Né gourmet né junk, elogio del cibo medio

Il verbo più usato e abusato degli ultimi decenni è senza dubbio consumare, che vuol dire portare a compimento o distruggere. Siamo partiti dal consumismo, negli anni Ottanta, per arrivare al consumatore, ovvero colui che consuma.

Un termine che abbiamo esteso anche all’acquirente dei cibi: anche chi si nutre, mentre si nutre, è un consumatore, ottenendo con questa scelta terminologica il doppio risultato di equiparare il cibo alle altre merci e soprattutto di sostituire l’azione, bellissima, del nutrirsi per crescere, del mangiare per vivere e per star bene, e magari trarne anche gioia e godimento, con l’azione fredda, neutrale, pessimista e soprattutto negativa del consumare. Che poi vuol dire appunto distruggere, far sparire, cancellare.

Ma se l’etimologia è la ricerca del vero, allora consumare non è il verbo giusto, soprattutto se ci si riferisce ai beni alimentari. Dobbiamo cambiarlo. C’è infatti un verbo assai più appropriato: fruire. Fruire un bene è assai diverso dal consumarlo, portandolo a termine (altro significato di consumare). Fruire vuol dire godere, soprattutto nel senso di avere, giovarsi di qualcosa o averne la disponibilità. Perfetto per il cibo – peraltro si accosta al latino fructus, frutto – perché la fruizione si lega alla disponibilità e anche, in definitiva, a un diritto: fruire vuol dire infatti trarre giovamento da qualcosa avendone diritto. Il diritto al cibo, come ho cercato di spiegare altrove, “buono e giusto” deve essere non solo riconosciuto – come è di fatto nella Carta dei diritti umani – ma anche garantito. Del resto, il cibo deve soddisfare un bisogno fondamentale dell’uomo, non un desiderio. Alimentarsi bene, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, deve essere un diritto garantito. Per questo il cibo deve essere fruito e non consumato.

 

Le stagioni del cibo

Negli anni Ottanta e Novanta spopolava il culto del panino, del fast food, del cibo come bisogno da soddisfare il più velocemente possibile. Insomma, il cibo era esattamente come tutto, ma proprio tutto, il resto in quegli anni.

Una tendenza durata fino quasi a metà degli anni Zero. Gli anni Dieci hanno stravolto il sistema e ribaltato il tavolo. Sono arrivati in massa i cuochi, anzi gli chef, e i programmi di cucina, le sfide ai fornelli, al paio con gli orti urbani, le piantine sul balcone, la voglia di fare da soli, la voglia del poco ma buono, anzi buonissimo, anzi di più: biologico.

In verità per i costi che ha, una produzione biologica sarà sempre di nicchia, se non cambieranno le cose. Il motivo è il prezzo del prodotto finale, che va necessariamente tenuto alto per poter ripagare una produzione complessa. Il passaggio a scala più grande non si fa dall’oggi al domani. E nel frattempo? Nel frattempo si mangia, si deve mangiare. Ma nelle pause pranzo degli italiani quasi mai c’è di mezzo uno chef, e penta-stellato meno che mai. E nemmeno sulle tavole di tutti ci può essere un pasto biologico, almeno non tutto biologico, almeno non sempre biologico.

 

In medio stat virtus

La verità è che in medio stat virtus, massima latina che vale più o meno per tutto, e il cibo non fa eccezione. Non sarebbe meglio trovare la giusta via di mezzo tra la soddisfazione e il prezzo, tra la praticità e la qualità? Ci sarà un compromesso tra fast e slow? Una velocità media. Un cibo di media andatura. Stavamo andando nella direzione sbagliata, questo è certo: ciò che mangiavamo non era, semplicemente, come qualsiasi altro prodotto di consumo, appunto. Ma forse sarebbe sufficiente correggere la rotta invece di tirare il freno a mano e saper discernere tra la strada sbagliata e la frenata brusca, il cibo medio: che sta tra il gourmet sanissimo-buonissimo-giustissimo e il cibo spazzatura. O anche tra gli affamati e gli obesi. A proposito di questi va detto che oggi si parla solo di estremi, il resto – che è tanto – non fa neppure notizia. Ciò senza considerare che mangiare troppo poco o troppo in ogni caso è malnutrizione, cioè mala nutrizione, cioè mangiare male: per difetto o per eccesso.

Siamo fin troppo pieni di nicchie di prodotti sani, puliti, giusti. E oltremodo costosi. Portiamo avanti pratiche encomiabili (lo faccio anch’io) come quelle del chilometro zero, del biologico integralista e del “fatto a mano”, con tutti i crismi di una volta. Ma la considerazione, il dato vero, è che il cibo medio, nel senso di non troppo alto e non troppo basso in termini di qualità e di quantità, rappresenta l’unica speranza per sfamare dignitosamente il mondo. Capisco che dirlo non è popolare. Ma è così.

 

Meglio medio che popolare

Il mio concetto di cibo medio, né troppo né troppo poco dal punto di vista quantitativo, è anche nel senso di equilibrato, giusto ed equo. Rispetto a popolare, l’aggettivo medio mi pare più corretto, più comprensibile: rappresenta meglio quei beni alimentari che stanno sotto le nicchie di alta qualità ma ben sopra il cibo spazzatura, che invece dobbiamo respingere come la morte perché porta proprio alla spazzatura. Cerco di spiegarmi. Posto che anche i più accorti di noi non possono nutrirsi di solo biologico e a chilometro zero – e a questo proposito andrebbe anche ricordato che il chilometro zero offre due svantaggi: toglie le braccia di quell’agricoltore dal lavoro nei campi per molte ore, costringendolo a pensare anche alla distribuzione e alla vendita, oltre che alla produzione, e soprattutto non gli permette di agire sulle quantità per rendere il suo lavoro economicamente remunerativo – il che sarebbe impossibile almeno nel breve periodo anche in questa parte di mondo, ci si è chiesto cosa affolla i nostri frigoriferi? Si tratta in larga parte di cibi prodotti, correttamente, dall’industria alimentare. Correttamente nel senso che corrispondono a determinati parametri di qualità e magari – se lo abbiamo selezionato ponendo un minimo di attenzione alle etichette e alla provenienza – con un’attenzione più alta nei confronti delle materie prime. È questa la via: una industria alimentare sempre più attenta che, diretta dalle scelte di un fruitore sempre più consapevole e accorto, sappia collocarsi in una posizione di mezzo tra i due estremi dell’impresa alimentare e la grande distribuzione da un lato e dell chilometro zero e il piccolo agricoltore dall’altro.

E poi noi abbiamo già una dieta media, quella mediterranea: il “mare in mezzo alle terre”, il mare medio come la sua dieta che vuol dire, dall’etimo greco, “stile di vita”.

Il fatto è che non la mettiamo in pratica, a parole sì ma nei fatti no.

 

Dal buono al vendibile

Quando si inizia a quantificare lo spreco, il primo mito che ci si trova a sfatare, dati alla mano, è quello secondo il quale i più attivi a sprecare siano i supermercati: non è così. I numeri dimostrano che la grande distribuzione ha soltanto le quantità dalla sua parte, ma di certo non le proporzioni. In un supermercato italiano medio lo spreco di cibo si attesta assai meno che sull’uno per cento del totale, siamo allo zero virgola. In un campo o in un’azienda agricola la percentuale schizza già attorno al tre per cento. Dati, in certa misura, fisiologici. Ma lo spreco principale avviene nelle nostre case: ogni famiglia butta via in media due etti di cibo a settimana. Fa quasi un chilo al mese.

Eppure gli anticorpi per sconfiggere lo spreco, fino a qualche anno fa, erano insiti nella nostra cultura, facevano addirittura parte di quel sostrato di valori altissimi e di importanza vitale che si tramandavano di padre in figlio: il pane non si butta. Nelle nostre case, in ogni casa, solo qualche decennio fa, non soltanto non avvenivano sprechi di nessun tipo ma era addirittura impensabile che potesse accadere. Così le croste del parmigiano finivano a insaporire il brodo, gli avanzi del pranzo si trasformavano in cena, la pasta in eccesso diventava frittata, il pane duro serviva per le polpette o per la panzanella. E soprattutto non esistevano date di scadenza: assaggiavamo i cibi e, finché erano buoni, li mangiavamo. La cultura dello scarto, del rifiuto, è arrivata insieme al consumismo e alla possibilità di poter rifiutare tutto ciò che non rispetta determinati parametri imposti dal sistema di vendita, anche estetici. Abbiamo sostituito il concetto di buono, o ancora buono, con quello di vendibile o non vendibile e abbiamo finito per credere che, quando una busta sigillata si scalfisce, quel cibo si possa contaminare con chissà quale virus o altro microscopico pericoloso ospite. E soprattutto, insieme ai commercianti che affondavano le mani nei sacchetti di legumi per darcene esattamente quanto ce ne serviva, si è perso il concetto stesso di “quanto basta”. Le confezioni sono già dosate: se consumiamo 70 grammi di un cibo non c’è speranza di acquistarne la quantità giusta. Dovremo prenderne 300 grammi e sperare poi di consumarlo. Oppure ne mangiamo quanto basta e il resto, dopo qualche giorno in frigo, lo buttiamo nella pattumiera.

 

La metafora della pattumiera

La pattumiera è diventata la metafora della nostra società tanto che, a un certo punto, c’è stato come un transfert sulla società stessa e sulle parole. Chi sono i poveri? Scarti della società, pattumiera sociale. Persone non più buone, non più in grado di mantenersi ancora sane. E dove vanno, perciò, gli scarti alimentari? Nella pattumiera o al limite alla mensa dei poveri, ad alimentare quei rifiuti della società. Abbiamo esteso il concetto di diversità, di alterità del prodotto anomalo ma buono, del pacco di pasta non più vendibile perché danneggiato eppure ancora buono, all’uomo che la società non accetta più perché non è più in grado di rispettare determinati canoni come lavorare, lavarsi e vestirsi bene. È il rifiuto del rifiuto: l’estensione del concetto dalle cose alle persone.

Allo stesso modo di come hai paura che lo yogurt ti faccia male un giorno dopo la scadenza, hai paura che il barbone ti sporchi, sei convinto che sia meglio buttarlo in un centro piuttosto che vedere se c’è in lui ancora qualcosa di buono. Ci siamo abituati alle battaglie perse prima ancora di giocarle perché tanto il mondo è sempre più pieno di cibi e persone perfettamente integre.

 

In principio fu un supermercato

In principio fu un supermercato. Anzi, fu il magazzino di un supermercato: stracolmo di merci non vendibili. Di scarti. Sacchetti di arance con una sola ammuffita, confezioni da quattro cachi con uno solo troppo maturo. Scatole di biscotti, di pasta, lattine un po’ ammaccate, yogurt scaduti il giorno prima. Allora è nata la ricerca Last Minute Market, diventata poi spin off dell’Università di Bologna.

Last Minute Market non è un ente solidale. Il suo compito non è mai stato soltanto quello di promuovere il recupero di cibi invenduti nei supermercati per portarli alle mense dei poveri. In molti lo fanno, con esperienza pluridecennale, come Caritas o Banco alimentare, ed è giusto affermare che queste realtà hanno ancora un ruolo essenziale nella nostra società.

Last Minute Market si è posta su un piano del tutto differente: economico ed ecologico prima di tutto, dimostrando che si può coniugare sostenibilità economica e ambientale con solidarietà (che è poi la sostenibilità sociale). Il livello sul quale si interviene è antecedente alla mensa dei poveri: ci si rivolge a noi per mettere in piedi la rete di recupero fra donatori, beneficiari e controllori, le Asl essenzialmente. L’ottica è quella di far risparmiare tutti, in particolare chi dona e chi riceve, ma anche di fare prevenzione riguardo agli sprechi alimentari. Chi ci contatta, insomma, è un cliente, a cui noi, dopo una analisi attenta, consigliamo come fare a recuperare il cibo e i prodotti non più vendibili facendo in modo che quell’eccedenza si trasformi in un risparmio. E in un’offerta solidale per un ente, un’associazione o un destinatario che, da par suo, è portavoce qualificato di una domanda. Parliamo di enti caritativi senza fini di lucro che forniscono cibo agli indigenti.

Il valore aggiunto che ne deriva è l’assenza di un costo di smaltimento, fatto di tante voci: tassa sui rifiuti, costo del trasporto fino all’isola ecologica, risorse umane e forza lavoro da impiegare per farlo, e spazio, che questi rifiuti occuperanno in magazzino prima del conferimento.

Ai venditori basterà avere l’accortezza di conservare correttamente i prodotti rimasti invenduti in modo che, nel frattempo, non vadano a male. Dopodiché un addetto dell’ente ricevente adeguatamente formato da noi arriverà a ritirarlo. È un sistema winwin: un gioco in cui tutti vincono.

 

Infine il cibo… paradossalmente

Paradosso globale: adottiamo bambini che, dall’altra parte del mondo, muoiono di fame e buttiamo ogni giorno nel pattume chili e chili di cibo ancora buono, ottenendo un doppio risultato negativo: sprecare il denaro con cui lo abbiamo acquistato e produrre tonnellate di spazzatura il cui smaltimento poi pagheremo a caro prezzo. Intanto i più poveri mangiano cibo spazzatura: junk food lowcost, cibo spazzatura a basso prezzo.

Paradosso estetico: si spende più per calare di peso che non per mangiare.

Paradosso tricolore: noi italiani abbiamo un pessimo rapporto con il cibo, sebbene il nostro Paese sia dotato di un patrimonio agroalimentare che non ha pari nel mondo: nel senso di ricchezza e biodiversità colturale e culturale.

All’estero tutti vogliono prodotti italiani – è l’Italian sounding, spaghetti, tortellini, lasagne, parmigiano, aceto balsamico e via andare – ma noi stessi mangiamo male in casa nostra. Non siamo (più) in grado di riconoscere l’oro che abbiamo nel piatto. Ci complessiamo davanti a una tavola imbandita di cibi genuini, magari in un consesso di amici, per poi concederci scappatelle quotidiane al distributore automatico del nostro ufficio, in settimana.

Paradosso etnico-modaiolo: se vogliamo mangiar bene, perché rifugiarci in costose nicchie del cibo biologico, del vino biodinamico, della pizza al kamut, quando poi questi prodotti incideranno di uno zero virgola sull’economia del nostro nutrimento settimanale? È possibile essere continui e coerenti? O dobbiamo spingerci verso regimi alimentari sempre più estremi: vegetariani, vegani, crudisti, macrobiotici? Sono mode, tendenze o cosa?

Paradosso dello spreco alimentare: evitare di sprecare ci aiuta per contrapposizione, recuperare il cibo significa coglierne i valori. Non soltanto economici e ambientali, anche quello economico. Il cibo non è una “cosa” o una merce qualsiasi, non si rottama, non si rigenera né sostituisce.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.23/24 – “Il cibo e/è l’uomo