La Grande Pacificazione può garantire la pace?

Intervento di Vittorio Silvestrini nell’ambito dell’incontro “Svuotare gli arsenali, costruire la pace” tenutosi a Città della Scienza il 22 e 23 aprile 2016.

L’idea di realizzare Città della Scienza nacque nel 1987, quasi trent’anni fa. Nacque in occasione del congresso della SIF, la Società Italiana di Fisica, che si tenne quell’anno a Napoli. L’intenzione era quella di cercare di fare in modo che questo incontro fra scienziati depositasse qualcosa anche nella città e non solo per gli addetti ai lavori; e quindi il tentativo di accompagnare il congresso della SIF con un evento di divulgazione scientifica. In effetti nacque quell’anno “Futuro Remoto”; questo era il nome dell’evento, dell’incontro sulla diffusione della cultura scientifica.

Futuro Remoto aveva come sottotitolo “un viaggio fra scienza e fantascienza” e quindi fin dall’inizio è stato volutamente un po’ eretico, o meglio considerato tale dalla comunità scientifica, che molto spesso è chiusa. L’evento fu un grande successo, tanto che si decise di stabilizzarlo. Futuro Remoto divenne così una manifestazione annuale;  e venne poi, quasi subito, l’idea di realizzare una struttura permanente, che è questa – Città della Scienza – che ha oggi tutte le funzioni che erano state concepite fin da allora, all’inizio.

Quello stesso ottobre dell’87, anno della prima edizione di Futuro Remoto, scrissi su Rinascita – la rivista di dibattito culturale e politico di cui, devo dire, sento molto la nostalgia – quattro articoli.

Il primo si chiamava “Con un po’ di fantasia” e teorizzava come la fantascienza, se fatta in maniera rigorosa – cioè assumendo come valide le leggi di natura e cambiando soltanto gli scenari assunti come condizioni al contorno – possa essere usata per fare previsioni sul futuro – naturalmente non in senso deterministico – per esplorare in anticipo la Storia. Per ribadire questa sfida di coerenza fra fisica e fantascienza. Non a caso l’apertura di Futuro Remoto fu affidata a Tullio Regge, che fece una magistrale lezione – “conferenza spettacolo” si chiamava – sulla relatività ristretta, e anche un po’ su quella generale.

Il secondo e il terzo di questi quattro articoli  riguardavano le prospettive del sistema energetico. Li riprenderò fra un momento perché buona parte di quel che dirò si ricollega con questi articoli.

L’altro, il quarto, era titolato “C’è un’alternativa al modello settentrionale”. Noi siamo,  come sapete, a Bagnoli; qui c’erano industrie siderurgiche che davano lavoro a circa 20.000 persone. In quel momento l’area ex-industriale di Napoli era in dismissione. Due tre anni più tardi furono infatti chiuse le fabbriche e si apriva allora il dibattito su cosa fare al loro posto, un dibattito che, ahimè è ancora oggi attuale. Allora, chiamando modello settentrionale il modello basato su industrie pesanti, divoratrici di risorse territoriali, divoratrici di energia, divoratrici ad alta intensità di materia, cosa sostituire a questo che comunque – secondo noi e poi come dimostrato dai fatti – aveva un futuro breve e incerto? cosa fare al posto di questo, che potesse invece, creando una discontinuità, guardare al futuro come un futuro sostenibile, un sistema di produzione, di alimentazione dell’economia che fosse coerente con quelli che cominciavano ad essere già allora i vincoli di sostenibilità senza i quali non c’è futuro?

Veniamo dunque a cosa poteva essere – detto in estrema sintesi – il modello che noi proponevamo per il mezzogiorno, un modello, appunto, alternativo al modello settentrionale. Doveva essere basato su alta intensità di pensiero, di sapere, di scienza, basso contenuto di materia e di energia e ancora alto contenuto di innovazione. Quindi un modello che era decisamente di rottura rispetto a quello che si andava dismettendo in quel di Bagnoli.

Perché era necessario questo? perché era necessaria questa rottura, questa discontinuità fra passato e futuro? Perché – tornando al sistema energetico e agli altri due articoli – estrapolando a un futuro prossimo, anche di poche decine di anni, i consumi energetici e l’impatto ambientale del sistema energetico quale era in quel momento, incombente sarebbe stato il pericolo di un’economia incapace di sostenersi e di sostenere una società avanzata. Quindi si individuava questo modello alternativo, che richiedeva sapere scientifico, ma un sapere scientifico funzionale allo sviluppo, tale cioè da diffondere intorno a sé il patrimonio acquisito a vantaggio della società, e non soltanto nell’ambito degli specialisti.

E quindi questo scenario di sostenibilità imponeva la presenza di strutture come questa, la nostra Città della Scienza, che facesse della diffusione della cultura scientifica, della diffusione di questa preziosa risorsa strategica, la sua missione.

L’anno dopo, nell’88, dedicammo in effetti Futuro Remoto, la seconda edizione, completamente e soltanto al sistema energetico, ad analizzare le possibili connotazioni del sistema energetico nel suo complesso; e nacque così in quell’anno un concetto – che noi producemmo e che poi fu assunto come proprio da moti altri – che era quello di misurare il sistema energetico in termini di uomo equivalente. Cioè in termini di consumo energetico e conseguente capacità di lavoro. Secondo questa equivalenza, una macchina che consumasse un litro di gasolio, sarebbe equivalente a circa tre uomini-giorno, cioè sarebbe capace di fare tanto lavoro quanto ne fanno in un giorno tre operai, in termini naturalmente di lavoro fisico. Facendo la proporzione risultava che il numero totale di schiavi meccanici a disposizione dei cittadini dei paesi industrializzati, in base all’equivalenza tra consumo di energia e capacità di lavoro, equivalesse a circa 100 miliardi di anime. E quindi grazie al prolungamento dell’uomo, in termini di capacità di lavoro, di consumi energetici, di impatto ambientale, l’impatto complessivo era sostanzialmente equivalente a quello generato da 100 miliardi di persone; il che poneva evidentemente qualche problemino; perché se è vero da un lato che il consumo energetico era tale da non essere sostenibile, però è vero anche che probabilmente avere 100 operai al proprio servizio per ognuno di noi cittadini dei paesi industrializzati, fosse un lusso che non potevamo sostenere. E quindi era obbligato il passaggio di chiederci cosa ce ne facessimo di tutta quell’energia.

E il discorso venne fuori in base all’analisi molto ovvia che questa ridondanza di forza lavoro, di  consumi, fosse in realtà finalizzata non a incrementare la qualità della vita, né tantomeno a incrementare la qualità della vita nei paesi al di fuori del ristretto numero dei paesi industrializzati forti. Questi schiavi finivano utilizzati per lussi inutili e anzi anche dannosi per la qualità della vita. Basta un esempio: consideriamo un’automobile tipica, un SUV utilizzato diffusamente per il traffico cittadino, che una signora bene usa per portare i ragazzini a scuola. Una macchina che ha un motore come minimo da 200 cavalli (il che significa che è equivalente a una carrozza trainata da 200 cavalli che ciascuno di noi pretende di usare per muoversi in città). È chiaro che si tratta di  un lusso che non aiuta la qualità della vita della comunità e non dà neanche qualche beneficio reale agli stessi autori di tale scelta. Per muoversi in città basta un veicolo leggero con un motore da mezzo cavallo, e arrivati a casa lo si può piegare e parcheggiare in guardaroba.

Quindi risparmiando si andava a star meglio, non a stare peggio. Questo discorso si poteva estendere a tutti i settori, ridimensionando i consumi energetici quanto era possibile ridimensionarli rinunciando solo ai lussi inutili, anzi dannosi. Si poteva concepire un sistema energetico sostenibile mediante un progressivo accesso alle fonti rinnovabili e quindi attraverso un sistema che vedesse non la dissipazione di risorse ma la rigenerazione e la valorizzazione delle risorse. La sostituzione di quello che era stato chiamato “modello settentrionale” con il “modello sostenibile” richiedeva una revisione critica della scala dei valori. Il prezzo, il valore monetario che si dà alle cose, agli oggetti, ai servizi deve essere commisurato all’effettivo beneficio, all’effettiva sua ricaduta in termini positivi e non piuttosto dettato dall’economia di mercato liberista, estrema e senza alternativa – essendo in qualche modo decaduto il bipolarismo est/ovest – che aveva connotato per alcuni decenni lo sviluppo. Passato, infatti, questo bipolarismo che costringeva comunque a un confronto tra due modelli ideologicamente molto diversi, andando a scomparire uno dei due poli, si lasciava via libera all’unico criterio usato per fare le scelte, che è quello dei consumi crescenti. E quindi toglieva ogni spazio all’utopia necessaria e possibile di un sistema basato sulla produzione di tasselli della qualità della vita.

Questo scenario che ho appena tratteggiato, l’adozione del modello basato su consumi crescenti come pre-condizione per la convenienza da parte dell’investitore – che è motivato soltanto dal profitto e non dalle ricadute sulla qualità della vita – questo spostamento avveniva intralciando anziché favorendo la svolta che pure era necessaria, perché lo scenario in continuità con il passato era tale da prefigurare un futuro di breve respiro. L’alternativa fatta come esercizio di previsione ci portò in quegli anni, sto parlando degli anni a cavallo degli ultimi anni ’80 primi anni ’90, ad immaginare quella che noi chiamammo “la Grande Pacificazione”.

La Grande Pacificazione era uno scenario fantascientifico ottenuto proiettando al futuro il modello settentrionale; la linea di confine su cui si scaricano le tensioni prodotte dalla non sostenibilità del modello di sviluppo  – che era stato un confine est-ovest, la cortina di ferro – ruotava di 90° e diventava il confine tra nord e sud del mondo; un muro che divideva due civiltà diverse dal punto di vista economico e dal punto di vista dei valori. E allora per realizzare la sostenibilità l’unica possibilità aritmetica, in termini di rapporto fra consumi e risorse, era quella che si configurava in questo racconto di fantascienza come un processo – messo in atto dai paesi industrializzati, i paesi dell’emisfero nord, i paesi boreali – che eliminava semplicemente gli abitanti del sud del mondo, li riduceva a pochi milioni di anime anziché alla metà della popolazione mondiale, e quindi trasformava il sud del mondo nel giardino del mondo dove i boreali andavano semplicemente a far vacanza; però non rompevano le scatole in termini di consumo, né in termini di risorse ambientali, dal momento che il giardino del mondo era affidato alle cure degli australi.

Naturalmente si trattava solo di esercizi di fantasia. Però se uno guarda quello che sta succedendo in queste settimane, in questi mesi, in questi anni, era sì un gioco di fantasia ma era anche un esercizio di estrapolazione dei pericoli. Ecco perché i muri non possono essere individuati come strumento per mantenere la pace nel mondo; un siffatto sistema avrebbe generato reazioni, attenuatosi comunque il bipolarismo e l’epoca della deterrenza nucleare e di questo come pacifisti e come persone consapevoli avremmo dovuto tener conto. Simmetricamente all’abbattimento del muro est-ovest, sarebbe stato necessario erigere dei muri sui confini tracciati a dividere il nord dal sud.

Dunque la pace poteva essere perseguita soltanto attraverso una modifica profonda del ruolo dei vari popoli e attraverso l’equilibrio in termini di disponibilità delle risorse, in termini di qualità della vita; senza un riequilibrio non ci sarebbe stata la pace. E quindi, per essere pacifisti, secondo le previsioni e secondo quanto constatiamo oggi, non basta più occuparsi di disarmo – che pure è la pre-condizione obbligata, le armi non devono servire a niente, devono essere non motivate in assoluto – non basta eliminare le armi; occorre eliminare le discontinuità in termini di qualità della vita. E allora torna di nuovo il perché delle scelte che avevamo fatto progettando Città della Scienza che, per come è nata, per i suoi principi fondanti, è una struttura al servizio della pace.