OGM e “beni comuni”

Sono stato molto colpito dalla vicenda in materia di OGM, innescata dalla senatrice Cattaneo e che ha coinvolto alcuni ricercatori della Federico II.

Depreco con forza, ovviamente, l’accertato comportamento scorretto di chi ha manipolato dati e documentazioni. Ma il tema mi ha sollecitato ad uscire dal mio specifico campo di competenza per tentare – pur sulla base del solo buon senso – di impostare un ragionamento sulle questioni di fondo. Vorrei perciò cercare di mettere qui in fila, sul modo di trattare il complesso problema degli OGM, alcune considerazioni elementari espresse come soggetto che non intende rinunciare ai suoi diritti di persona nell’ambito delle garanzie della Carta costituzionale.

Non c’è dubbio che ai ricercatori debba riconoscersi la libertà di indagare, sia esplorando le possibilità di introdurre cambiamenti artificiali nel patrimonio genetico di specie esistenti sia studiando le caratteristiche degli organismi così modificati. È chiaro che si pongono delicatissimi problemi etici circa la selezione delle specie su cui sperimentare: lavorare su organismi animali complessi (escludendo, in ogni caso, la specie umana?) non è la stessa cosa che lavorare su organismi vegetali. Mi voglio pertanto limitare ora ai casi delle specie vegetali alimentari sui quali tali problemi etici appaiono relativamente marginali.

Finora, mi sembra di capire, la ricerca si è concentrata in prevalenza su due tipologie di aspetti: quali modifiche possano migliorare le caratteristiche delle specie sotto il profilo produttivo (resa quantitativa, resistenza a parassiti o patogeni, durevolezza delle caratteristiche di edulità etc.) e quali livelli di pericolosità le specie a tali fini modificate possano rivestire per la salute umana. Sono evidenti le portate di tali questioni sotto il profilo economico, in particolare per i soggetti aziendali che operano nell’agro-alimentare. Ed è chiarissimo perciò il rischio che la impostazione – e talora perfino gli esiti – delle ricerche possano essere influenzati da convenienze o da orientamenti ideologici. L’unica salvaguardia possibile è quella fornita dalla responsabilità e correttezza dei singoli ricercatori e dal controllo della comunità scientifica.

 

Ma le questioni su cui indagare approfonditamente mi sembra siano anche altre. Mi provo ad esemplificare. Quali caratteristiche diverse dall’originale “naturale” (inteso, ovviamente, in senso storico, ossia sulla base delle successioni di selezioni, ibridazioni etc. che le culture rurali hanno sedimentato nei secoli) possiede lo specifico OGM sotto il profilo nutrizionale e ai fini del benessere materiale e psicologico del consumatore? Poiché il brevetto, da strumento di protezione dei diritti intellettuali degli inventori, si è trasformato in modo preminente in strumento monopolistico di intrapresa economica, e dal momento che non è brevettabile tutto ciò che è “naturale”, in che misura lo specifico OGM risponde in buona sostanza al solo obiettivo di poter brevettare un prodotto diverso dall’originale per dettagli irrilevanti? O, invece, può rischiare di scomparire l’originale “naturale” in ragione delle migliori convenienze produttive dell’OGM? Poiché la biodiversità è riconosciuta oggi come un valore culturale irrinunciabile, quali misure e di che tipo possono mettersi in atto per evitare scomparse che spesso il “mercato” finirebbe per determinare?

L’esemplificazione mi sembra che faccia emergere con sufficiente evidenza alcune esigenze basilari da soddisfare in rapporto ai diritti personali di noi cittadini cui accennavo all’inizio.

La prima è che – ferma restando la libertà del singolo scienziato di ricercare sullo specifico aspetto che lo interessi o su cui possegga competenze – la comunità scientifica e le istituzioni trovino comunque il modo di programmare tutto ciò che necessita al fine di esplorare e documentare l’intero spettro degli aspetti in gioco.
La seconda esigenza è che governo e parlamento non rinuncino a regolamentare l’utilizzazione sociale ed economica degli esiti della ricerca scientifica sulla base, documentata, della valutazione di tutti gli aspetti e le questioni coinvolte.
La terza è che l’opinione pubblica sia sistematicamente messa in condizione di conoscere in via ordinaria (attraverso etichettature, documenti di tracciabilità e simili) tutto ciò che concerne le caratteristiche e gli effetti di ogni prodotto ed i criteri che ne hanno motivato la specifica regolamentazione.

Quanta distanza ci separa oggi, in Italia, dal conseguimento di tali condizioni? Una distanza enorme, mi sembra, grazie anche alla sostanziale scomparsa della ricerca di base a causa dell’obbligo di configurare, anche sul versante pubblico, ogni progetto come ricerca applicata finalizzata ad un esito produttivamente utilizzabile.

 

Non dovremmo, invece, pretendere dagli scienziati e dai legislatori atteggiamenti e comportamenti più adeguati alla complessità delle questioni, uscendo dalla riduttiva contrapposizione fra sostenitori della legittimità dell’utilizzazione economico-sociale degli OGM convenienti in assenza di prove scientifiche della loro nocività e sostenitori del principio di cautela nel timore che il tempo possa far emergere, magari tardivamente, di tali prove?

Mi permetto di concludere con un salto logico che mi consente di lanciare un ponte fra questi problemi e quelli del governo del territorio, di cui mi occupo normalmente. Il ponte che propongo è rappresentato dal concetto di “beni comuni”, su cui da anni tento di riflettere in campo urbanistico.

Non posso trattare qui in modo esauriente un tema tanto complesso; chiedo perciò ai lettori uno sforzo intuitivo e mi limito a poche notazioni, riproponendo la consueta distinzione fra natura e cultura, per assumere come beni comuni naturali le risorse a cui ogni individuo vivente deve poter attingere per la propria dignitosa sopravvivenza e come beni comuni culturali i valori di cui ogni essere umano deve poter fruire per vedersi riconosciuta, appunto, la dignità di persona. I primi, quelli che possiamo attendibilmente considerare fondamentali, originari vorrei dire, sono l’aria e l’acqua, l’energia solare, diretta e indiretta, il cibo (30mila anni fa rappresentato per i primi clan umani dalle specie viventi della flora e della fauna selvatica).

E la terra. Mi faccio aiutare da uno stralcio del discorso rivolto ai vincitori “visi pallidi” dal Capo Sealth dei pellerossa Dwamisch, pubblicato nel 1885 nell’Oregon Historical Review (lo traggo dal n. 87 della Urbanistica informazioni diretta da Edoardo Salzano):
«…. Vi è troppa differenza tra noi. Noi uccidiamo gli animali che ci servono e li mangiamo tutti. Voi uccidete senza motivo e abbandonate i corpi degli animali che avete abbattuto. Voi tagliate intere foreste e noi usiamo solo i rami caduti e gli alberi morti e abbiamo rispetto per ogni ago di pino. Voi spaccate le pietre, forate le montagne e non riuscite ad ascoltare lo spirito della terra che vi dice: “non fatelo, non fatemi male”. Noi sentiamo lo spirito e il mistero della vita anche nelle ali delle libellule. Voi siete ciechi e sordi di fronte alle cose che esistono e, quando vi rivolgete a Dio, chiedete ricchezza, denaro e potere. Noi chiediamo al Grande Spirito di mostrarci la bellezza, la stranezza e la bontà della terra verdeggiante, l’unica Madre, e di svelarci le cose nella loro essenza e perfezione (…) Per tutto questo voi riuscite a vendere la terra: mentre per noi la terra è come l’aria che si respira, è il corpo di nostra madre e non possiamo neppure concepire che essa possa essere venduta, divisa, recintata».

Anche la terra, dunque, dovrebbe considerarsi, in termini di principio, un bene comune.

 

Nella storia dell’Occidente si sono registrate alternanze e tensioni tra forme giuridiche differenti di proprietà, collettive o individuali. L’ordinamento attuale nel nostro Paese è il risultato dell’intreccio fra le cospicue sopravvivenze del diritto giustinianeo e, in quota minore, del diritto germanico dell’età longobarda e le innovazioni giuridiche dell’Occidente illuminista e quelle mutuate, infine, dalla cultura statunitense, per cui, accanto ad una predominante proprietà privata, c’è ancora una significativa proprietà pubblica.

Ma cresce oggi l’influenza dei principi del diritto del Far West, come ci ripete caparbiamente Vandana Shiva. Un tipo di codificazione giuridica capace di travolgere lo spirito dell’illuminismo, che muoveva dal nuovo concetto di cittadino per affermarne, fra gli altri diritti, compatibilmente con gli altri diritti, anche quello di intrapresa economica. Nel Far West chi, avendone la forza, dichiarava per primo di essere il proprietario di un terreno, di una miniera, di un branco di cavalli selvatici o di una sorgente ne diventava anche giuridicamente il dominus e gli apparati “della legge” confermavano e garantivano tale appropriazione anche di beni comuni.

E dunque, torno finalmente al tema di questa nota, proponendo gli interrogativi conclusivi.
Non sarebbe necessario riconoscere alle specie agro-alimentari “naturali” (nel senso storico cui ho accennato) il significato e la portata di beni comuni ?

E non sarebbe ora di innovare il nostro ordinamento giuridico fondamentale per disciplinare adeguatamente il settore dei beni comuni sottraendolo ad ogni possibilità di mercificazione (facendo tesoro, in particolare, delle elaborazioni per il ministero della giustizia della commissione Rodotà in materia) ?
E non dovremmo, infine, mobilitarci tutti perché i beni comuni costituiscano riferimento essenziale per governare il “mercato” subordinandolo alla tutela dei diritti di cittadinanza garantiti dalla Costituzione?