Geografia mitologica delle piccole isole

L’intervento di Rossana Valenti sulla mitologia, la letteratura e le piccole isole al Convegno “Natura e cultura delle piccole isole” dell’edizione 2016 della Scuola Scienza & Società

 

Vi parlerò di isole che non ci sono: non sono sulle mappe, sulle carte, su Google map, nessun naufrago (vedremo che il rapporto tra naufragi e isole è costante), nessun esploratore vi ha fatto approdo.

E tuttavia queste isole esistono. Esistono nella letteratura, nell’arte, nella filosofia.

Il quesito che ci poniamo è: ha senso scrivere, e quindi parlare, di cose inesistenti? Non solo idee, valori, concetti, teorie, ma anche luoghi?

Questa è la domanda che ho pensato di proporre alla vostra attenzione e soprattutto alla vostra discussione: “Il mito e la letteratura non rappresentano il reale, ma sono una risposta al reale; non descrivono né misurano il mondo, ma delineano scenari diversi, spesso decisamente irreali. Alla luce di questo dato, si deve pensare che la letteratura e l’arte siano solo un gioco della fantasia, un piacere estetico, o possiamo dire che esse hanno una funzione cognitiva, ci aiutano a capire e conoscere noi stessi e il mondo?”.

A questa domanda io do, ovviamente, una risposta affermativa, e la mia relazione intende darne le ragioni.

La prima isola di cui vi voglio parlare è quella dei Feaci, che è descritta da Omero.

Tutto comincia da Omero: l’Iliade e l’Odissea (fissati nella forma scritta intorno all’VIII secolo a. C.) non sono solo i due poemi da cui ha inizio la nostra tradizione occidentale, sono anche due gesti primari: il conflitto e il ritorno a casa. L’Odissea ci racconta un ritorno a casa, a Itaca: dopo dieci anni della guerra di Troia, Odisseo affronta il ritorno, violentemente osteggiato da Poseidone (che si era schierato dalla parte dei Troiani). Il dio del mare scatena tre volte la tempesta causando tre naufragi, che l’eroe subisce, esperendone di volta in volta aspetti diversi, ma che tutti concorrono a definire, direi a stabilire, la condizione di naufrago: la solitudine, la perdita della autonomia (in Ogigia, per sette anni Odisseo è trattenuto contro la sua volontà da Calipso), la nudità, cioè la riduzione della persona a un corpo, pura condizione umana, quando finalmente giunge nell’isola dei Feaci.

Chi sono i Feaci? Un popolo straordinario, che abita una isola ricca di ogni bene, di frutti spontaneamente offerti dalla natura; ma soprattutto quella dei Feaci è una comunità giusta, aperta all’accoglienza e all’ospitalità (cfr. VIII, vv. 32 s.: “Nessuno davvero che alla mia casa arrivi, resta qui a lungo a gemere, chiedendo aiuto” annuncia Alcinoo, mettendo a disposizione dell’ospite una nave che l’indomani lo accompagnerà finalmente a casa, a Itaca). Le navi dei Feaci sono anch’esse particolari: solcano il mare senza timoni, senza nocchieri, navi che seguono l’intenzione degli uomini che le comandano, portando a destinazione il loro carico, nel silenzio, avvolte di nubi e di nebbia. Questi Feaci dispongono dunque di una natura spontanea e generosa, di una comunità eticamente fondata sulla giustizia e l’ospitalità, e di una tecnologia docile che sa interpretare il volere degli uomini e vi obbedisce. Ma cosa accade a questa comunità, proprio per avere risposto generosamente alla richiesta di aiuto del naufrago? Pochi lo ricordano, perché siamo presi dal racconto di quanto avviene a Itaca, ma la nave dei Feaci, tornata indietro, quando sta per approdare alla città, viene per vendetta trasformata da Poseidone in pietra, e tutta l’isola è coperta da un gran monte. Viene così sconfitta l’utopia dei Feaci, il sogno di armonica civiltà che essi rappresentano. Qui peraltro si pone una delle formidabili omissioni di Omero, che costringe i suoi lettori a immaginare diversi scenari: il poeta non ci dice cosa fa Zeus a questo punto, se cioè accetta l’atto di Poseidone, sacrificando un popolo giusto alla vendetta del dio del mare, oppure se ascolterà le suppliche dei Feaci, ritrovando il suo ruolo di dio della giustizia. Omero lascia le cose in sospeso, e davvero qualcosa di sospeso, di inquietante ci costringe a chiederci se il dio che regge questo mondo è un dio di vendetta o di giustizia.

Dopo l’isola dei Feaci di Omero, che concilia aspetti ‘fiabeschi’ con riflessioni ‘filosofiche’, la presenza delle isole nei racconti degli antichi presenterà due diverse cifre narrative: troviamo così, ad es., le isole dei Beati, di cui ci parla Esiodo (VII sec. a. C.), dove i giusti vivono senza affanni ricevendo dalla natura tutto quanto c’è di più desiderabile, incluso un clima che non conosce l’alternarsi delle stagioni; lungo questa linea narrativa si collocano le isole ballerine o saliarie di cui parla Plinio nella Naturalis Historia (II, 96), che si troverebbero nel Lazio e che al suono di una musica si muoverebbero secondo le battute dei piedi che segnano il tempo. L’informazione di Plinio è in linea con il modello antropomorfo secondo il quale l’autore spiega le caratteristiche fisiche di luoghi ed eventi: nel suo lavoro di ricerca sulla natura (questo è il significato del titolo dell’opera, dove historia sta per “indagine”, secondo la semantica greca della parola), il compito in quanto scienziato non è quello di definire ciò che è generale e costante, ma piuttosto ciò che è unico, imprevisto e suscita la meraviglia del lettore.  Emerge così come tratto costitutivo di un intero gruppo di isole descritto da Plinio la circostanza che esse sono svincolate dalle leggi della terraferma: ed è su questo aspetto che si gioca la caratteristica più importante che ci offre la riflessione sulle isole, a partire dalla etimologia della parola insula, che deriverebbe da in + sal, dentro il mare.

La separazione dalla terraferma è il dato che antropologicamente determina il destino dell’isola lungo la linea di riflessione che possiamo definire ‘filosofica’: Platone (427-348 a. C.), nel Crizia, uno degli ultimi dialoghi, dedicati alla filosofia politica, narra il mito di Atlantide (114 d 118), l’isola dominio di Poseidone, abitata dai figli generati da lui e da una donna mortale. L’isola è un regno delle meraviglie, di tale ricchezza che non ha paragoni, e ospita una comunità che si regge su una perfetta organizzazione, all’insegna della più aurea giustizia. Ma gli abitanti dell’isola dimenticano la loro origine divina, diventano preda di ambizioni, lotte fratricide, corruzione e l’isola viene fatta scomparire tra i flutti da Zeus, irato per il comportamento umano.

Platone, pur assegnando ai miti un contenuto di verità problematico e incerto,  li usa affidando loro – dal mito dell’androgino a quello della caverna, dal mito di Er a quello di Eros – uno spazio all’interno del quale la filosofia viene praticata come narrazione, piuttosto che come astratta enunciazione. Qual è dunque il contenuto di verità che Platone assegna al mito di Atlantide? La comunità crea sull’isola una perfetta realizzazione politica, ma viene distrutta, anzi essa stessa si condanna alla distruzione a causa del suo comportamento avido, dimentico del Bene. Rimane però negli uomini come un ricordo, una tensione ideale verso la costruzione di questo mondo di bellezza e di giustizia. Nel situare il paese ideale, la città ideale, oltre il mare, in mezzo al mare, su un’isola, c’è il declinarsi di un paradigma che esprime la consapevolezza della necessità di staccare l’utopia – l’isola – dall’attualità della storia. Il mare rappresenta infatti quella condizione del tempo che è l’eterno.

Utopia” (“non-luogo”) è un termine rinascimentale coniato da Thomas More nella sua opera, pubblicata nel 1516, in cui viene descritta l’isola di Utopia nella quale la proprietà privata è vietata per legge e la terra deve invece essere coltivata, a turni di due anni, da ciascun cittadino, nessuno escluso: tutti hanno un lavoro, di 6 ore al giorno; nel tempo libero, tutti i cittadini possono altresì dedicarsi alle proprie passioni e professioni abituali, ma un posto fondamentale è occupato dallo studio delle scienze e della filosofia.  Il re fondatore di questa isola si chiama Outopos  e fonda la sua comunità, tagliando l’istmo che collegava l’isola alla terraferma, di nome Abraxa, che significa “arida, non bagnata, priva di amore e di carità”. L’isola deve quindi deve staccarsi dalla terra senza amore, e divenire un non-luogo, un luogo possibile solo nell’immaginazione: ogni utopia si fonda su una negazione e pone il proprio fondamento in un’assenza. Proprio grazie a questa separazione, a quel taglio che consegna utopia al mare dell’eterno, all’oceano dell’eterno e dell’infinito, Utopia riesce a negare la propria continuità con la storia  e  definire la propria assoluta specificità, la sua condizione di libertà rispetto al mondo mutevole della storia umana.

Questa dinamica di negazione, di assenza si esprime anche in un filone di racconti sulle piccole isole caratterizzati dal tema della satira, del radicale rovesciamento rispetto a principi e comportamenti dominanti sulla terraferma, nell’abituale consesso umano.

Ce ne offre un esempio gustoso Rabelais, il cui Pantagruel, pubblicato nel 1532, racconta di isole fantastiche, prendendo in giro filosofi e scienziati, chiamati “astrattori”, per la loro tenace tendenza all’astrazione. Sull’isola della scienza gli astrattori fanno le cose più pazze: alcuni sbiancano etiopi, altri spremono acqua dalle pietre, mungono montoni, fanno esperimenti di varia natura su escrementi animali e umani, tentando di farli tornare cibo, in un rovesciamento ironico e giocoso della attenzione  che l’epoca cominciava a tributare alla scienza.

Non è un caso che Francis Bacon intitoli New Atlantis, richiamando il mito marino platonico,  l’opera pubblicata nel 1627, nella quale immagina di approdare a Bensalem (tale è il nome della città sull’isola ideale) in seguito a un naufragio. Egli e i suoi compagni di viaggio entrano in contatto con una cultura più avanzata, una civiltà che conosce tutte le altre, ma dalle quali non è conosciuta e che ha sempre saputo (e intende continuare a farlo) rimanere pura, non traviarsi, come invece è capitato a tutte le altre. Gli scienziati sono dotati di un sapere pratico capace di trasformare la realtà assicurando una vita migliore agli uomini.  Mentre la Utopia di Tommaso Moro si ispirava a motivi morali e sociali, il tema centrale de La nuova Atlantide è da cercarsi nel potere che deriva all’uomo dalla conoscenza scientifica, potere che deve peraltro essere messo al servizio della intera comunità umana. Rabelais e Bacone descrivono, in diversa chiave, la stessa cosa, l’Universitas scientiarum.

Il Rinascimento, con le sue scoperte geografiche, con le nuove  esplorazioni, dà forte impulso al tema dell’utopia: mi limito a citare La Tempesta (1610) di Shakespeare, l’ultima opera del grande drammaturgo, un vero e proprio testamento, una composizione straordinaria di parabole, immagini, forme, parole, ambientate in un’isola immaginaria, incantata, che è chiaramente ombra del Nuovo Mondo. Il dramma presenta una molteplicità di discorsi che è impossibile riassumere: il potere, l’utopia, il colonialismo, i rapporti familiari, l’eros, la Natura e la cultura, la follia e la ragione, la coscienza e la conoscenza, il linguaggio, la magia e la stregoneria, l’Arte. Impossibile isolare uno di questi temi dagli altri: il discorso sull’utopia lo fa Gonzalo, affermando che l’isola sulla quale il naufragio li ha gettati è verde, lussureggiante e talmente bella che se egli avesse qui una sua piantagione (cioè, nella terminologia dell’epoca, il diritto di colonizzare), organizzerebbe lo stato in maniera esattamente opposta all’uso prevalente nella realtà europea. Non vi sarebbero commercio, magistrati, lettere, ricchezza, povertà, servitù, contratti, successioni, conflitti e confini: sarebbe la Natura a produrre quanto è necessario, senza fatica  e sudore.  Il sogno di Gonzalo non ha alcun effetto, ma non possiamo fare a meno di ricordare le parole con le quali Prospero, il re dell’isola, contempla il dissolversi  dell’isola magica:

“Il nostro spettacolo è finito.
Questi nostri attori
erano tutti spiriti
e si sono dissolti nell’aria,
nell’aria sottile”.

Qui Shakespeare dichiara l’inesistenza dell’isola creata dalla sua arte, che si dissolve nell’aria insieme ai personaggi che l’hanno abitata. Ma immediatamenete lo sguardo del poeta si allarga a tutto il mondo, alla Terra intera, per vedere anch’essa – forse – come una proiezione fantastica della sua e della nostra mente. Si tratta di una visione che mi sembra sia talvolta adombrata da alcune recenti teorie della fisica: e se tutto ciò che ci circonda fosse solo un sogno che la nostra mente fa, creando un mondo dall’apparenza materiale e concreta?

“E come l’edificio senza fondamenta
di questa visione,
le torri ricoperte dalle nubi,
i palazzi sontuosi,
i templi solenni,
questo stesso vasto globo, sì,
e quello che contiene,
tutto si dissolverà.
Come la scena priva di sostanza
ora svanita
tutto svanirà,
senza lasciare traccia.
Noi siamo della materia
di cui sono fatti i sogni
e la nostra piccola vita
è circondata da un sonno.”

Il Settecento è il secolo in cui l’utopia negativa o la parodia dell’utopia prende piede: l’esempio caratteristico è quello fornito dalle isole toccate dai vari naufragi, che sono i naufragi della ragione, nel mare dell’irrazionale. Nei Viaggi di Gulliver (1726) di Swift, ogni sequenza narrativa è scandita da un viaggio per mare, e ogni volta questo si conclude con un naufragio o un abbandono su un’isola. Il naufragio, la perdita di connessione, o della possibilità di connessione è funzionale, come abbiamo visto, alla fondazione dell’utopia. In Swift il discorso, come in Rabelais, si muove sul filo del sarcasmo e dell’ironia, come quando descrive la grande Accademia di Lagado (III 5), nell’isola di Laputa i cui saggi si dedicano, tra l’altro, a un progetto per abolire completamente le parole: «Si proponeva dunque questo espediente per cui, se le parole altro non sono che nomi per le cose, sarebbe stato molto più conveniente che gli uomini si fossero portati appresso le cose di cui intendevano parlare per qualsiasi faccenda […]. Molti tra i più dotti e saggi hanno adottato il nuovo sistema di esprimersi attraverso le cose, il cui solo inconveniente è che, se si debbono trattare affari complessi e di genere diverso, si è costretti a portare sulla schiena un gran carico di oggetti, a meno che non si possa disporre di due gagliardi servitori […]. Mi è capitato spesso di vedere un paio di questi sapienti sopraffatti da enormi fagotti, simili in tutto ai nostri venditori ambulanti, i quali incontrandosi depongono il loro fardello, aprono i sacchi e intrattengono conversazioni di un’ora; poi rinfilano dentro i loro strumenti, si aiutano a vicenda a ricaricarsi sulle spalle i fardelli e si salutano […]».

 Questo straordinario scrittore, divenuto suo malgrado un autore caro alla letteratura per l’infanzia (a dispetto della sua avversione verso i bambini e il loro mondo), sottopone più volte alla sua analisi satirica il tema della lingua, che non a caso è uno dei temi dominanti nella riflessione scientifica di quegli anni, in cui scompariva il latino come lingua della comunicazione colta, e si dibatteva sulla ricerca della lingua perfetta, in grado di esprimere senza ambiguità il complesso, difficile rapporto tra parole e cose.

Contemporaneo dei Viaggi di Gulliver è il romanzo di Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe (1719): un altro naufragio, ma questa volta l’isola viene rappresentata non più come un giardino paradisiaco, ma, al contrario, come un luogo deserto, di cui il naufrago inglese diviene il monarca grazie alla sua superiore intelligenza, applicando la tecnologia e le convenzioni della propria cultura. In questo modo, Defoe creò il modello primo del colonialismo perpetuato poi per secoli in giro per il mondo da generazioni di inglesi e di europei, portatori di una civiltà più ‘evoluta’ rispetto a quella locale.

Le utopie del Novecento, un secolo tentato dalle utopie, si aprono con l’isola che non c’è di Peter Pan (1902), esempio lampante di non-luogo, che si fonda sulla negazione dello scorrere del tempo, non in senso storico, ma esistenziale, perché Peter Pan non vuole diventare adulto, la cui condizione è rappresentata invece dal Capitan Uncino, suo irriducibile antagonista.

Altra isola che la nostra navigazione deve almeno sfiorare è Island di Aldous Huxley (1962), un’opera partecipe di una doppia natura, romanzo e saggio, che rovescia l’ideologia colonialista. Un naufragio porta un giornalista sull’isola di Pala, luogo sconosciuto e mai precedentemente descritto. Qui vive una popolazione dal carattere gentile e sereno che è riuscita a coniugare l’arte con la scienza, ‘testimoniando’ uno stile di vita che si pone come alternativo a quello occidentale, destinato, secondo l’autore, al fallimento e alla rovina totale.

Giunti alla fine del nostro viaggio, viene spontaneo chiedersi se l’isola esercita ancora un ruolo nel nostro immaginario: ho pensato a L’Isola dei famosi, quello strano intreccio tra ‘vero’ e ‘falso’ determinato dalla condizione dei protagonisti, costretti come naufraghi a procacciarsi il cibo, ma nel contempo con l’onnipresente ripresa televisiva  che ne falsifica la condizione.

Come vedete, questo rapporto tra isole, miti e verità è ancora problematico e vitale nel nostro presente.