Etichette, sorvegliate speciali

Incomplete o, al contrario, eccessivamente scrupolose. Accusate di tacere informazioni fondamentali tanto quanto di riportare avvisi superflui, se non addirittura inopportuni. Ma anche promosse ad autorevoli guide per i consumatori. Negli ultimi tempi le etichette alimentari hanno catturato l’interesse di scienziati, giornalisti e politici impegnati a individuare la formula perfetta da scrivere sulle confezioni dei prodotti, in grado di orientare gli acquisti verso cibi più sani senza però alimentare maniacali preoccupazioni per ciò che finisce nel piatto.
La normativa europea sull’etichettatura, il Regolamento UE n. 1169/2011 applicato dal dicembre 2014, non viene valutata da tutti allo stesso modo: c’è chi la critica per ciò che omette e chi, invece, per quello che impone, ma c’è anche chi la considera esaustiva ed efficace.
Tra i tanti pareri recentemente espressi sull’argomento ne abbiamo scelti tre rappresentativi di questi diversi punti di vista.

 

I dati censurati
In vino veritas? Non proprio: brindiamo alla salute senza sapere esattamente cosa c’è nei nostri calici. A segnalare il singolare paradosso è Fiona Sim, accademica della Royal Society for Public Health, che dal British Medical Journal[1] invita a riflettere su una, a suo avviso, ingiustificata anomalia: chi beve vino o birra, o qualunque altra bevanda con una gradazione alcolica superiore all’1,2%, non può sapere quante calorie sta assumendo. Perché sull’etichetta delle bottiglie o delle lattine il dato non viene riportato. Un’eccezione rispetto a tutti gli alimenti confezionati che dal dicembre del 2014, con l’applicazione del Regolamento UE n. 1169/2011, hanno l’obbligo di indicare, oltre a tutti gli ingredienti, con gli allergeni bene evidenziati, e alle altre informazioni nutrizionali, l’apporto energetico. Il Rapporto della Commissione Europea che avrebbe dovuto porre fine al “trattamento speciale” riservato alle bevande alcoliche si fa attendere da quasi un anno e non si hanno notizie sulla data della sua pubblicazione.
Agli occhi di chi si occupa di salute pubblica come Fiona Sim, il vuoto legislativo è inspiegabile: di fronte al grave problema dell’obesità non si può ignorare il fatto che il 10% delle calorie giornaliere assunte da persone adulte che bevono abitualmente ai pasti provengono dall’alcol[2].
Gli ultimi dati sul sovrappeso diffusi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo scorso gennaio[3] non sono certo tranquillizzanti: nel mondo l’obesità è più che raddoppiata dal 1980 a oggi e nel 2014 gli adulti con un peso eccessivo erano più di 1,9 miliardi (pari al 39% della popolazione mondiale), di cui 600 milioni di obesi (13%). Sempre secondo l’OMS, al sovrappeso è attribuibile il 44% dei casi di diabete, il 23% delle malattie ischemiche del cuore e tra il 7% e il 41% di alcune forme di cancro. Il quadro è drammatico, ma tra le righe della scheda informativa non può sfuggire una nota positiva: i chili di troppo si possono prevenire.
Con l’impegno da parte dei singoli individui di ridurre il consumo di grassi e zuccheri e aumentare l’attività fisica e da parte delle industrie alimentari, dei fast food, dei bar e dei ristoranti di incoraggiare scelte sane, assicurando una corretta informazione al consumatore.
Eppure – lamenta Fiona Sim – a guardarsi intorno la prevenzione non sembra sia una priorità per nessuno. Per esempio, i bicchieri da vino dei bar e dei ristoranti inglesi negli ultimi dieci anni sono aumentati di diametro e con due brindisi si arriva facilmente a 370 calorie, un quinto di quelle raccomandate quotidianamente. E, complice il silenzio delle etichette, in pochi sono consapevoli di quanto l’alcol incida sul girovita e, di conseguenza, sulla salute. L’80% di un campione di più di 2000 persone intervistate dalla Royal Society for Public Health nell’ottobre del 2014 non sapeva quanto fossero caloriche le bevande alcoliche e molti non immaginavano di dover considerare il contributo dell’alcol nel calcolo del fabbisogno giornaliero.
Al sondaggio hanno fatto eco programmi televisivi con inchieste giornalistiche ambientate in bar o in ristoranti in cerca di clienti in grado di valutare se ciò che avevano nel piatto fosse più o meno calorico del contenuto del loro bicchiere. Raro trovare qualcuno con le idee chiare, al corrente, per esempio, che un vino di media gradazione alcolica contiene 66 calorie ogni 10 cl. Comunque, piuttosto che mettersi a fare i conti, la maggior parte avrebbe voluto leggere queste informazioni sulle etichette.
Per ora non è possibile, ma in futuro questa lacuna verrà colmata, confida Fiona Sim dopo aver letto le recenti dichiarazioni di Ivan Menezes a capo della Diageo, azienda leader mondiale nel settore delle bevande alcoliche (tra i marchi trattati, la birra Guinness e il whiskey J&B): “Al momento attuale non c’è alcun obbligo di fornire queste informazioni sui mercati del mondo, ma sappiamo che i consumatori si domandano sempre più spesso cosa c’è nei loro bicchieri. Noi vogliamo fornire informazioni nutrizionali che i consumatori possano capire facilmente senza costringerli a fare calcoli matematici” [4]. Con queste intenzioni l’azienda ha proposto alle istituzioni dell’Unione Europea di collaborare all’ideazione di un’etichettatura standard per le bevande alcoliche. La candidatura della Diageo, legittimamente interessata a non danneggiare il suo business, fa pensare a Fiona Sim che cambiare le regole del gioco per “scoprire le carte” non sia poi così controproducente per chi trae profitto dalla vendita di alcolici.
Negli Stati Uniti l’obbligo di rivelare al consumatore la quantità di calorie è già in vigore dallo scorso dicembre. Per ora la Food and Drug Administration lo ha imposto solamente alle catene di ristorazione con più di 20 locali, ma la decisione dell’organo di controllo americano è, per la Sim, un passo avanti nella giusta direzione: “Non c’è alcun motivo per cui le calorie dell’alcol debbano essere trattate in modo diverso da quelle del cibo”. Perciò la Royal Society for Public Health chiede che venga approvata urgentemente una nuova normativa sulle etichette delle bevande alcoliche. E non si accontenterà di trovare informazioni vaghe ma, come accade per gli alimenti confezionati, dove è previsto il conteggio per la singola porzione, vorrà conoscere, per esempio, quante calorie ci sono in un bicchiere di vino. Ai legislatori spetterà il compito di stabilire la capienza massima del bicchiere di riferimento: 148 ml come quelli usati negli Stati Uniti, oppure 250 ml come da tradizione anglosassone o, invece, 210-225 ml come previsto per il calice da degustazione standard certificato dall’International Organization for Standardization (ISO)?

 

Una guida utile per scelte più sane
La proposta della Royal Society for Public Health lanciata sul British Medical Journal non rischia di rimanere isolata. I ricercatori dell’Università del Surrey, tra gli altri, non esiterebbero ad appoggiarla. E non solo per rispetto nei confronti dell’autorevole istituzione connazionale, ma perché convinti dell’effettiva utilità delle informazioni riportate in etichetta, in grado, a loro avviso, di orientare le scelte dei consumatori verso prodotti più salutari. A questa conclusione sono giunti dopo aver sondato la capacità di giudizio di più di 2000 cittadini europei di quattro Paesi (Regno Unito, Germania, Polonia e Turchia), invitati a indicare il prodotto più sano all’interno di ognuna delle tre categorie di alimenti selezionate: pizza, yoghurt e biscotti. I risultati dell’indagine pubblicati sul British Journal of Nutrition[5] non lasciano dubbi: la lettura delle informazioni nutrizionali ha permesso ai partecipanti di classificare correttamente i cibi in base al loro impatto sulla salute. Anche la Food and Drug Administration (FDA) ritiene che le etichette aiutino a scegliere cibi più sani: l’obbligo di indicare sulla confezione la quantità dei grassi insaturi, che per una decisione recente dell’ente americano saranno messi al bando entro tre anni, ne ha ridotto il consumo del 78% tra il 2003 e il 2012. I consumatori hanno evitato di acquistare prodotti ricchi di sostanze nocive e le aziende, costrette a denunciarne la presenza, ne hanno usate sempre meno.
A stabilire cosa deve essere riportato sulle etichette alimentari, come detto, è il Regolamento europeo n. 1169 del 2011. Stampate a caratteri di almeno 1,2 mm di altezza, su ogni confezione devono apparire le informazioni nutrizionali, come “il valore energetico, la quantità di grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale” e le altre caratteristiche del prodotto, tra cui la “denominazione, gli ingredienti ordinati in base alla percentuale presente, le sostanze che provocano allergie o intolleranze, …”.
Un lungo elenco capace, secondo i ricercatori dell’Università del Surrey, di trasformare delle semplici etichette alimentari in preziosi vademecum per una spesa salutare. Proprio come richiede il Regolamento europeo: “La presentazione obbligatoria sull’imballaggio di informazioni sulle proprietà nutritive dovrebbe supportare azioni dietetiche in quanto parte delle politiche sanitarie pubbliche, che possono anche prevedere l’indicazione di raccomandazioni scientifiche nell’ambito dell’educazione nutrizionale per il pubblico e garantire scelte alimentari informate”.
Dopo aver confermato il ruolo educativo delle etichette, la professoressa Monique Raats dell’Università del Surrey, a capo della ricerca, si chiede se non si possa osare di più e suggerisce di valutare l’ipotesi di inserire anche altri sistemi di segnalazione più intuitivi, come per esempio una serie di riconoscibili bollini dei colori del semaforo associati ai valori numerici: rosso per quelli più alti, giallo per i medi, verde per i bassi, convinta che “le etichette siano uno strumento importante per aiutare i consumatori a fare scelte più salutari e incoraggiare l’industria a produrre cibo più sano”.

 

L’insostenibile mania del controllo
Non sembra pensarla esattamente allo stesso modo Viv Groskop, giornalista, scrittrice e acuta umorista inglese, che ha lanciato dalle pagine del Guardian[6] la provocatoria domanda: “Ci preoccupiamo troppo di quel che mangiamo?”. Siamo, cioè, ossessionati dalle informazioni contenute nelle etichette? Se lo è chiesto, per prima, lei stessa dopo aver trovato nello zaino del figlio di quattro anni un appunto lasciato dall’educatrice dell’asilo: “Nella barretta di Jack sono contenute nocciole. Per favore si assicuri per il futuro che la merenda non ne abbia perché ci sono bambini con allergie alle nocciole”.
Una svista mal tollerata in quella scuola che ambisce al riconoscimento “nut-free”. Anche perché dal dicembre 2014 Viv Groskop e tutti gli altri genitori non possono più ricorrere al salvifico “non sapevo”: la normativa europea (parliamo sempre del Regolamento n. 1169/ 2011) impone a tutte le industrie alimentari di segnalare sulla confezione le sostanze allergeniche “attraverso un tipo di carattere chiaramente distinto dagli altri ingredienti elencati, per esempio per dimensioni, stile o colore di sfondo”. Nella lista dei 14 alimenti “problematici”, insieme ai cereali contenenti glutine, alle uova, al latte, al pesce, ai molluschi e crostacei, alla soia, ci sono le arachidi, le mandorle, le noci e anche, ovviamente, le nocciole prontamente denunciate dalla maestra inglese. Se avesse controllato la confezione della barretta di cereali del figlio prima di ricevere il puntuale rimprovero, Viv Groskop avrebbe trovato l’ingrediente incriminato, scritto in grassetto, alla fine di una lunga lista di altre sostanze: nocciole 0,5%. A quel punto si sarebbe chiesta, come ha poi fatto sul Guardian: “Quanto può essere pericolosa una simile quantità per un bambino allergico che si siede accanto a un altro che mangia la sua merenda?”. Sa bene la Groskop che le reazioni allergiche sono una minaccia seria alla salute, ma la domanda, volutamente tendenziosa, ha uno scopo ben preciso: scoperchiare il calderone di informazioni, credenze e interessi economici che ruotano intorno alle allergie e intolleranze alimentari per poi separare le giuste premure dagli allarmismi che avvantaggiano le industrie, i falsi miti dai dati scientifici, i fenomeni di moda dai fatti reali.
Sono le stesse motivazioni che troviamo all’origine della guida Making Sense of Allergies[7], da poco pubblicata dall’organizzazione inglese Sense About Science, un’associazione che riunisce migliaia di esperti con l’intento di incoraggiare l’approccio scientifico ai problemi della società. Anche qui troviamo qualche perplessità sullo zelo eccessivo delle etichette alimentari nel segnalare i 14 allergeni. Gli esperti inglesi mettono in guardia da un inevitabile e rischioso “effetto collaterale”: spingere i consumatori ad acquistare prodotti speciali, privi di qualche sostanza allergenica, senza che ne abbiano realmente bisogno.
Prendiamo il caso del cibo “gluten-free”. La Mintel, tra le principali agenzie di analisi del mercato globale, ha calcolato che in quattro casi su cinque chi sceglie alimenti senza glutine non è celiaco ma crede, comunque, che l’inconfondibile marchio garantisca un’alimentazione più sana. E alle industrie alimentari non conviene certo smentirlo: nel 2013 il business del gluten-free ha fruttato dieci miliardi di dollari negli Stati Uniti e sembra destinato a crescere, dato che il 30% degli americani dichiara di voler ridurre o eliminare il glutine dalla dieta.
Attenzione però anche – avvertono gli autori del dossier – a non cadere nella tentazione opposta di considerare la celiachia un’“invenzione del mercato”, perché al rischio di enfatizzare il problema fa inevitabilmente eco la tendenza a minimizzare l’impatto di una patologia diffusa, che colpisce l’1% della popolazione mondiale, difficile da diagnosticare e con complicanze serie. Questa “enteropatia cronica immuno-mediata dell’intestino tenue scatenata dalla assunzione di cereali contenenti glutine (frumento, orzo e segale) in individui geneticamente predisposti” [8] merita, invece, le dovute attenzioni. Tanto da chiedersi, come hanno fatto recentemente alcuni esperti, se non valga la pena prevedere per la celiachia programmi di screening come nel caso di altre malattie, visto che molti dei criteri stabiliti dall’OMS per giudicare utili le diagnosi generalizzate sono rispettati[9].
Le perplessità sui premurosi criteri dell’etichettatura, apertamente confessate da Viv Groskop sul Guardian, nascono anche dal fatto che molte consolidate convinzioni sulle allergie sembrano vacillare sotto i colpi degli ultimi studi.
È accaduto nel caso dell’allergia alle arachidi, una delle forme più pericolose di allergia, destinata a durare tutta la vita a differenza di molte altre che si risolvono con l’avanzare degli anni. La nuova strategia proposta dal King’s College di Londra suona rivoluzionaria: “the sooner, the better”, l’allergia alle arachidi si previene cominciando a mangiarle nella primissima infanzia. L’inversione di rotta, rispetto alle tradizionali linee guida che invitavano i bambini a rischio ad astenersi dal cibo proibito, viene imposta dai dati: come confermano anche alcuni scienziati sul New England Journal of Medicine[10], la precoce introduzione di arachidi nella dieta dei bambini predisposti all’allergia riduce dell’81% il rischio di ammalarsi successivamente. Questa ricerca, dal titolo eloquente “LEAP, Learning Early About Peanut Allergy”, nasce da un sospetto: come mai in Israele il rischio per i bambini di diventare allergici alle noccioline americane è dieci volte inferiore rispetto ai coetanei ebrei che vivono in Inghilterra? Stessi antenati, ma tradizioni alimentari diverse. Ai bambini israeliani vengono offerti abitualmente, sin dalla prima infanzia, snack a base di arachidi, al contrario di quanto accade nelle famiglie inglesi. Le strategie di prevenzione sono opposte: vietare l’assunzione o consentire il consumo. To eat or not to eat? I ricercatori di Londra, che hanno annunciato un’altra fase della ricerca chiamata “LEAP-on”, propendono per la prima strada.
Nel caso in cui i risultati dello studio venissero confermati per la più temibile delle allergie, sarebbe legittimo chiedersi quanto un sistema di etichettatura palesemente pensato per tenere il più possibile alla larga gli allergici dai cibi incriminati sia realmente in sintonia con quanto sostenuto dagli scienziati. Qualcuno sospetta che la minuziosa informazione dell’etichetta serva ai produttori di alimenti più per proteggersi da eventuali azioni legali (legittima preoccupazione delle industrie) che per fornire un valido aiuto persone allergiche. Ma gli autori della guida Making Sense of Allergies ritengono che, in attesa di dati più certi sulla pericolosità degli allergeni, il principio di precauzione dell’“over-labelling” sia più indicato rispetto all’“underlabelling”. Un’etichetta che dice troppo sarebbe insomma preferibile a una che dice troppo poco.
Diventa sempre più difficile, a questo punto, rispondere alla domanda di partenza: “Ci preoccupiamo troppo di quel che mangiamo?”.

 

[1] Fiona Sim, “Alcoholic drinks contribute to obesity and should come with mandatory calorie counts”, BMJ, 28 aprile 2015, 10.1136/bmj.h2047.
[2] Royal Society for Public Health, “Increasing awareness of ‘invisible’ calories from alcohol”, novembre 2014, www.rsph.org.uk/en/policy-and-projects/areas-of-work/alcohollabelling.cfm.
[3] www.who.int/mediacentre/factsheets/fs311/en
[4] www.thedrinksbusiness.com/2015/03/diageo-commits-to-calorie-labeling.
[5] British Journal of Nutrition, volume 113, n. 10, maggio 2015, pp. 1652-1663.
[6] www.theguardian.com/lifeandstyle/2015/apr/19/do-we-worry-too-much-about-what-we-eatallergies-
food-intolerance-gluten-free-diets.
[7] www.senseaboutscience.org/data/files/resources/189/Making-Sense-of-Allergies.pdf.
[8] United European Gastroenterology Journal, http://ueg.sagepub.com/content/3/2/105.shortr.
[9] United European Gastroenterology Journal, http://ueg.sagepub.com/content/3/2/105.shortr.
[10] www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1414850.

 
 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo