Le rotte del cibo

Potenza delle immagini. Spero che quella di OXFAM allegata vi consenta di vedere nei dettagli il suo contenuto.

i padroni dei prodotti alimentari

E’ una mappa. Dentro ci sono le rotte del nostro cibo. Non quelle che ci raccontano da quali territori provenga, quali culture esprima, che ricchezza di gusto ci proponga. No. Questa è la mappa dei pianificatori, produttori, distributori di una parte elevata, sempre più elevata, troppo elevata, di quello che poi finisce nel nostro piatto e sulla nostra tavola. Possiamo dare un valore percentuale a tutto questo: non andiamo lontano dal vero se immaginiamo tra il 50 e il 70% di tutto quello che mangiamo come proveniente dai marchi controllati da questi signori. 10 in tutto il mondo che controllano oltre 500 marchi: non c’è tipologia di alimento che non sia presente nei loro cataloghi. I più grandi. Con 450 miliardi di dollari di fatturato annuo e 7000 miliardi di dollari di capitalizzazione.
Abbiamo modo di riflettere sulle implicazioni di tutto questo?

Da qualche parte nel mondo, diciamo tra Stati Uniti, alcuni paesi europei, pochi, e forse qualche paese del sud est asiatico in questo momenti si sta già pianificando cosa mangeremo non domani ma tra cinque anni.
Ci sono 10 grandi apparati, con le loro ramificazioni nazionali , con la potenza concentrata che gli deriva dalla loro enorme ricchezza, che determinano in buona misura la nostra libertà di scelta a tavola. Sì perché siamo liberi, ma per una percentuale che va appunto dal 50 al 70%, di scegliere tra quei 500 marchi.

La nostra libertà ha dei confini ben precisi. Presidiati non da eserciti armati ma da eserciti di esperti di marketing, pubblicitari, comunicatori. E a questi eserciti diamo noi stessi parte delle informazioni principali : pensateci, diamo loro, gratis, tutte le informazioni che gli servono ( quando facciamo la spesa, quando usiamo le carte punti del nostro supermercato, quando navighiamo in rete, quando usiamo google ), che gli servono per calibrare al meglio la vendita a noi non di quello che serve a noi ma di quello che interessa a loro.

Un capolavoro. E’ il capitalismo finanziario globalizzato, baby. Applicato all’alimentazione.

Ora, questo quadro rende ancora più ammirevole e meritevole di apprezzamento tutto lo sforzo di quelli che, nell’informazione come nella cultura, nell’organizzazione della produzione come della distribuzione lavorano e si battono per dare spazio alla ricchezza invece delle mille produzioni dei mille territori, ovunque nel mondo.

E sappiamo bene che parte non secondaria di questa ricchezza, di questa biodiversità è concentrata proprio nell’area mediterranea e, per quanto riguarda l’Europa, nel nostro Mezzogiorno.
Per certi versi c’è un problema di sopravvivenza di questa biodiversità. Vi sono aree del mondo nelle quali la logica delle monoproduzioni ha portato alla distruzione delle agricolture locali, o si sta avvicinando ad essa. E le monoproduzioni nascono esattamente nella logica della produzione centralizzata e pianificata su scala globale regolata dai nostri 10 amici di cui sopra.

Facciamo l’esempio dell’olio di palma. Un grasso vegetale di costo sempre più basso, dall’uso sempre più diffuso e dagli effetti sulla salute sempre più incerti. Fate un gioco, se volete. Guardate con attenzione le etichette dei prodotti andando a fare la spesa: vi sarà difficile trovare un prodotto che non lo contenga. Ora in questo momento in un paese lontano, l’Indonesia, che peraltro rappresenta con le sue immense foreste, dopo l’Amazzonia, forse la principale riserva di ossigeno per il Pianeta, si disbosca ad un ritmo pazzesco per impiantare le colture da cui si trarrà poi il prezioso olio di palma, sconvolgendo ambiente ed economie locali, distruggendo il tessuto delle piccole produzioni. E il tutto per avere un ingrediente a quattro soldi, e da quattro soldi, da mettere nelle merendine di Antonio Banderas piuttosto che nelle creme al cioccolato o nei crakers.

Quindi, vivaddio : avanti con il consumo critico e consapevole, con le eccellenze e con la vera qualità alimentare.
Ma avendo chiaro che c’è un problema enorme , che interroga la politica, le scelte delle istituzioni, a tutti i livelli, che ci parla dell’esigenza urgente di nuove regole che pongano un limite alla concentrazione ( in termini liberali si chiamano normative antitrust…), e che vincolino a criteri obiettivi di qualità alimentare, ambientale e sociale le produzioni.

Insomma, anche guardando a quello che mangiamo, c’è tutto quanto il tema di un recupero di sovranità oggi espropriata.

Con la nostra spesa possiamo fare certo tanto. Immaginate cosa significherebbe per l’economia del Mezzogiorno e in termini di sostegno a tutti i produttori di’qualità’ per come l’abbiamo definita, se in essa, nella nostra spesa, facessimo entrare anche solo un 3% di qualità garantita al posto della ‘qualità’ drogata dalla chimica e dalla pubblicità. Faccio un esempio per un settore che conosco un po, quello del latte’. Il suo consumo medio pro capite è di circa 60 litri all’anno.

In Campania vuol dire , grosso modo, 360 milioni di litri di latte all’anno. 33 milioni di litri di latte al mese. Ora, se scegliessimo anche una sola volta a settimana di fare colazione e una volta a settimana di prendere il cappuccino al bar con un latte proveniente da piccoli allevamenti non intensivi, con mucche alimentate prevalentemente con erbe e fieni e, magari, al pascolo anche per alcuni mesi all’anno, questo vorrebbe dire 1 milione di litri di latte al mese : una quantità significativa. Spendendo un po’ in più avremmo assicurato a noi stessi una botta di gusto e di salute mentre avremmo consentito ad almeno 100 allevamenti non intensivi, diciamo di 70 mucche in lattazione in media, di veder riconosciuto un reddito significativamente più alto rispetto al prezzo medio del latte e avremmo salvaguardato un pezzo di economia dei nostri territori.

E lo stesso discorso si può fare con ciascun prodotto : dall’olio extravergine, ne consumiamo grosso modo 12 litri all’anno a testa (potremmo ben comprare una volta all’anno una lattina di 3 litri di olio extravergine di oliva dei nostri territori), a tutti gli altri……
E ovviamente non m riferisco soltanto al chilometro zero : perché l’eccellenza non ha confini e se ci sono cose buone, e ci sono eccome, che provengono da altri territori del paese o da altri paesi non vedo perché dovremmo privarcene in nome di un malinteso autarchismo della qualità..che poi vorrebbe dire confinare le nostre eccellenze solo al nostro mercato locale.

Quindi consumo critico, consorzi di piccoli produttori, gruppi di acquisto solidale, slow food, orti in città di legambiente, reparto qualità dei supermercati, negozi di prossimità ….. sempre di più. Ma, se va bene, stiamo parlando di una componente minoritarissima dei nostri consumi.

L’ambizione nostra deve essere quella di immaginare un salto nella qualità vera di tutto ciò che mangiamo, non solo di una parte piccola.
E qui, c’è poco da fare: o noi o loro.
O noi, qualche miliardo di esseri umani, o loro , i 10 padroni del nostro piatto. In fondo è semplice.