Il referendum sulle trivelle

*Articolo pubblicato su Left il 3 aprile 2016

 

Domenica prossima, 17 aprile, andremo alle urne per dire sì o no a un quesito referendario che sembra non scaldare i cuori: vogliamo o no abrogare «l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’ … limitatamente alle seguenti parole “per la durata di vita utile del giacimento”»?

Tradotta in italiano corrente, il quesito referendario ci chiede se siamo o meno d’accordo a rinnovare le concessioni alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia nautiche che segnano i confini delle acque territoriali.

Il referendum, proposto da nove Regioni, sta assumendo una connotazione da politique politicienne (pro o contro il governo Renzi) del tutto impropria. Per decidere se e come votare, conviene entrare nel merito della domanda referendaria: come vuole lo spirito della democrazia diretta.

Da questo punto di vista, il tema su cui si chiede agli Italiani di pronunciarsi, anche se tocca due dimensioni strategiche, l’ambiente e l’energia, è abbastanza marginale: le concessioni in questione sono poche, una quarantina, e riguardano, secondo il Ministero per lo sviluppo economico, 135 piattaforme off-shore collocate entro 12 miglia nautiche dalla costa. Tutte insieme queste piattaforme estraggono, ogni anno, 7,6 milioni di tonnellate di petrolio, pari all’1% del fabbisogno nazionale, e 53,7 milioni di metri cubi di gas metano, pari al 3% del fabbisogno nazionale. Il sì o il no al referendum non modificherà in alcun modo la struttura dl sistema energetico nazionale.

Né riguarderà la ricerca e l’estrazione di combustibili fossili oltre le 12 miglia, in acque internazionali. L’argomento secondo con il sì al referendum lasceremmo che altri paesi che affacciano in Adriatico, a partire dalla Croazia, estraggano “il nostro petrolio e il nostro gas” è, pertanto, del tutto fuorviante. Non c’entra nulla col referendum.

Anche dal punto di vista ambientale, il tema è abbastanza marginale. Una storia, ormai lunga quasi un scolo, di estrazione off-shore lungo i mari italiani dimostra che il rischio di un incidente con versamento di petrolio è molto basso. Inoltre la gran parte di queste piattaforme estrae gas, che non comporta un rischio di inquinamento in caso di incidente. Né ci sono prove scientifiche documentate che la gestione ordinaria delle piattaforme provochi danni agli organismi marini. L’unica eccezione rilevante riguarda soprattutto la tecnica dell’air gun, utilizzata per la ricerca di nuovi giacimenti a elevata profondità. Con i suoi spari fortissimi di aria compressa a ritmo incalzante (ogni 5 o 10 minuti), è scientificamente dimostrato che l’air gun disturba gravemente e può causare anche la morte dello zifio (Ziphius cavi rostri), noto anche come “balena col becco d’oca”. Quando sentono i colpi dell’air gun questi cetacei capaci di scendere anche a mille metri i profondità, tendono a salire velocemente in superficie e possono anche morire per embolia. Tra parentesi: i biologi marini dicono di aver scoperto che l’embolia può colpire anche i cetacei abituati a profonde immersioni proprio studiando gli effetti dell’air gun. È probabile, ma non ancora documentato, che gli air gun (e i sonar militari) creino disturbi anche ad altre specie di cetacei. Ma la materia potrebbe (dovrebbe) essere regolamentata, per esempio limitando drasticamente l’uso dell’air gun o consentendolo solo dopo aver verificato che in zona non ci sono zifii o altri cetacei e comunque solo oltre le 12 miglia marine dalla costa.

Non ci sono prove scientifiche definitive di un significativo inquinamento chimico. Addirittura, al contrario di quanto molti pensano, le piattaforme off-shore, soprattutto in Adriatico, hanno un effetto benefico dal punto di vista dell’ambiente marino: perché sono un luogo di concentrazione di biodiversità. Insomma, funzionano come rocce e scogli in un mare altrimenti piatto e fangoso. Intorno alle piattaforme, così come intorno a relitti di navi affondate, si sviluppano piccoli ecosistemi ricchi di flora e di fauna, frequentati, spesso, anche da cetacei. Oasi nel deserto. Naturalmente si potrebbe obiettare che non è necessario una piattaforma off-shore per creare hot spot di biodiversità marina. Ciò non toglie che le piattaforme in sé svolgono più una funzione positiva che negativa per la vita nei mari italiani.

Hanno dunque, torto, i catastrofisti di entrambe gli schieramenti: la vittoria del sì al referendum non determinerebbe né grossi danni economici né significativi miglioramenti all’ambiente marino locale.

Tutto risolto, dunque? Il referendum è semplicemente irrilevante? No. C’è un altro aspetto che pochi considerano. Il referendum poteva essere evitato, ma ormai c’è. E giocoforza il voto, qualunque sia, lancerà una serie di messaggi.  Il più generale riguarda proprio il tema, questo sì strategico, “energia e cambiamenti climatici”.

Non sono passati neppure cinque mesi da quando, a Parigi in occasione di COP 21, la gran parte dei paesi del mondo, Italia compresa, si è impegnata a fare tutto il possibile per contenere il previsto aumento della temperatura media del pianeta ben al di sotto dei 2 °C rispetto all’poca pre-industriale. Per mantenere questo impegno occorrerà che i paesi di antica industrializzazione, Italia compresa, diano seguito al phase out totale abbandonino quasi del tutto i combustibili fossili entro il 2050. Detto in altri termini, in meno di 35 anni, cioè entro domani, dovremo ribaltare il nostro paradigma energetico.

Certo si tratta di un impegno morale e per i trasgressori non è prevista alcuna sanzione. Ma le conseguenze per il pianeta, Italia compresa, sarebbero gravissime, in termini sociali ed economici, se l’impegno venisse meno. Inoltre ci sono gli impegni, questi vincolanti e sanzionabili, presi nell’ambito dell’Unione Europea: abbattere le emissioni di carbonio del 20% rispetto al livello di riferimento del 1990. Questo vincolo lo rispetteremo: siamo già a – 19,7%. Ma per il 2030 il taglio dovrà essere ben superiore, tra il 30 e il 40%, e nel 2050, probabilmente, dell’80-90%.

Si tratta di cambiamenti strategici da realizzare in un lasso brevissimo di tempo. Non c’è tempo e occasione da perdere. Votare sì al referendum del 17 aprile significa lanciare un messaggio a costo quasi zero a noi stessi e al mondo: abbiamo compreso l’urgenza di un cambiamento strutturale della politica energetica e abbiamo iniziato ad agire di conseguenza.