Bonifica e rigenerazione urbana di siti industriali dismessi: noterelle critiche

Bonifica e rigenerazione urbana, la letteratura sul tema, si avvia a divenire sterminata, ci si propone qui di richiamarne solo un paio di aspetti piuttosto trascurati negli ultimi anni, ovviamente riportandoli in primo piano anche sotto le sollecitazioni provenienti da vicende vistose del nostro contesto metropolitano e regionale.

L’eredità dell’industrializzazione nei territori urbani, anche italiani, è stata sempre e dovunque di grande peso. Non è forse inutile ricordare che il grattacielo Pirelli negli anni ’50 a Milano o il centro direzionale di Napoli negli anni ’70-’80 sono esempi relativamente “precoci” di riuso urbano di suoli industriali dismessi. Esempi precoci e anche “precedenti” condizionanti, che hanno costituito riferimento distorcente, nel quadro del nostro carente ordinamento legislativo, per le più recenti questioni del recupero di siti dismessi. Si è infatti considerato normale associare ad aree non più utilizzate nei processi produttivi (a causa della delocalizzazione della fabbrica o dell’abbandono puro e semplice dell’attività) l’attesa di una rendita immobiliare straordinariamente elevata solo in virtù della posizione “strategica” conferita dalle vicende della crescita urbana a suoli un tempo periferici e marginali. E ciò non in ragione di investimenti di valorizzazione, infrastrutturazione o attrezzatura effettuati dalla proprietà; anzi, ciò, addirittura, nonostante le condizioni di degrado e di inquinamento lasciate nel sito dall’attività dismessa.

È canonico il rinvio in proposito agli studi magistrali di Giuseppe Campos Venuti che classifica questa specifica distorsione recente del mercato immobiliare urbano italiano come “rendita differenziale monopolistica”, eminentemente parassitaria. Nei paesi del centro e del nord Europa il fenomeno (intrinseco agli ordinamenti giuridici di paesi capitalisti, soprattutto nell’attuale stagione neoliberista) è presente, anche se in proporzioni dimensionali più contenute, ma almeno vi si contrappone l’attuazione del principio secondo cui “chi inquina paga” il disinquinamento preventivo rispetto al riuso. In linea teorica, per effetto delle direttive dell’Unione Europea, il principio dovrebbe valere anche in Italia, ma ci sono da nutrire molti e seri dubbi sulla sua concreta applicazione, almeno finora, nelle realtà del nostro paese.

Il riferimento alle vicende di Bagnoli viene a questo punto spontaneo, con il fallimento di Bagnolifutura, la Società di trasformazione urbana a capitale pubblico, determinato dalla pretesa della vecchia proprietà di un prezzo abnorme per suoli inutilizzabili nel loro stato, e con le centinaia di milioni di euro di fondi pubblici già stanziati o promessi per realizzare gli interventi di bonifica e di recupero ambientale a cui la vecchia proprietà ha fatto inizialmente solo la “mossa” di provvedere.

Con gli adempimenti legislativi di recepimento delle disposizioni europee, lo stato italiano – piuttosto che riformare il regime dei suoli – ha preferito assumere direttamente la responsabilità e gli oneri della bonifica in 57 SIN, Siti di interesse nazionale, poi ridotti a 39, ma – per le difficoltà di bilancio e per i conflitti relativi alle scelte di priorità che hanno sistematicamente penalizzato l’ambiente – in uno solo di essi al 2013 la bonifica si è potuta ritenere completata. Concludere l’esame di questo punto con un vivo senso di preoccupazione per le nostre città e per gli interessi collettivi non può pertanto ritenersi eccessivo.

Il secondo aspetto che si vuole prendere qui in considerazione riguarda i modi ed i criteri con i quali si progetta la rigenerazione urbana. La tradizione urbanistica connessa con la pianificazione secondo la legge 1150 del 1942 conduceva spesso alla delineazione di un nuovo assetto “ottimale” del sito, affidando ad operazioni future (ritenute di fatto come distinte e separate dal progetto urbanistico) la ricerca delle risorse, degli strumenti operativi e delle forme di cooperazione istituzionale o di collaborazione pubblico-privati necessari per la realizzazione dell’assetto auspicato, ovviamente assunto nel frattempo come riferimento regolativo discriminante. Una impostazione del genere è stata spesso concausa, in periodi di difficoltà della finanza e dell’operatività pubbliche, di lunghe fasi di pratico immobilismo.

La riforma degli strumenti di pianificazione del territorio da articolare in una componente strutturale, valida a tempo indeterminato, ed una componente operativa, tarata sul breve termine (non più di un quinquennio), sembra idonea a far assumere logiche più efficaci, con le disposizioni strutturali volte a definire le condizioni che garantiscano il rispetto dei diritti costituzionali fondamentali delle comunità insediate (sicurezza e salute dei cittadini, tutela del patrimonio storico-culturale e paesaggistico, salvaguardia dei territori agricoli), e quelle operative che individuino obiettivi intermedi di trasformazione concretamente conseguibili in rapporto alla programmata disponibilità di risorse ed alla verificata coesione di soggetti, strategie e procedure.

La riforma degli strumenti di piano, pur con qualche perdurante incertezza e lacuna, è stata introdotta nel 2004 anche in Campania: ci si deve mobilitare, nella nostra regione e nell’area metropolitana, per trarne tutti i vantaggi civici possibili. Ma la preoccupazione è, anche, che incongrui poteri straordinari (quali, esempio non casuale, il commissario di governo, la cabina di regia e Invitalia “soggetto attuatore” per il SIN di Bagnoli-Coroglio) continuino a praticare vecchie logiche limitandosi a definire il puro “disegno” di un nuovo assetto ideale, tuttora sconnesso da una concreta, scadenzata programmazione che combini risorse effettive e sinergie concrete di specifici soggetti in rapporto a obiettivi “discreti e raggiungibili” di breve e medio termine.