Miti antichi e moderni

Parlando di cibo e miti siamo costretti ad andare oltre il cartesianesimo. Il cibo al quale ci riferiamo usualmente è, infatti, l’alimento del nostro corpo, mentre dei miti si nutre la nostra mente. È dunque faticoso trattare con una certa originalità di cibo-del-corpo e di cibo-della-mente per noi ancora eredi troppo ravvicinati della modernità tanto a fondo segnata da questa dicotomia (e con infinite altre che qui non possiamo ricordare). Scorgiamo qui, forse, una motivazione sociocognitiva, oltre a quella immediatamente economico-mediatica, per questo proliferare del tema-cibo.

Il cibo stimola corde sensibili dell’opinione pubblica, e per portarle alla luce bisogna avviare una escavazione nell’immaginazione sociologica. È questo un concetto fondamentale nella sociologia, la cui più matura tematizzazione risale a Charles Wright Mills, ma che possiamo individuare come il fine stesso per il quale la sociologia è nata, e ciò proprio nel momento in cui più se ne aveva bisogno.

Quando pensiamo a un tema nel quale ci sentiamo coinvolti, come è il caso del cibo, che abbia dunque una cospicua rilevanza per noi, lo inseriamo in un frame con tre componenti: la vita quotidiana all’interno della biografia individuale, l’ambito delle interazioni sociali che intratteniamo, in maniera più o meno diretta e, infine, lo scenario più generale che ha a che fare con il mondo simbolico. Ed è su quest’ultimo che ora dobbiamo concentrarci. Siamo di fronte alle medesime tre dimensioni della rilevanza, in una sorta di modello frattale, che le riproduce anche all’interno di ogni componente evidenziata.

Nel mondo simbolico, esse diventano, così, il rapporto fra gli elementi costituenti della natura e la totalità del mondo naturale; il rapporto fra i singoli individui e la società (le configurazioni dei ruoli e il loro assetto complessivo); il significato da assegnare alla conoscenza che ciascuno può costruirsi su se stesso, la società, la natura. A questo proposito, possiamo allora riconoscere due Canoni speculari, ormai quasi egualmente diffusi e fra loro dicotomicamente opposti, alla luce dei quali assegniamo i significati, nel nostro caso del cibo. Ecco che, dunque, il cibo diviene una sonda per l’immaginazione sociologica contemporanea e, come vedremo, sarà urgente superare i suoi limiti per tornare a pensare un’innovazione davvero sostenibile.

 

Il canone antico: Gaia, Kronos, Athena

Il primo da considerare è il canone antico, articolato in tre miti che si succedettero storicamente per avere il primato simbolico, ma rimasero sempre compresenti, sopravvivendo persino all’avvento della modernità e giungendo così a noi persino rafforzati dagli esiti problematici e perturbanti della modernità, soprattutto nella seconda metà del XX secolo. La Natura, ovvero la nostra categoria elaborata per comprendere ciò che ci circonda e collocarcisi durante uno stadio storico del nostro cammino di specie, oggi risuona a ogni chiamata al “bio-mondo” di una umanità che, vivendo in una realtà artificializzata ormai ben al di là della nostra dotazione sensorio-antropologica, se ne sente troppo lontana e le si rivolge, perciò, con nostalgia bucolica.

Il primo mito da considerare è, non a caso, il mito di Gaia, la Grande Dea che personifica proprio la Natura, e più precisamente la terra in quanto figurazione della fertilità sia naturale sia femminile. Nel corso del tempo e attraverso la prima rivoluzione socio-economica della storia, quella dell’agricoltura, Gaia diviene la prima divinità trinitaria (giovane guerriera aggressiva e selvaggia, luminosa signora delle messi e del parto, misteriosa sovrana dell’oltretomba) in associazione con le tre fasi lunari principali (nascente, piena, nuova). Gli antichi, in effetti, emergevano da quella che possiamo immaginare come una fusione ancestrale con la natura, e venendo, per così dire, al mondo cosciente, elaborarono una cultura matrifocale ancora piena di Pathos, tanto naturalistico quanto sociologico, in cui il Bello è costituito da un’armonia bucolica in parte reale e in parte agognata, mitica e utopica. Esistono oggi echi di questa costellazione culturale attorno al cibo? In effetti possiamo sentir risuonare questa corda olistica nell’ipotesi Gaia di Lovelock (1979), nella New Age, nella deep ecology e nelle visioni del cibo collegabili (cibo biologico, vegetarianesimo, veganesimo ecc.). In queste, e in altre occorrenze di questo mito assistiamo a una sorta di fantasy in cui viene messo in scena il “dolce naufragar” delle “magnifiche sorti e progressive” dei moderni.

Il secondo mito che prendiamo in considerazione è quello di Kronos, dio del tempo e dell’ordine sociale, dispotico e caduco signore della felice Età dell’Oro. Sviluppato in un tempo successivo rispetto a Gaia, come portato della tradizione uranica degli indoeuropei installatisi (anche) attorno al Mediterraneo nel corso degli ultimi millenni prima della nostra Era, tratta di un dio patriarcale arcaico che simboleggia l’ordine temporale costante, quasi una contraddizione in termini fra il temporaneo e il duraturo, dunque un dio sotto minaccia. La così rappresentata concatenazione del decorso “naturale” degli eventi, sia nella Natura sia nella Società, entrambe piene di leggi che ne regolano il funzionamento, ora, a differenza di prima, deve essere sempre mantenuta altrimenti si dissolve. Questo ordine rigido quanto precario è personificato da un dio caduco dell’ordine temporale, cioè, della realtà sociale data, dei valori della tradizione ereditata: Kronos è, dunque, signore del Nomos, dell’Eden e della Cacciata per hybris. Il comportamento è ora orientato al Giusto, a stare al proprio posto, quello assegnato dal Nume a ciascun membro della comunità umana. Ma da ogni albero pende una tentazione, ogni mela cela un’insidia e un inesorabile pendio scivoloso si spalanca d’improvviso verso la perdizione eterna. È l’artificio retorico detto dello slippery slope spesso usato per il suo potere ansiogeno (si comincia con poco, ma poi si sa come va a finire…) contro l’innovazione in sé, più che come avvisaglia di nuovi rischi legati alle nuove tecnologie. Ogni ordine del mondo che sentiamo minacciato dall’innovazione è il risuonare della campana di Kronos che chiama a difesa della tradizione, della sicurezza rimpianta i cui rischi sono stati ingenuamente rimossi. Così, per esempio, contro il cibo contenente OGM si può sollevare il timore, tanto di una violazione di un ordine naturale, assunto come di per sé benefico e scevro da rischi (chimere), quanto di un cammino inevitabilmente pernicioso ( frankenfood).

Il terzo mito del canone antico, infine, è quello di Athena, personificante l’intelligenza e il sapere assoluto ottenuto da uno sguardo lanciato “da nessun luogo” (utopismo). Ecco, dunque, il Logos. La logica è ovviamente orientata al Vero, al regno del “Mondo delle Idee” più volte riscoperto dopo Platone. È questo il mondo dal quale proviene il sapere dell’esperto, la figura mitica di alieno che, più che da un altro pianeta, scende da un non-luogo utopistico e anacronistico, sia nelle vesti tecnocratiche che propugnano un freddo progresso-per-il-progresso, sia in quelle sciamaniche capaci di risvegliare un afflato naturalistico pre-moderno.

A fronte di questo canone, composto dal Bello-Pathos, dal Giusto-Nomos e dal Vero-Logos, i moderni elaborarono altrettanti miti speculari, a partire da materiale già presente nel retroscena della cultura fino ad allora dominante. Se la modernità nasce con la scoperta di nuovi, insospettati e mirabolanti mondi, astronomici e geografici, etnici e sociali, simbolici e intellettuali, bisogna porre rimedio all’incapacità di comprensione del vecchio canone. Se il vecchio mondo va in frantumi, restano solo i tasselli elementari del mondo naturale, i suoi atomi. La Natura, dunque, cede progressivamente il campo agli elementi finiti, alle differenze finite di una minuziosa analisi infinitesimale.

 

Il canone moderno: riduzionismo, narcisismo, relativismo

Quel che per altri è complessità, dunque, per questa via si riduce a un agglomerato di piccole parti infinitesime e indistinguibili all’interno della medesima “famiglia” (principio di indistinguibilità delle particelle identiche) anche fuori della fisica. Se questo riduzionismo ha comportato (ma forse era proprio questa la motivazione profonda) le grandi conquiste della scienza moderna e, nel campo sociale, l’eguaglianza formale di tutti gli individui, i diritti universali, l’astrattezza della norma giuridica, ha comportato anche l’approccio contabile al mondo, compreso il mondo umano. L’universale intercambiabilità degli identici (atomo, bit, neurone, gene, Homo oeconomicus) è infatti alla base della contabilità riduzionistica, ma per dirla con Albert Einstein, “non tutto ciò che può essere contato necessariamente conta, non tutto ciò che conta può necessariamente essere contato”. E se la totalità non è nient’altro che una somma delle sue parti, allora chi contrasta tale riduzione universale viene sospinto al polo opposto di una totalità che è tutt’altro che somma di parti. Come se l’una potesse fare a meno delle altre, come se ciascuna categoria (tutto, parte) non fosse altro che il frutto di una nostra lettura del mondo, una lettura essa stessa inevitabilmente collocata al suo interno. Come se il nostro separare (e contrapporre) il tutto e le sue parti non potesse essere una ricostruzione puramente (il)logica di un certo autore storico, ma dovesse essere un progetto costruttivo ontologico di un Autore metafisico. Ecco, dunque, a Gaia essere stato contrapposto il riduzionismo, con tutte le sue potenzialità, e con tutti i suoi limiti, fino al revival, l’ennesimo, della colonizzazione delle scienze sociali. Il cibo viene scomposto in sostanze nutraceutiche, componenti elementari di una dieta pensata per quell’homme machine di Lamettrie che è l’umanoide concepito dal riduzionista.

Un secondo mito, che nella modernità assurge a valore giuridico-normativo e regolatore della vita sociale, si definisce quando si considera la riduzione dell’ordine sociale all’atomo individuale. Contro l’ordine costituito della società tradizionale i moderni hanno infatti raccolto e posto sotto i riflettori della vita pubblica il mito di Narciso, ovvero la sindrome patologica dell’inseguimento di un inarrivabile modello di sé, nella ricerca vana del quale l’individuo immola la sua vita. Altro che essere innamorati di sé, in realtà il mito sottintende ben altro. Tutto viene funzionalizzato, la normalità si riempie di patologie da curarsi attraverso una ricercata medicalizzazione ossessiva. Il corpo stesso diviene il marmo da modellare, istoriare, artificializzare e ogni sostanza che lo ipertrofizzi esalta un Io caduco. La contrapposizione fra Kronos e il narcisismo non è, infatti, la mera contrapposizione fra ordine sociale e prestazione individuale, ma svela tutta la solitudine tragica dei moderni. È il tempo l’ultima vittima del narcisismo, ovvero la chiusura dell’individuo nel suo mondo, un mondo, per altro, sempre più concentrato sul modello di sé, rinchiuso nella vanità della propria ricerca. Siamo a Homo clausus, l’individuo non più comunicante con altri, che nello scambio comunicativo cerca di non cambiare, si circonda di conferme di sé, della propria vana epopea.

Cerca conferme e stabilità, scambia ma non è disposto a cambiare: dunque, non c’è dialogo, niente comunicazione, ma mero soliloquio. La sfera pubblica collassa nel particulare di un sé vuoto. Il pilota è solo, solo in una prigione dalle pareti invisibili, con il proprio corpo divenuto un estraneo da dominare, controllare, modificare, scrivere come una pagina bianca in cerca di autore. Quasi un cavaliere inesistente calviniano. E infatti, è proprio l’autore a essersi perso nella folla di occhi nei quali Narciso cerca disperatamente la propria immagina riflessa. La vana e ineluttabile corsa picaresca è un edonismo senza oggetto a cui più tendere, una tensione che tiene in vita il soggetto da sola, finché dura. E così l’intera vita viene dilapidata in una fretta senza più tempo. Ecco, dunque, il bisogno di rassicurazioni continue, controlli passo passo delle proprie (prima che altrui) prestazioni, l’intollerabilità dei propri non meno degli altrui fallimenti e l’ansia da prestazione (achieve or perish). E così è per l’innovazione. Ineluttabile e fine a se stessa, animata da animal spirits che non si possono e non si debbono controllare. La direzione del progresso è fatalmente determinata, la performance diviene un must, l’azione fa aggio sulla mediazione, la cognizione sulla riflessione. Il fine si perde in una corsa senza fine. Stare al passo coi tempi vuol dire vivere il presente, che in un attimo è già perduto. Dunque, ogni attimo va carpito, dilatato, riempito affinché possa reggere il peso della realizzazione di una vita intera, senza più futuro. Ogni dilazione (dei risultati, del piacere, del dato immediato) è un intellettualismo che fa perdere tempo prezioso, sempre più prezioso perché ci sono sempre più conferme da trovare. La schisi fra sé e gli altri, fra il Sé e il proprio corpo, l’istante e l’arco della propria vita, lascia dunque Narciso da solo chiuso in un istante senza tempo a ruzzolare nel suo destino come un ciottolo senza valore scalciato ai margini della strada della vita pubblica (rolling stone). Nella frenesia di allestire la propria cella dorata, svanisce la capacità di progettare il proprio futuro proprio mentre si perde il senso della storia passata: tutto è concentrato in un presente puntiforme, che immediatamente svanisce. Chi si ferma è perduto, soprattutto se per tornare a riflettere. L’innovazione, insomma, non può che essere una vuota parola riempita di simulacri, palliativi di una felicità perduta. Il cibo nuovo viene cercato in quanto nuovo, mentre non lo si sa più apprezzare in quanto cibo.

Se il riduzionismo è il metodo analitico di Homo clausus, il narcisismo il suo standard di vita, la sua epistemologia non può che essere il relativismo. Sin dai tempi di Montaigne, Montesquieu, Pascal, Swift le scoperte (geografiche, storiche, astronomiche, tecnologiche, antropologiche ecc.) divengono rivoluzioni che si rafforzano a vicenda. L’impossibilità di uno sguardo unico e onnicomprensivo sul mondo umano come su quello naturale fa contrapporre al mito di Athena non ancora una teoria scientifica della relatività della conoscenza, ma piuttosto un soggettivismo volto ad affermare l’atto stesso del rappresentare la realtà, le logiche imperscrutabili del soggetto, le scelte, le negoziazioni, le azioni. E, insomma, una soggettività assoluta, unica e ineffabile, potenziale contraltare dell’ormai impossibile oggettività assoluta. Il canone della realtà diviene la finzione, non è più “vero” quel che “è vero”, ma “è vero” quel che appare secondo i canoni che si impongono. È nuovo ciò che va di moda, nient’altro che il modo (che diventa) corrente, d’altronde è questa l’etimologia di “moderno”, delle cui ragioni e origini si rimane all’oscuro. C’è posto per tutti sul palcoscenico del protagonismo, master chef per una notte, un’ora, un attimo, purché non si discuta the master. Basta esprimersi con freschezza intrigante e spontanea ricercatezza, mettere in mostra ciò che ci nasconde, con esotismi manierati, ed effimeri, incrollabili inautenticità, e il biglietto per l’autorealizzazione è lì, a portata di tutti, dietro solo un vetro infrangibile e deformante. Il cibo perde la sua identità e diviene tutto ciò che “fa brodo” a questa bulimia di vacuità. Saltano i limiti, e si esaltano le trasgressioni paradossali. Può darsi che qualcosa sia destinato a rimanere in questo cataclisma culturale, ma sarà imprevisto e forse non voluto.

 

Conclusione

In conclusione, il cibo è una sonda d’elezione per scandagliare le profondità dell’immaginazione sociologica contemporanea. L’abbiamo usato per mettere in luce sia delle corde sensibili dell’opinione pubblica, sia per mostrare che sta inibendo la nostra capacità di pensare un’innovazione che sia davvero tale e, contemporaneamente, sostenibile, e forse persino di apprezzare le infinite sfumature e le profonde radici che fanno del cibo uno dei ponti più antichi e più elaborati che abbiamo istituito per collegare il corpo e la mente e per nutrirli reciprocamente. Porre le basi di un pensiero al di là di queste dicotomie è la sfida di questo secolo, ancora nuovo.

 

Bibliografia

Cerroni A., Il futuro oggi: immaginazione sociologia e innovazione. Una mappa fra miti antichi e moderni, Franco Angeli, Milano, 2012.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo