L’ascesa dei robot

Un futuro senza lavoro, di “piena disoccupazione”. Con una sterminata massa di poveri senza reddito e con pochi straricchi chiusi, anzi assediati, nei loro castelli. Un futuro generato da una “disruptive technology”, da una tecnologia intrinsecamente distruttiva: i robot.

Sulle pagine della Rivista del Centro Studi della Città della Scienza Nicola Costantino e Sergio Ferrari hanno analizzato con grande acume critico la possibilità, offerta dalle nuove tecnologie, di una “beatitudine economica”.
Martin Ford, un imprenditore della Silicon Valley, propone invece un quadro a tinte fosche in un libro pubblicato di recente con l’editore Basic Books e che sta facendo molto discutere negli Stati Uniti: Rise of the Robots, l’ascesa dei robot.

La tesi, da incubo, di Martin Ford è molto articolata e ben documentata. Proviamo a riassumerla per punti e poi a cercare una via d’uscita, perché ne va, appunto, del nostro futuro.
Primo. I robot non stanno arrivando. Magari non li vediamo, ma i robot sono già tra noi. Tra il 2000 e il 2012 l’industria dei robot è cresciuta del 60% e ha raggiunto un fatturato di 28 miliardi di dollari. E questa crescita sta accelerando. In Cina, per esempio, la presenza dei robot nelle industrie dal 2005 sta crescendo al ritmo del 25% l’anno. Quelli che entrano in fabbrica oggi non sono i vecchi robot con scarsa flessibilità e una sola specializzazione, come quelli utilizzati negli anni ‘90 del secolo scorso nel reparto verniciatura dalla Fiat a Melfi. Nella nuova fabbrica che la Tesla ha realizzato a Fremont, in California, una squadra di 160 robot flessibili è in grado di prendersi in carico le varie componenti che arrivano al reparto montaggio e di assemblarle con rapidità e precisione, realizzando 400 nuove auto elettriche ogni settimana. Il tutto senza aiuto dell’uomo, o quasi.

Secondo. Proprio l’esempio di Fremont ci dice che siamo all’inizio di una rivoluzione. Di un nuovo ciclo tecnologico che sembra interrompere quella stagnazione dell’innovazione che alcuni sostengono sia un carattere dei nostri tempi. In fondo, dicono molti e ripete Martin Ford, in tutti i comparti l’innovazione tecnologica è incrementale. Dagli aerei alle nostre private automobili, l’intero settore dei trasporti si basa su tecnologie antiche modificate nel tempo. L’unico settore veramente nuovo è stato quello dell’ICT (delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Ma anche questo settore sta diventando maturo. I robot hanno tutte le caratteristiche per produrre un nuovo ciclo di innovazione.

Terzo. Questo nuovo ciclo rischia di essere l’ultimo. Perché aumenta la produttività distruggendo posti di lavoro e non ne crea di nuovi. Non a sufficienza, almeno. Certo, ogni nuovo ciclo di innovazione genera un aumento di produttività e ha una carica distruttiva. Non fecero forse questo le macchine tessili contro cui si scagliò, alla fine del ‘700, il leggendario Ned Ludd? E non hanno forse fatto questo le tecnologie meccaniche e chimiche che hanno consentito, a metà del secolo scorso, un’enorme aumento di produttività in agricoltura, togliendo però il lavoro a decine di milioni di contadini. Che però lo hanno ritrovato nelle industrie e nei servizi, magari spostandosi in città.

 

Oggi sta avvenendo qualcosa di simile. L’industria tessile americana ha perso 1,2 milioni di addetti, il 75% del totale, tra il 1990 e il 2012. Non a causa di un’innovazione tecnologica, ma a causa della concorrenza di paesi come il Messico o la Cina con un basso costo del lavoro. Tuttavia, tra il 2009 e il 2012, l’industria tessile americana si è ripresa, tanto che l’export è aumentato del 37% e ora vale 23 miliardi di dollari. Il tutto senza recuperare un solo posto di lavoro. Grazie ai robot. Non è l’andamento di un settore. È un processo generale. Nel 1998 per produrre tutti i beni e i servizi i lavoratori degli Stati Uniti hanno lavorato 194 miliardi di ore. Nel 2013 gli americani hanno prodotto una quantità di beni e servizi di circa 3.500 miliardi di dollari superiore a quella del 1998, al netto dell’inflazione. L’aumento delle produzione è stata del 42%. Ebbene, gli americani non hanno lavorato neppure un’ora in più per ottenere questa performance.

Sono rimasti fermi ai 194 miliardi di ore. L’aumento di produzione è stato un aumento di produttività. Ma intanto la popolazione USA è cresciuta di 40 milioni di unità. Dunque il lavoro, in termini relativi, è diminuito. Non tutto è dovuto ai robot, ma molto è dovuto alla automatizzazione del lavoro.

Non è un fenomeno che riguarda solo i paesi più avanzati. Grazie all’automazione, la Cina ha perduto 16 milioni di posti di lavoro (il 15% del totale) nelle sue fabbriche pur aumentando, in maniera notevole, la produzione e, dunque, la produttività.

In futuro andrà peggio. Harvest Automation, un robot messo a punto da una start up di Boston, è in grado di svolgere il 40% del lavoro manuale oggi ancora in carico ai contadini nell’agricoltura più tecnologica e più produttiva del mondo, negli Usa e in Europa. È probabile che nei prossimi anni Harvest Automation e i suoi fratelli sottrarranno lavoro al 40% delle poche persone che lavorano oggi nei campi. L’automazione non sta avanzando solo nelle fabbriche o nei campi. Ma è ormai presente dappertutto. Già sono routine, anche in Italia, treni e funivie senza guida umana. Già circolano auto senza pilota. E che dire dei droni, che già svolazzano nei nostri cieli e vanno anche in battaglia? A San Francisco, ricorda Martin Ford, la Momentum Machines ha messo a punto un robot capace di produrre 360 hamburger di qualità all’ora. Se avrà successo, milioni di persone perderanno il loro lavoro nei fast food di tutto il mondo. È già possibile costruirne uno – simile ai chioschi che troviamo alla stazione o in ufficio – completamente automatizzato, senza cuochi, camerieri e cassieri, che offre cibo fresco e buono. Da gourmet, assicurano a San Francisco.

 

Quarto. I robot – e questa è la più grande e forse più significativa novità del nuovo ciclo di innovazione – non tolgono e non toglieranno occupazione (e reddito) solo ai lavoratori meno qualificati. Ma anche ai lavori più qualificati. Sta già accadendo. I robot stanno penetrando nelle sale chirurgiche e promettono di togliere lavoro a molti altri medici specializzati: per esempio, saranno presto in grado di leggere una radiografia meglio di un radiologo. All’automatizzazione del settore sanitario, Ford dedica un intero capitolo del suo libro.

Un robot divenuto ormai famoso è in grado di scrivere piccoli (e non elettrizzanti) articoli sportivi. Ma, secondo la rivista Wired, nel giro di una ventina di anni il 90% degli articoli di ogni genere sarà scritto da un sistema automatico. I robot rivoluzioneranno anche il settore della formazione: i MOOC (Massive Open Online Courses), i corsi aperti in rete su larga scala, sostiene Ford, rischiano di mandare a casa milioni di insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado.
Morale, come affermano in un loro studio Carl B. Frey e Michael A. Osborne, il 50% dei lavori oggi svolti negli Stati Uniti rischiano di scomparire nei prossimi 20 anni.

Quinto. I robot non sono un’innovazione tecnologica come le altre. Portatrici, come teorizzava Joseph Schumpeter, di “distruzione creatrice”: distruggere un lavoro qui per crearne uno o due, migliori, lì. I robot sono la “tecnologia finale”. Per il semplice fatto che sono tendenzialmente una tecnologia (un insieme di tecnologie) che cercano di svolgere ogni e qualsiasi lavoro umano, con costi decisamente inferiori. Ecco perché Martin Ford paventa un futuro (per l’uomo) senza lavoro, da “piena disoccupazione”.
L’economia dei robot rischia così di portarci verso un tragico paradosso: l’umanità potrà produrre a basso costo quanti beni e servizi vorrà, ma non ci sarà nessuno che potrà comprarli. Perché nessuno avrà più un reddito sufficiente a comprare alcunché.
È uno scenario estremo, forse estremistico quello che propone Martin Ford. E tuttavia col suo libro solleva problemi di fondo. Hanno una soluzione, questi problemi?
Non sappiamo se Ned Ludd sia davvero esistito. Ma è certo che il fenomeno che da lui ha preso il nome – il luddismo, che predicava la distruzione delle macchine e il rifiuto dell’innovazione – è stato reale ed è stato sconfitto. Non si può impedire l’innovazione, neppure quella così speciale dei robot. La si può però governare. Magari seguendo i lucidi consigli – come a loro volta consigliano Nicola Costantino e Sergio Ferrari – di uno che di economia se ne intendeva, John Maynard Keynes.

L’innovazione tecnologica, prevedeva Keynes, ci consentirà di produrre tanto a poco. Questo farà diminuire i posti di lavoro. Dobbiamo rassegnarci a una società con un alto indice di disoccupazione? No. Possiamo fare di meglio. Possiamo lavorare poco, per lavorare tutti. A parità di reddito (la crescita della produttività lo consente). Possiamo lavorare, per esempio, quattro ore al giorno e poi dedicarci alle faccende dello spirito. E della solidarietà umana.
Alcuni sostengono che quella di Keynes è una pia aspirazione. Martin Ford ha il merito di ricordarci che è l’unica opzione che abbiamo. È una necessità.