Celiachia ieri e oggi: da patologia a moda

Da diverso tempo, il cibo non è più considerato mero sostentamento, ma forma d’arte, abile intreccio di aromi e profumi, di colori e suoni, cibo da fotografare, da mangiare prima con gli occhi e poi per necessità.

Per questo possiamo permetterci il cibo “senza”: senza grassi, senza zuccheri, senza ogm, e soprattutto negli ultimi anni senza glutine. Una nuova moda alimentare che prende in prestito l’unica terapia attualmente esistente per il disturbo alimentare più diffuso al mondo: la celiachia. Una malattia autoimmune che colpisce l’1% della popolazione mondiale, l’unica per la quale si conoscono sia la causa genetica, sia la causa ambientale scatenante: il glutine, appunto. Un complesso proteico che si origina a contatto con l’acqua e per azione meccanica, dall’unione di due proteine insolubili presenti in molti cereali: la gluteina e la gliadina. In realtà è solo una piccolissima parte della gliadina (esattamente 33 amminoacidi) a scatenare la reazione nei celiaci: il sistema immunitario attacca l’intestino, provocando il tipico appiattimento dei villi intestinali e impedendo il corretto assorbimento del cibo. Il risultato è uno stato di malnutrizione cronica, con disturbi che vanno da lievi sintomi intestinali, a depressione, osteoporosi, arresto della crescita nei bambini, attacchi epilettici e persino linfoma e adenocarcinoma, due forme di cancro intestinale.

L’unica soluzione per un celiaco, quindi, è seguire una dieta senza glutine vita natural durante. Un regime alimentare terapeutico, adottato anche da chi dichiara (spesso senza alcun controllo medico) di soffrire di “sensibilità al glutine non celiaca[1]” (SGNC): un nome coniato nel 2011 per una malattia difficile da diagnosticare, che avrebbe sintomi simili alla celiachia, senza però presentare né la predisposizione genetica, né la tipica atrofia dei villi intestinali e gli anticorpi specifici. Secondo gli studi di Peter Gibson[2] e di Gino Roberto Corazza[3], però, la maggior parte delle persone che si dichiarano sensibili al glutine (il 95%) soffre di un effetto nocebo: se ingeriscono qualcosa che reputano dannoso, anche se non lo è, stanno male davvero. Per il restante 5%, ancora non si è certi se i sintomi siano imputabili al glutine, o ad altre componenti del frumento.

 

L’ossessione

Oggi la dieta senza glutine è diventata la nuova moda alimentare. Un numero sempre maggiore di persone si auto-prescrive una dieta senza glutine per i motivi più svariati: la speranza di dimagrire, di eliminare le tossine, perché “il glutine fa male”. Il glutine non solo non è più attraente, ma è diventato il nemico numero uno in cucina, percepito alla stregua di un veleno. Un paragone che un secolo fa sarebbe stato impensabile: nel 1884 uno dei marchi storici italiani, Buitoni, lanciò addirittura la pastina glutinata, una pasta con il 15% di glutine secco in più, definita «il miglior alimento per bambini, ammalati e convalescenti», ma anche per obesi, gottosi, uricemici e diabetici. Una manna, insomma, e soprattutto un «potente attivatore dell’intelligenza», tanto che negli anni Trenta anche un altro storico marchio italiano, la Barilla, iniziò a produrre questa tipologia di pasta.

Attualmente, invece, nessuna azienda alimentare oserebbe mettere in orgogliosa evidenza il contenuto di glutine. Anzi, l’ambizione prevalente è proprio quella di eliminare il glutine dal prodotto, apponendo il marchio contrario: la spiga barrata. Vent’anni fa, le aziende che producevano cibi senza glutine si contavano sulle punta delle dita ed erano strettamente legate all’ambito farmaceutico. Oggi invece quasi ogni azienda ha una linea dedicata al cibo aglutinato per un giro d’affari da capogiro. Un esempio? Negli ultimi cinque anni il valore del mercato senza glutine negli Stati Uniti è quintuplicato: raggiunge i 10,5 miliardi di dollari, e presto supererà i 15. Anche in Italia la tendenza è la stessa: questa fetta di mercato nel nostro paese sfiora i 250 milioni di euro l’anno[4]. Infatti, oltre ai 164.000[5] celiaci diagnosticati, sono circa 600.000 le famiglie che comprano almeno un alimento gluten free senza che ci sia la patologia di mezzo. Non sorprende, quindi, che tra le voci dei beni inseriti nel paniere Istat per il calcolo dell’inflazione 2015 sono comparsi anche i prodotti senza glutine, precisamente pasta e biscotti. Un mercato florido, che non ha conosciuto crisi: in Italia è cresciuto del 57% tra il 2007 e il 2011[4], e oggi continua a crescere con un ritmo che va dal 15% al 30%, a seconda dei canali di distribuzione (negozi specializzati, farmacie o Grande Distribuzione Organizzata).

Il motivo di questa vertiginosa crescita è chiaro: il senza glutine va di moda, è trendy. La dieta senza glutine spopola in tutti i paesi industrializzati, promossa in particolar modo dai vip. La prima paladina della battaglia al glutine è una famosa attrice americana: Gwyneth Paltrow, che nel 2008, ha annunciato al mondo di aver rinunciato ai cibi col glutine perché sensibile. Dalle pagine del suo blog Goop, ha intrapreso così una vera crociata contro il complesso proteico, a suon di ricette senza glutine sempre diverse. Un patrimonio culinario snocciolato nei due recenti libri Appunti dalla mia cucina (2011) e It’s All Good (2013), entrati nella lista dei best seller del New York Times. Ma la Paltrow non è sola in questa battaglia: negli ultimi anni come lei si sono convertiti schiere di vip, dalla cantante pop Lady Gaga ad attori del calibro di Russel Crowe. Pochi, anzi pochissimi, i vip che ancora resistono alle lusinghe del glutenfree e che soprattutto lo condannano apertamente, come l’attrice premio Oscar Charlize Theron[6]. A testimoniare questa vertiginosa tendenza ci sono anche i social network: solo su Instagram, il social per eccellenza delle fotografie di cibo, sono più di sette milioni e mezzo i post che riportano l’hashtag #glutenfree.

L’ossessione per il “senza glutine” non riguarda più solo il cibo, ma anche i cosmetici e i detergenti. Dove il glutine, però, è un assente ingiustificato. Per i celiaci, infatti, il glutine contenuto in cosmetici e detergenti non costituisce alcun rischio. Neanche per chi soffre di altre malattie autoimmuni associate alla celiachia, come la dermatite erpetiforme. Pertanto l’uso di diciture come “adatto ai celiaci” o “senza glutine” per promuovere un cosmetico, e più in generale prodotti non alimentari, non solo è inutile, ma può essere fonte di allarmismo e confusione, e può spingere un soggetto celiaco o che segue la dieta senza glutine a preferire un prodotto rispetto a un altro. Un’abitudine bollata come «pubblicità ingannevole e pratica commerciale scorretta» dall’Associazione Italiana Celiachia (AIC).

Ma quando e come una terapia per una specifica malattia è diventata una delle tante diete in voga, e soprattutto una delle più seguite?

Il grano e i cereali sono stati etichettati per la prima volta come «alimenti che fanno ingrassare» verso la metà degli anni Settanta dal medico francese Pierre Dukan, lo stesso che, dal 2000, si è fatto promotore di una dieta solo a base proteica per dimagrire velocemente, in seguito alla quale nel 2012 è stato radiato dall’ordine. Nel 2001, poi, un altro duro colpo ai cereali è stato inferto dallo scienziato americano Loren Cordain e dalla sua dieta paleolitica: un regime alimentare che prevede l’eliminazione di quegli alimenti, come il grano, che sono stati introdotti con l’avvento dell’agricoltura, circa diecimila anni fa. Responsabili a suo dire delle nostre intolleranze e allergie.

A portare, però, definitivamente il glutine sul banco degli imputati è stato il cardiologo statunitense William Davis, nel 2011. Nel suo Wheat Belly (La dieta zero grano, Mondadori), arrivato primo nella classifica dei best seller del New York Times, Davis accusa il glutine di una lista enorme di patologie: dall’autismo all’obesità, dal diabete al cancro, mescola le sue teorie all’ossessione per il cibo naturale e alle avversità contro gli ogm. Peccato che la letteratura scientifica non convalidi in alcun modo le sue teorie. Nonostante ciò è proprio dal 2011 che la dieta senza glutine diventa un fenomeno di moda: viene pubblicato il primo articolo scientifico sulla “sensibilità al glutine”[7], uno studio però mal riportato dai media, che ha finito per contribuire ad alimentare il fenomeno modaiolo insieme al libro di Davis. È dal 2011 che i confini della malattia celiaca per il grande pubblico diventano sempre più sfumati: intolleranza, sensibilità e allergia diventano quasi sinonimi per i media, e sempre più persone attribuiscono qualsiasi disturbo al glutine, eliminandolo dalla dieta.

 

Un’integrazione difficile

Trent’anni fa i celiaci appena diagnosticati incontravano numerosi problemi nella vita quotidiana. Innanzitutto gli alimenti dietoterapeutici realizzati appositamente senza glutine, come pasta e prodotti da forno, erano pochissimi, acquistabili solo in farmacia, per lo più insapori e per giunta dal prezzo elevatissimo. La loro dieta pertanto si componeva soprattutto di alimenti naturalmente privi di glutine, e dalla loro tavola sparivano per sempre pane, pasta e tutti i prodotti forno. Trent’anni fa era impossibile trovare un locale adeguato per mangiare fuori casa o bere una birra con gli amici. La celiachia non era, quindi, solo un problema alimentare, ma incideva drasticamente sulla vita sociale dei malati, costituendo anche e soprattutto un disagio psicologico. I celiaci spesso andavano incontro a forte demoralizzazione, abbattimento, e nei casi più gravi anche depressione. Questo perché la malattia condizionava, allora più di oggi, la qualità della vita, colpendo un aspetto importantissimo, che va ben oltre la necessità del mangiare.

Oggi la situazione è cambiata radicalmente. Innanzitutto l’epidemiologia della celiachia si è modificata negli ultimi 50 anni: fino agli anni Ottanta la celiachia è stata considerata una malattia rara, con un caso ogni 2.000-3.000 individui. Intorno agli anni Cinquanta, negli Stati Uniti la frequenza della celiachia era di due casi su mille[8], oggi sono otto su mille. È quadruplicata in cinquant’anni[9]. Un’incidenza che non è frutto dei migliorati esami diagnostici, ma rispecchia una crescita reale. È così che in Italia nel 2005 è stata promulgata la prima legge a tutela esclusivamente dei celiaci: la Legge del 4 luglio 2005, n. 123 “Norme per la protezione dei soggetti malati di celiachia”. È in questo testo che la celiachia viene definita per la prima volta una “malattia sociale”, ovvero una di quelle malattie ad alta incidenza, che condizionano sia la capacità produttiva lavorativa del singolo, che la vita della collettività. Grazie a questa legge, per la prima volta, ai celiaci vengono riconosciute alcune garanzie: il diritto all’erogazione gratuita di prodotti dietoterapeutici senza glutine attraverso dei buoni mensili erogati dallo Stato, un accesso sicuro ai servizi di ristorazione collettiva, e l’esenzione del pagamento del percorso diagnostico. Ma soprattutto con il Regolamento CE n.41/2009[10], entrato in vigore in Italia dal primo gennaio 2012, vengono stabiliti limiti precisi sulla composizione e l’etichettatura dei prodotti alimentari adatti alle persone intolleranti al glutine.

In pochi anni quindi il sistema legislativo italiano ha impresso una grande svolta nella vita dei celiaci, anche se restano alcune perplessità. Ad esempio i buoni erogati dallo Stato sono spendibili solo all’interno della regione di residenza, cosa che può rendere difficile un viaggio lavorativo di pochi giorni o anche una vacanza. Inoltre, a ben guardare le etichette, gli alimenti industriali adatti a una dieta celiaca per il Regolamento CE 41/2009 non sono sempre i più salutari: per sostituire il glutine, infatti, si utilizzano surrogati che possono aumentare l’indice glicemico del prodotto, come la farina di riso o di mais, o ancora più spesso gli amidi di questi due cereali, e il famigerato olio di palma. Alimenti che in generale sono più calorici, ma soprattutto hanno più grassi saturi, più sodio e più zucchero, e meno fibre. Proteggono quindi il celiaco dall’intolleranza, ma non da altre patologie largamente diffuse.

A parte queste difficoltà che ancora devono essere superate, oggi la vita dei celiaci è molto più semplice: la gamma di prodotti senza glutine è aumentata a dismisura, sono più facili da individuare e da scegliere poiché hanno i claim ben in vista, sono decisamente migliori sul fronte del gusto e delle proprietà organolettiche. E, cosa non da poco, oggi non si comprano più solo in farmacia, ma anche e soprattutto nei supermercati, dove si riesce a risparmiare un po’ sul costo, che nel frattempo è generalmente sceso e diventato più abbordabile[11]. Anche mangiare fuori casa è diventato decisamente più semplice, perché numerosissimi esercizi si sono adeguati al nuovo trend[12].

Dietro la spinta del fenomeno moda, la varietà, la qualità e la quantità di prodotti alimentari e di servizi dedicati ai celiaci è migliorata esponenzialmente, ma è anche vero che le garanzie faticosamente guadagnate dai celiaci con la legge 123/2005 e il regolamento CE n.41/2009 rischiano di essere erose.

Proprio a causa del clamore suscitato dalla nuova moda alimentare, è arrivato il primo segnale negativo per i celiaci: a giugno del 2013 il Parlamento Europeo ha approvato il Regolamento UE n. 609/2013, che prevede l’abrogazione del Regolamento CE 41/2009 dal 20 luglio 2016. Di fatto, quindi, a breve i celiaci non saranno più inclusi nei gruppi di consumatori particolarmente tutelati: scomparirà quindi dalle etichette la dicitura «prodotto dietetico» imposta dal Regolamento del 2009, a favore della dicitura generica «senza glutine». Sarà così rimossa la speciale protezione riservata ai celiaci garantita da una normativa stringente sui requisiti nutrizionali specifici e sui controlli relativi. Insomma, un passo indietro rispetto alla tutela fino a oggi riconosciuta dal nostro ordinamento. Inoltre, sempre per il Regolamento 609/2013, la celiachia passerà dall’elenco delle malattie rare (dov’è allo stato attuale) a quello delle patologie croniche, e i celiaci rischiano così di perdere anche l’esenzione per il sospetto diagnostico e per il percorso di diagnosi dei parenti. E tutto perché la loro unica terapia è diventata di moda.

 

Conclusioni

Le conseguenze di questa tendenza a demonizzare il glutine e delle derive comunicative connesse sono paradossali: la maggior parte di coloro che seguono una dieta gluten free non dovrebbero farlo, perché non sono celiaci, mentre chi ne avrebbe davvero bisogno spesso non segue un regime alimentare particolare, perché non gli è stata ancora diagnosticata la malattia.

In un periodo storico in cui cresce l’ossessione per il cibo, l’unica colpa dei celiaci è quella di avere una malattia con una terapia diventata trendy, in fondo innocua per i non malati: chi mangia cibi per celiaci pur non essendolo non rischia nulla di grave, al massimo vede sgonfiarsi il portafoglio e ingrassa un po’. Ma se da un lato i nuovi celiaci diagnosticati troveranno una gamma sempre più ampia di prodotti e di ricette tra cui scegliere, i marchi di prodotti alimentari con le nuove regole potrebbero finire col fare meno attenzione a evitare la contaminazione con il glutine, mettendo così a rischio chi celiaco lo è davvero. Inoltre, cosa che invece già si sta verificando, case farmaceutiche, cosmetiche o operanti in altri settori, potrebbero sfruttare la dicitura “gluten free” e far leva sull’ambiguità comunicativa solo per gonfiare i loro interessi, inducendo celiaci poco informati, spaventati, o anche maniaci del “senza glutine” a comprare i loro prodotti.

Questo a discapito di una corretta informazione, e soprattutto di una corretta comunicazione sulla celiachia, e a discapito dei celiaci che rischiano di vedere indebolite le garanzie faticosamente guadagnate per avere in cambio solo un po’ di “normalità” nella vita sociale prima così complicata al di fuori delle mura domestiche.

 

Note

[1] Dall’inglese “non-celiac gluten sensitivity”.

[2] Biesiekierski J.R., et al. – Gluten causes gastrointestinal symptoms in subjects without celiac disease: a double-blind randomized placebo-controlled trial in American Journal of Gastroenterology, 106, 2011, pp. 508–514.

[3] Di Sabatino A., et al. – Small amounts of gluten in subjects with suspected nonceliac gluten sensitivity: a randomized, double-blind, placebo-controlled, cross-over trial in Clinical Gastroenterology and Hepatology, 13, 2015, pp. 1604–1612.

[4] Rapporto Coop 2015 (www.rapportocoop.itwww.e-coop.it/consumiedistribuzione) elaborati da Ref ricerche su dati Nielsen.

[5] In Italia si stima vi siano circa 600.000 celiaci, di questi solo 164.000 sono stati diagnosticati. Ben il 73% dei celiaci, quindi, non sa ancora di esserlo.

[6] Nel 2014, Charlize Theron ospite al talk show Chelsea Lately, condotto dalla comica americana Chelsea Handler, ha dichiarato che tale dieta «è una stronzata», dopo aver assaggiato dei cupcake senza glutine che «sapevano di cartone» («I think the gluten free thing is bullshit. I’m sorry. That’s just me. It’s bullshit. I don’t believe in it and I think certain studies now prove that it is bullshit»).

[7] Biesiekierski J.R., et al.– Gluten causes gastrointestinal symptoms in subjects without celiac disease: a double-blind randomized placebo-controlled trial in American Journal of Gastroenterology, 106, 2011, pp. 508–514.

[8] Rubio–Tapia A., et al. – Increased Prevalence and Mortality in Undiagnosed Celiac Disease in Gastroenterology, 137, 2009, pp. 88–93.

[9] Catassi C., et al. – Natural history of celiac disease autoimmunity in a USA cohort followed since 1974 in Annals of Medicine, 42, 2010.

[10] Il Regolamento CE n.41/2009 stabilisce che tutti i prodotti commercializzati in Unione Europa con la dicitura “senza glutine-gluten free” devono garantire il limite dei 20ppm (parti per milione), l’unico sicuro per i celiaci. La presenza di glutine fino a 100ppm è ammessa invece per i prodotti a base di ingredienti depurati dal glutine, ma in tal caso la dicitura obbligatoria è “con contenuto di glutine molto basso”. Non sono ammessi, invece, prodotti dietetici per i celiaci che abbiamo un contenuto di glutine superiore ai 100ppm.

[11] Corposanto C. & Molinari B. – Farmacia o super? Parlano i numeri in Celiachia Notizie, 1, 2014, pp. 49-51.

[12] Molinari B. & Neuhold S. – Come mangiano i celiaci? in Celiachia Notizie, 1, 2015, pp. 48-51.