Un compromesso tra piacere attuale e piacere futuro

Salute e alimentazione oggi è – o si percepisce – come un binomio indissolubile. Sfogliando giornali e navigando sul Web il cibo sembra farmaco – o veleno, dipende – e lo stile alimentare terapia – o condanna, dipende, anche qui… Di questo e altro abbiamo parlato con Andrea Ghiselli, nutrizionista, dirigente di ricerca presso il CRA-NUT, il Centro Ricerca per Alimenti e la Nutrizione di Roma.

 

Cosa mangio-come sto, l’origine di un nesso
In realtà il nesso di causalità, o meglio la dimostrazione dell’esistenza e della forza di questo nesso, tra cosa/come mangio e come sto è un fatto recente: risale agli anni Cinquanta e ci riguarda molto da vicino. Nasce infatti con il concetto di “dieta mediterranea” elaborato per la prima volta da Ancel Keys, un fisiologo statunitense esperto di modelli alimentari che nel dopoguerra, al seguito dell’esercito di occupazione, risiedette per qualche tempo nel nostro Paese. E ne osservò le abitudini alimentari.
Keys è lo stesso, tra l’altro, che formulò le razioni K (dove K starebbe per Keys) dell’esercito USA: un curioso paradosso questo, che associa in un unico individuo un’alimentazione considerata tra le più gustose al mondo (la nostra) e un’altra (quella delle truppe) universalmente ritenuta funzionale e equilibrata di sicuro, ma anche tra le meno gradevoli per il palato.
“Prima del lavoro di Keys si avevano sospetti e certamente si presupponeva, che quanto e cosa si mangia avesse una ricaduta sullo stato di salute, ma nessuno studio scientifico, in senso moderno, era mai stato condotto per dimostrarlo”, spiega Andrea Ghiselli. “Keys aveva osservato che negli Stati Uniti e nei Paesi più ricchi la mortalità per patologie cardiovascolari era sensibilmente più elevata che non nei Paesi più poveri, come era l’Italia quando lui la visitò per la prima volta (decenni più tardi vi si trasferì definitivamente, ndr): un posto in cui si mangiava poco, ci si saziava di pane o pasta e di zuppe vegetali e legumi, si usava l’olio d’oliva come condimento e dove la carne era cosa rara. Keys allora avviò il Seven Countries Study, una ricerca il cui scopo era appunto quello di verificare, dimostrare, la relazione tra dieta e aterosclerosi, tra dieta e mortalità”. Lo studio durò diversi anni: iniziò informalmente intorno al 1952 e formalmente nel 1958, i primi risultati cominciarono a venire pubblicati verso gli anni Settanta-Ottanta. La ricerca coinvolse oltre 12 mila uomini di età compresa tra i 40 e i 59 anni residenti in Olanda, Finlandia, Grecia, Yugoslavia, Italia, Giappone e naturalmente Stati Uniti.
Quello che si presupponeva fu confermato: la dieta ha molto a che fare con lo stato di salute. In particolare, il fisiologo delle razioni K dimostrò che il rischio di ammalarsi di malattie cardiovascolari era associato a elevati consumi di grassi saturi d’origine animale: carne e burro, utilizzati nella cucina del Nord Europa e degli Stati Uniti. Lo stesso rischio si riduceva sensibilmente invece in Italia, in Grecia, nei Paesi che affacciano sul Mediterraneo e anche in Giappone.

 

Miti e forzature
Era nato un mito. Ma spesso i miti, specialmente al momento della loro fondazione, nascondono qualche forzatura. In questo caso è accaduto per la definizione. “La forzatura – riprende Ghiselli – c’è stata nel definire mediterranea quell’alimentazione che si associava, e si associa ancora, alla longevità e alla salute, perché il Seven Countries Study aveva in realtà dimostrato che la mortalità per malattie cardiovascolari era più bassa non solo tra le popolazioni rurali dell’area mediterranea, ma anche in Giappone, che è ben distante dal Mare Nostrum”.
Insomma, non è il Mediterraneo a essere determinante, non è geografico il discrimine: ovunque nel mondo, in Sud Africa o Spagna, in Corea o California si può mangiare mediterraneo… Ma allora cosa significa dieta mediterranea? “All’epoca le popolazioni più povere, la nostra come quella greca o anche la giapponese o altre, si saziavano di cereali – da noi era il grano, altrove era il riso (e il mais, se fosse entrato nello studio il Messico) – legumi, frutta e ortaggi, alimenti questi che hanno la capacità di riempire lo stomaco, di saziare, a fronte di un apporto calorico basso, e ovviamente di una spesa minima. La loro poteva assomigliare a una dieta vegetariana ma non lo era, perché non era un regime privo di prodotti animali, ma un regime povero di prodotti animali: la carne si consumava, ma raramente e mai in grandi quantità, pesce in misura maggiore in Giappone e meno da noi, uova, formaggi (in area mediterranea). Le proteine animali, soprattutto in diete povere come quelle di quei tempi erano essenziali per l’apporto di tutti i 20 aminoacidi, indispensabili per la sintesi proteica. Non solo: la carne è anche un facilitatore, serve cioè a facilitare l’assorbimento di alcuni elementi contenuti nei vegetali come il calcio, il ferro… ma – ribadisce l’esperto – ne basta davvero poca”.
Cereali, verdura, grassi insaturi come l’olio d’oliva, quantità ridotte di alimenti animali, più pollo e uova che bovini. Dunque questo, schematizzando, è mangiare mediterraneo. Poco importa se i cereali sono il frumento o il riso o il mais e se la verdura radicchio di Treviso, alghe o cavolo giapponese, o se ceci o soia, pesce palla o pesce spada o che si tratti di olio d’oliva o di arachide, soia ecc. “Questa definizione – conferma Ghiselli – per così dire basica di dieta mediterranea riesce a inglobare una serie di items emergenti nella letteratura scientifica degli ultimi anni, come l’indice glicemico (vale a dire la velocità con la quale un alimento viene digerito, assorbito e in grado di aumentare il livello di glicemia), la restrizione calorica, il digiuno intermittente, nonché le raccomandazioni per tante tipologie di malattie, prime tra tutte i tumori”.

 

Ma non di sola qualità vive (bene e a lungo) l’uomo
Come la dose è fondamentale in Farmacologia, così la porzione, le quantità di ciò che consumiamo, lo è per la salute, indipendentemente dalla qualità. “La dieta mediterranea rappresenta un’alimentazione sana, a patto che se ne segua una, non due in contemporanea – afferma efficacemente l’esperto. Per i nostri antenati la limitatezza delle porzioni era obbligatoria, si chiamava povertà, mancanza di disponibilità, carestia. E il consumo energetico si chiamava duro e prolungato lavoro nei campi. Se volevi mangiare di più dovevi lavorare di più, e viceversa: se volevi lavorare e produrre di più dovevi mangiare di più. Questo legame diretto tra introito e consumo di energia si è rotto, almeno in questa parte di mondo. La nostra epoca è la prima della storia che ci vede affrancati dal lavoro fisico. È la fine della maledizione biblica: ‘tu uomo lavorerai col sudore della fronte…’. Ed è una fortuna, che però dobbiamo apprezzare e quindi amministrare”. Ci siamo affrancati dalla maledizione della fatica fisica ma ci siamo infilati in un’altra maledizione: l’obesità, la madre di tutti i rischi. “Non esageriamo nell’interpretazione dei nostri tempi. L’obesità è un grosso problema di salute e sanità pubblica in diverse regioni del mondo occidentale e rappresenta un fattore di rischio per una serie di patologie. Aumenta la spesa pubblica, i giorni di disabilità e la spesa farmaceutica. Ricordiamoci che viviamo anche più a lungo. Questa non è un’opinione ma una realtà, per la quale dobbiamo ringraziare un po’ la medicina, ma parecchio la fine della fame. Oggi mangiamo meglio e di più. Approfittiamo dunque dell’epoca dell’abbondanza, ma poniamoci dei limiti, per non pagare prezzi nel tempo. La corretta nutrizione è un compromesso tra il piacere attuale e il piacere futuro, non una vita castigata, ricca solo di rinunce, di senza…”.

 

Digiuni, rinunce e diete senza
A proposito di diete senza, viene immediatamente alla mente il veganismo… “che è certamente una moda, che nasce anche da motivazioni etiche – riprende Ghiselli. Per quanto riguarda l’aspetto salute non possiamo dire che un vegano viva più a lungo di un onnivoro, non abbiamo evidenze scientifiche che lo attestino. Anzi, abbiamo studi che dimostrano che consumando 50 grammi di carne al giorno, che è anche troppo, non aumentano rischi di cancro, aterosclerosi… e che gli onnivori, se seguono una dieta ricca di vegetali, se mantengono un peso corporeo corretto e un corretto stile di vita, hanno la stessa percentuale di rischio dei vegani. Ritorniamo quindi al concetto di porzione, di quantità adeguate. E quindi di peso: è evidente che non puoi comparare un vegano di 60 chili e un onnivoro di 120, il problema è quanto pesano, quanto e se fumano, quanta attività fisica fanno, quanto alcol consumano, non gli alimenti a cui rinunciano, o non rinunciano”. Porzioni, si diceva, che per alcuni andrebbero ridotte molto. Sostiene Ghiselli: “Il digiuno intermittente è un modo moderno, anche se non necessario, per fare restrizione calorica. Ancora una volta siamo di fronte a una versione moderna di quanto accadeva nelle epoche passate forzatamente: quando eravamo cacciatori, non sempre trovavamo una preda. Quando eravamo contadini capitava di dover mangiare poco, anche molto poco. Quando la religione scandiva la vita di tutta una comunità c’erano giorni di penitenza e di astinenza. Insomma in passato, nel corso della storia della nostra specie, a digiunare più o meno spesso, più o meno completamente si era costretti. E non faceva bene, perché il digiuno si aggiungeva a una dieta già minima, spesso insufficiente: allora il rischio era la malnutrizione e la denutrizione, non l’obesità o le patologie cardiovascolari. Oggi un semidigiuno, cioè per un giorno alla settimana mangiare molto poco ma bevendo, oppure il digiunare per 12-16 ore consecutive, può essere benefico. Con la restrizione calorica si normalizzano i marker cardiometabolici (come l’insulinoresistenza, le molecole di adesione, lo stato infiammatorio subclinico ecc. Se riusciamo a mangiare di meno in altro modo che non preveda un digiuno va benissimo, e forse anche meglio, ma se non ne siamo capaci, allora va benissimo il digiuno, perché oggi mangiamo veramente troppo. Se normalmente mangiassimo meno, mangiassimo il giusto, la necessità di digiunare non ci sarebbe. Non se ne vedrebbe il beneficio. È importante comunque che sia sempre garantito nutrimento a tessuti e cellule e al microbiota, la flora batterica”. Sempre in relazione alle diete senza, recentemente, di pari passo con l’invasione di prodotti glutenfree sul mercato, è cresciuta la popolazione che non mangia grano. Anche in assenza di diagnosi di celiachia sono moltissimi quelli che, ritenendo di essere sensibili al glutine o peggio, ritenendo, a torto, che il glutine sia veleno per tutti, con il timore di diventare celiaci, rinunciano al consumo di alimenti che lo contengono. “In realtà la questione è semplice: o uno è celiaco o non lo è. Se è celiaco non deve mangiare alimenti contenenti glutine, quindi derivati di grano, orzo, farro ecc., se invece non lo è, sì. Prima di modificare la propria alimentazione in maniera radicale va fatta la diagnosi di celiachia, ma con esami seri, prelievo ematico e semmai conferma diagnostica con biopsia, non con le bacchette da rabdomante o con i fondi di caffè o altri test di fantasia che si eseguono con troppa superficialità oggi”.

 
 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo