Trivello o non trivello? Questo non è il problema

Ma tu vai a votare? Ma tu come voti? Mi chiedono alcuni di quelli che conoscendo la mia storia credono che un mio “pronunciamento” sia in grado di orientare verso il sì o il no gli indecisi per il prossimo referendum sulle trivellazioni petro-metanifere.

Credo fermamente che la cosa e il problema che la determina non si risolvano con un sì o con un no specialmente se “orientati” e non frutto di una personale e consapevole scelta. Consapevolezza che può essere solo il risultato della esatta conoscenza della situazione con particolare riguardo alle fonti di energia, e all’impatto della loro trasformazione per il soddisfacimento dei quotidiani bisogni.

Il punto di partenza che vale per la Campania come per l’intero Paese è che l’Italia è fortemente dipendente dalle importazioni dall’estero di combustibili fossili (petrolio, metano, carbone) la cui trasformazione in energie secondarie (elettricità, benzina eccetera) consente di far funzionare le industrie, le abitazioni, gli uffici, le scuole, le Università, e di climatizzarne gli ambienti; di far muovere  i mezzi di trasporto su terra, mare, cielo.

Tutto questo avviene come se fossimo un emirato arabo o un Paese del nord-Africa o del Mar dei Caraibi o del Mare del Nord. Per farla breve ci siamo sempre comportati come se avessimo in casa tutte le fonti di energia necessarie.

Che non fosse così ce ne siamo accorti almeno in due occasioni, sempre aventi per origine il conflitto arabo israeliano: nel 1956 e nel 1973-74. In entrambi i casi ci si accorse che la dipendenza dall’estero era anche politica e che se qualche Paese non proprio amico avesse voluto non ci avrebbe fatto avere nemmeno una goccia di petrolio o un metro cubo di metano. Si scoprì anche che l’Italia non solo manca di proprie fonti di energia, ma anche di un Piano energetico che si ponesse il problema. Mai c’è stato e non c’è tuttora. Perciò tutte le chiacchiere sul sì e sul no ad un quesito referendario che, a mio parere,  non affronta il problema per il verso giusto lasceranno irrisolto il problema quale che sarà l’esito del referendum.

L’altro punto di partenza deve essere la conferenza di Parigi sui mutamenti climatici e sull’impegno (su base volontaristica, peraltro) di impedire l’incremento della temperatura terrestre oltre i due gradi centigradi. Se di questo impegno che anche l’Italia ha contribuito a firmare si vorrà fare una regola di vita, allora il problema non è se e per quanto tempo trivellare in mare o in terra alla ricerca di idrocarburi, ma trasformare con la necessaria, ma impellente, gradualità quelle che oggi si devono chiamare risorse integrative in risorse alternative: solare ed eolico innanzitutto. Ma non solo. Perché la risorsa risparmio tarda ancora ad essere utilizzata. E non necessariamente come cumulo di sacrifici, ma innanzitutto come lotta agli sprechi.

Un conto è presto fatto.  Fatto uguale a cento il totale dei fabbisogni, questi si possono attribuire per un 30 per cento alla produzione industriale, per il 30 per cento agli usi domestici, per il 30 per cento ai trasporti, per il restante 10 all’agricoltura. Quest’ultima da quando è stata “inventata” 12.000 anni fa campa di sole e di sole si nutrirà per sempre; l’industria può (ed è) sempre meno energivora; gli usi domestici possono abbattere quasi del tutto il ricorso ai combustibili fossili utilizzando il solare in tutte le manifestazioni che il recente sviluppo tecnologico consente. Restano i trasporti che al momento e ancora per qualche tempo possono più lentamente liberarsi dalla dipendenza dagli idrocarburi e potranno farlo per il tempo necessario anche utilizzando la quantità di risorse fossili messe a disposizione dal risparmio negli altri settori.

Qualche anno fa, ricordando gli avvertimenti del MIT e del Club di Roma, si discuteva sull’avvicinarsi della data in cui il petrolio avrebbe raggiunto un picco di disponibilità (2020) dal quale decadere verso l’esaurimento, come è nell’ordine naturale per una risorsa non rinnovabile in tempi storici. Oggi il brusco precipitare del prezzo del barile e il tentativo statunitense di ricavarne dalla frantumazione delle rocce bituminose sembrerebbero allungarne la vita non si sa sino a quando.

Se così fosse questa non sarebbe una buona notizia perché non incentiverebbe la ricerca e le azioni necessarie per raggiungere i risultati concordati a Parigi. Il petrolio (gli idrocarburi in genere) ha avuto un ruolo di eccezionale importanza nella più recente storia dell’umanità, ma se l’uso e l’abuso che se ne è fatto ha provocato l’accumulo di gas serra in atmosfera e ha contribuito a dare origine ai mutamenti del clima di cui ci si lamenta, occorre voltare pagina e puntare su fonti sempre più pulite e meno negativamente impattanti sull’ambiente nel quale viviamo.

L’obiettivo è il 2100 ed è il caso di dire. chi vivrà vedrà.

Intanto mi sembra più che mai opportuno allargare la riflessione agli aspetti del problema che vanno al di là del quesito referendario.

Fermo restando che, quale che sarà  il risultato non si risolverà in questo modo il problema delle fonti di energia in Italia; fermo restando che, molto verosimilmente, non si raggiungerà il quorum per rendere validi i risultati del referendum, ma che la stragrande maggioranza dei votanti voterà sì; è anche verosimile che al Governo, e non solo, qualcuno farà notare che, comunque, la volontà di un rilevante numero di votanti va tenuta in considerazione. Anche perché, come ha scritto Giorgio Nebbia si tratta di giacimenti in via di esaurimento. Cosa che va ricordata anche nel dibattito degli idrocarburi in Basilicata dove, nota ancora Nebbia, il giacimento ENl produce 3 milioni di tonnellate all’anno e durerà pochi anni; quello Total produrrà, se mai, due o tre milioni di tonnellate all’anno e anche quello durerà pochi anni.

Se così sarà mi sembra, comunque, utile trarre vantaggio dall’occasione offerta dal referendum e dal dibattito tra i sostenitori del sì e del no per affrontare concretamente e finalmente il problema di un piano delle fonti di energia che provi a pianificare l’incontro tra domanda ed offerta nel medio-lungo periodo.

E farlo con la correttezza e lungimiranza che l’argomento merita, prescindendo da quanto si può ricavare dalle scelte in termini di consenso politico e di vantaggio economico.

Per cominciare bisogna partire ricordando che anche su questo tema non esiste rischio zero.

Sono ormai anni che anche in Italia cresce e si diversifica la quantità di fonti non ancora alternative, ma sempre più integrative dei combustibili fossili. Sono rinnovabili e più pulite, ma il terrore corre sul filo. Nel senso che c’è, comunque, diffusa la paura del rischio che ognuna di queste trasformazioni può produrre all’ambiente e a cittadini, animali, paesaggio. Se è così come è possibile difendersi. Se sì, come e a quale prezzo anche in termini di costo economico? Per cui l’altro aspetto della domanda diventa: “c’è un rischio accettabile?” Ce n’è uno di numero o c’è un livello di accettabilità rischio per rischio? Per esempio, che cosa significa No risk, no energy?

Significa che non esiste produzione di energia che non abbia la probabilità di alimentare un rischio per la popolazione, per gli animali, per l’ambiente in generale. Dunque, se non esiste rischio zero bisogna anche fare scelte su quali rischi valga comunque la pena di correre dati gli obiettivi che si intende raggiungere e dei quali non si ritiene di poter fare a meno.

È proprio questo il concetto di rischio accettabile, in parole molto semplici: si vuole altra e più energia (o più un’altra cosa)? E allora bisogna anche fare i conti col rischio che ciò comporta: a noi valutazione e scelta. Perché, non va assolutamente trascurato che parlare del futuro dell’energia significa parlare non solo di tecnologia ma anche di ambiente, economia, finanza e società.

Occorre dunque fare una graduatoria dei rischi legati alla produzione e trasformazione delle fonti di energia; individuare e proporre il rischio/ i rischi accettabili. Tenendo comunque conto che diversificando le fonti si riduce il rischio totale. E la diversificazione, va intesa anche con variazioni del mix di sorgenti da regione a regione (o da nazione a nazione).

Proprio nel senso di queste ultime considerazioni la Campania è molto avanti nel settore della ricerca di soluzioni in corso di realizzazione in AMRA la Società di Analisi e Monitoraggio del Rischio Ambientale che da anni si è affermata a livello internazionale sui temi propri del suo acronimo.