referendum e dintorni. Verso il 17 aprile

Ho sempre sostenuto che il referendum, anche se solo abrogativo – come nel caso italiano – è e resta uno straordinario integratore di democrazia, e forse l’unico strumento di partecipazione diretta dei cittadini al processo legislativo e decisionale. Sotto tale profilo, da utilizzare con senso di responsabilità, ma altresì con coscienza e anche con un pizzico di orgoglio. Ai Costituenti era parso che in presenza di una solida rete partitica in grado di raccordare governati e governanti, rimessa in piedi e rafforzata dopo il ventennio fascista e l’era del partito unico e dell’uomo solo al comando, potesse bastare ai cittadini, accanto alla leva costituita dalle eventuali leggi di iniziativa popolare, fruire della facoltà di cancellare o confermare in parte o del tutto quanto deciso dal legislatore, attraverso appunto, i referendum. Sicché mi sembra cosa buona e giusta segnalare che oggi più che mai serve la pronuncia diretta da parte dei cittadini in rotta, ormai, con la politica tradizionale, ma soprattutto che ciò massimamente deve praticarsi pienamente in un paese, come il nostro, in cui grazie ai referendum, come espressione diretta e autonoma del popolo, è nata la Repubblica e si sono conquistati nel tempo diritti di fondamentale rilievo (divorzio e aborto, ad esempio), o sono stati bocciati disegni di riforma costituzionale a dir poco avventati, negli anni berlusconiani.

In questa sede, non scrivo per dire come la penso e come mi regolerò il prossimo 17 aprile, ma per sottolineare l’importanza di un evento-strumento, o forma-funzione quale è il referendum, attorno al quale so  bene annodarsi vari piani di discorso.

In primo luogo, la sostanza specifica rappresentata dalla questione affrontata nel quesito; quindi, il peso politico aggiunto dato dalla traduzione della risposta popolare nei termini di appoggio, consenso, condivisione, oppure di contrarietà e rigetto, rispetto all’operato del governo di turno; infine, il punto di merito e di metodo cui mi sono riferito in generale all’inizio della presente nota. Insomma, alla luce di tutto quanto detto, ai cittadini andrebbe sempre e solo suggerito, in occasioni del genere, di esercitare appieno questo loro sacrosanto diritto, e di pronunciarsi con un si , o con un no. Mai invitarlo, invece, a stare alla larga dalle urne, perché offensivo e umiliante indurlo ad inficiarne la validità non andando a votare. In questo caso, non saremmo di fronte al «voto di chi non vota», come ad esempio quando è in gioco il suffragio politico-partitico; per il referendum si tratterebbe di furbizia di bassa lega, del genere del marito che si taglia gli ‘attributi’ per fare dispetto alla moglie, secondo il detto popolare forse un po’ pesante, ma espressione della saggezza racchiusa in un proverbio, in un modo di dire. E concludo, pertanto, ricordando a tutti che la miglior cosa è recarsi al voto dopo aver ben ponderato e dire si se si vuole eliminare quel punto della legge che consente la proroga, oltre i termini stabiliti, di trivellare il fondo marino, e dire no se invece si ritiene sensato e regolare accordarla, anzi averla accordata. In ogni caso, alle urne, alle urne!

 

L’articolo è apparso su La Repubblica Napoli del 12 aprile 2016