organizzazioni segnalano che le prime destinazioni in genere sono interne, regionali e da sud a sud, nella quasi impossibilità di sapere quella finale; distinguono catastrofi ecologiche e degrado lento, in connessione con cambiamenti climatici, vulnerabilità delle aree (in particolare urbane) e crescita demografica; suggeriscono statistiche per tipo di disastro e degrado, per continente.

Sul piano istituzionale si sono valutate le conseguenze del riconoscimento formale di un qualche status al rifugiato ambientale, in genere con l’esclusione quasi unanime di modifiche o ampliamenti sulla materia alla Convenzione di Ginevra e tuttavia la sollecitazione a predisporre comunque norme internazionali. Ormai vi è ampia consapevolezza che il dover migrare richiede comunque un investimento di risorse emotive al quale non si è preparati e un investimento di risorse materiali e finanziarie che spesso non si hanno. Sarebbe bene dare autonoma rilevanza storica e giuridica alla nozione di migrazione forzata e al nesso cambiamento climatico – migrazione forzata,

Ben (mal) sappiamo che migranti forzati ci sono da sempre e che da sempre la spinta a fuggire dipende da guerre e conflitti umani o da perturbazioni geofisiche e climatiche. Negli ultimi secoli sono cresciute le perturbazioni provocate o aggravate da comportamenti umani, negli ultimi decenni anche quelle effetto dei cambiamenti climatici antropici globali (come confermano tutti i rapporti dell’Ipcc). Inoltre, molte guerre degli ultimi decenni sono connesse ai cambiamenti climatici antropici globali, sono guerre per l’energia e per l’acqua, sono conseguenza anche di siccità e desertificazione di territori (che, a esempio, hanno colpito la Siria tra il 2006 e il 2010) e, a loro volta, le guerre distruggono ambiente e convivenza civile, desertificano il territorio con le armi chimiche e l’uranio impoverito, scacciano o uccidono generazioni di individui lavoratori manuali e intellettuali, sconvolgono il clima locale (come mostra anche la tempesta di sabbia di qualche mese fa ancora in Siria).

Con scelte e comportamenti clima alteranti, con nostre scelte e nostri comportamenti, con scelte e comportamenti dei nostri stati (i 39 paesi dell’Annesso I del Protocollo di Kyoto) abbiamo violato, violiamo e violeremo il diritto di restare e la libertà di migrare di milioni di persone: abbiamo creato, creiamo e creeremo climate refugees. Sulla base dei cinque Ipcc Report si sa quali sono le aree e rischio e gli eventi inevitabili che li stanno facendo e li faranno fuggire (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, scarsità di acqua e inaridimento del suolo); si sarebbe potuto e si potrebbe intervenire molto per favorire resilienza, informare, prevenire, cooperare, assistere, prima e dopo.

L’Unhcr non si occupa dei rifugiati climatici, non se ne può occupare perché la Convenzione parla di guerre e persecuzioni e, dunque, non ne ha il mandato. Molti di coloro che cercano di attraversare il Mediterraneo non sono richiedenti asilo. Fra di loro moltissimi hanno cominciato a fuggire dai cambiamenti climatici antropici globali per come si sono manifestati nel loro originario luogo di residenza (siccità, desertificazione, inondazioni, uragani, ecc.). Il numero ufficiale dei refugees è statisticamente certo, individuale e relativamente stabile, sempre inferiore ai venti milioni da 70 anni a questa parte, riguarda donne e uomini con nome e cognome, cui l’Onu ha garantito assistenza e un provvisorio rifugio che tende a protrarsi molto nel tempo. Da (almeno) venti anni i “rifugiati climatici” che ogni anno hanno attraversato il confine del proprio paese (senza tornarvi) sono complessivamente molti dei pochi milioni di nuovi rifugiati ufficiali, se solo qualcuno potesse o volesse o dovesse riconoscerli. E i profughi ambientali sono ancor di più. Chi prova a calcolarne il numero studia le vittime dei disastri.

La tipizzazione delle “catastrofi” che provocano ampie delocalizzazioni non è cosa semplice e scontata. Rimangono fuori dai riflettori gli eventi minori e frequenti, a piccola scala, il degrado lento in aree già povere e vulnerabili, sicché il numero complessivo è certamente una sottostima. La siccità e la desertificazione, oppure l’insostenibile inquinamento di alcune aree industriali o urbane sono in crescita e drammatici, ma non vengono considerati come singoli eventi catastrofici. Le fonti dei dati degli incidenti e dei delocalizzati sono studiate da un apposito organismo internazionale. Secondo l’International Displacement Monitoring Centre (Idmc, organismo istituito nel 2006 ma operativo già nel 1998 come progetto preliminare) da un decennio almeno sono oltre 20 milioni ogni anno (e perlopiù non si tratta degli stessi nominativi dell’anno precedente).

Dal 2008 al 2014, in 7 anni, sarebbero stati delocalizzati causa catastrofe oltre 185 milioni di individui umani in almeno 173 differenti paesi, una media di circa 26,4 per anno. Le cifre annuali sono abbastanza disomogenee e talora comprendono l’eventualità di qualche migliaia di individui già spostati in campi profughi e successivamente ancora evacuati: 36,5 nel 2008, 16,7 nel 2009, 42,4 nel 2010, 15 nel 2011, 32,4 nel 2012, 22, 3 nel 2013 e nel 2014 oltre 22. Nei sei anni 2008-2013 avrebbero causato fra i fenomeni climatici oltre 93 milioni di delocalizzati le inondazioni, quasi 45 gli uragani e le tempeste, quasi uno le ondate di freddo in inverno, oltre 550mila le frane (legate all’umidità del suolo), 228mila gli incendi, quasi 2mila le ondate di caldo estremo; fra i fenomeni geofisici oltre 24 milioni i terremoti, oltre 550mila le eruzioni, oltre 25mila le altre frane.

Credo sia utile distinguere i rifugiati con status riconosciuto (o riconoscibile quando chiedono asilo) dagli altri migranti forzati; e distinguere urgentemente i tanti generici profughi ambientali dai rifugiati climatici. Prevenire e riconoscere (anche con accordi bilaterali, anche con corridoi umanitari) i climate refugees è prioritario, pur se un dovere di assistenza riguarda tutti i profughi. Nell’accordo approvato alla 21° Conferenza delle Parti Unfccc di Parigi il 12 dicembre 2015 (oltre a un riferimento ai diritti dei migranti nel preambolo) risalta un riferimento ai delocalizzati, ancora breve ma finalmente operativo. Al paragrafo cinquanta si legge che dovranno essere definiti approcci integrati che scongiurino, minimizzino e indirizzino lo spostamento di persone dovuto agli impatti del cambiamento climatico. Siamo ancora soltanto all’avvio di un gruppo di lavoro e a raccomandazioni, all’interno del cosiddetto Warsaw International Mechanism (capitolo dei “Loss and Damage” associati agli impatti del Climate Change, cominceranno a lavorare proprio nei primi mesi del 2016), meglio di niente.

Dal 2016 al 2030 l’Onu avrà una maggiore possibilità d’iniziativa sui flussi migratori nel loro insieme. Il 27 settembre 2015 è stata adottata l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, con 17 obiettivi (broad goals, il 13° riguarda il clima) e 169 precisi indirizzi (specific targets), uno dei quali riguarda per la prima volta le migrazioni. All’interno del decimo obiettivo delle Nazioni Unite (Reduce inequality within and among countries), il settimo punto riguarda migrazioni che possano essere tendenzialmente sostenibili: tutti dovranno facilitare ordinate, sicure, regolari e responsabili migrazioni e mobilità delle persone, anche attraverso politiche migratorie pianificate e ben gestite. Un altro passo è compiuto, anche se non viene richiamata esplicitamente la lotta dell’Onu, della comunità internazionale e delle singole istituzioni, contro le migrazioni forzate. Si tratta di fare più e meglio in ogni contesto, in ogni paese, in ogni cooperazione allo sviluppo sostenibile.