Evoluzione della pace: un aggiornamento della carta di Siviglia

L’ intervento di Telmo Pievani, sull’aggiornamento della Carta di Siviglia, nell’ambito dell’incontro “Svuotare gli arsenali, costruire la pace” tenutosi a Città della Scienza il 22 e 23 aprile 2016.

 

Grazie Pietro e grazie a tutti voi,

oggi la mia breve presentazione è legata a un progetto particolare della Fondazione Umberto Veronesi per il Progresso delle Scienze.

Faccio parte del Comitato Etico di questa charity, una fondazione che si occupa principalmente di raccolta di fondi per la ricerca biomedica e in particolare in campo oncologico, coerentemente con la storia del suo fondatore.

Science for Peace è un progetto che si è concretizzato finora in otto edizioni di un convegno internazionale. Si svolge ogni anno a Milano, nel mese di novembre, nella sede della Bocconi, e nasce proprio da un’idea personale di Umberto Veronesi, discussa poi principalmente con Emma Bonino, con Alberto Martinelli e con altre personalità. Si tratta quindi di un incontro tra competenze di rilievo internazionale che hanno deciso di costruire questo evento di raccordo, di incontro, tra persone da tutto il mondo con un alto profilo istituzionale, ma anche di scienziati e addetti ai lavori.

Il tema del 2016 dell’ottava edizione è molto vicino a quello del convegno di oggi qui: è il tema del momento, e anche la Fondazione ha deciso di dedicare questa edizione alle migrazioni e ai conflitti che ne possono derivare.

L’idea fondamentale da cui nasce Science for Peace è stata sintetizzata da Umberto Veronesi in tre principi che io come filosofo della scienza enucleo in questo modo: 1) la scienza come linguaggio universale e trasversale alle culture, da cui l’idea di costruire reti di scienziati che permettano di superare confini, pregiudizi e conflitti (per esempio alcune sessioni sono state dedicate a progetti congiunti di scienziati israeliani e scienziati palestinesi); 2) la scienza come occasione per sviluppare soluzioni innovative per combattere le disuguaglianze e i conflitti, che sono la principale minaccia alla pace (soluzioni innovative in campo energetico, nell’efficienza di utilizzo di risorse fondamentali come l’acqua, e così via); 3) il terzo filone fondamentale è la possibilità di andare gradualmente e progressivamente verso un mondo in cui la scienza non venga più utilizzata per la guerra e per fini militari, ma esclusivamente a fini pacifici in tutti i suoi comparti di ricerca. Il terzo è un filone forse utopistico, perché tutti noi sappiamo che invece molti fondi per la ricerca scientifica provengono da settori militari, ma in cui crediamo molto come direzione da intraprendere.

In particolare oggi vi parlo di un progetto all’interno di Science for Peace: un’idea venuta in mente qualche anno fa a Umberto Veronesi dopo aver riletto il documento dell’UNESCO del 1989, la “Dichiarazione di Siviglia sulla violenza”, frutto del lavoro pluriennale di un team di etologi, antropologi e sociologi. Si tratta di testo molto interessante che illustra una posizione critica nei confronti di alcune teorie scientifiche diffuse tra gli anni ‘70 e gli inizi degli anni ‘80, di cui il bestseller da milioni di copie The killer ape – la scimmia assassina – divenne una sorta di manifesto. La Carta di Siviglia criticava a quel tempo il tentativo di alcuni scienziati di sostenere che la guerra è una necessità biologica e genetica, che la guerra è inevitabile, cablata nel nostro cervello ominide, perché Homo sapiens sarebbe, appunto, una scimmia assassina. Gli estensori della Carta di Siviglia analizzarono uno per uno gli argomenti esposti da queste teorie pessimistiche: esiste o non esiste il gene della guerra? E’ vero oppure no che l’aggressività, che poi porta alla sua organizzazione sociale nella guerra, è “cablata” in certe aree del nostro cervello? E via di questo passo. Capitolo per capitolo, articolo per articolo, misero in discussione polemicamente queste teorie che cercavano appunto un radicamento cerebrale, genetico, biologico – per così dire naturalistico e al contempo deterministico – della guerra, identificandola come una necessità biologica (da contrastare, ma pur sempre una necessità biologica).

Veronesi mi chiese di partecipare a un gruppo di scienziati e filosofi della scienza con il compito di rileggere quella Carta a più di vent’anni di distanza e a verificare, alla luce dello sviluppo delle teorie scientifiche più attuali, se avevano ragione gli autori della Carta di Siviglia o i fautori della teoria di The killer ape. Da questo confronto è nato un dibattito scientifico acceso e molto interessante di livello internazionale e con diversi punti di vista, dal quale è infine scaturito un nuovo documento, che non vuole essere l’equivalente della Carta di Siviglia, ma è un documento di Science for Peace di Fondazione Veronesi nel quale ripercorriamo quei contenuti capitolo per capitolo, tesi per tesi, aggiornandoli a venti anni di distanza, cercando di capire cosa ci dice oggi la scienza sulla guerra, nei vari campi che venivano discussi allora. La teoria della “scimmia assassina” in versione divulgativa purtroppo è ancora oggi molto diffusa e talvolta si leggono cose discutibili sui media: il gene della guerra, il gene dell’aggressività, il gene della criminalità…

I risultati del dibattito scaturito dal nostro lavoro si possono sintetizzare in quattro punti.

Il primo è che la guerra intesa come attività di gruppo intenzionale e organizzata contro un altro gruppo, con strumenti usati come armi, pare essere un’invenzione evoluzionistica molto recente. Certamente l’aggressività esiste nei primati sociali, ed esiste l’aggressività organizzata in gruppo: ad esempio basta vedere cosa possono fare gruppi di maschi di scimpanzé contro i cuccioli di un altro gruppo. Quindi esiste ovviamente la violenza, esiste l’aggressività, ed esiste anche l’aggressività di gruppo. Nessuno di noi vuole negare che questi comportamenti abbiano anche un’importante componente biologica. Ma un’attività intenzionale, progettata, programmata con l’utilizzo di strumenti per fare del male e offendere intenzionalmente un altro gruppo è un’invenzione da considerarsi recente e tipicamente umana. Tutti gli studi attuali (comprese alcune scoperte in Africa pubblicate dopo la conclusione dei nostri lavori) portano a pensare che sia un’invenzione legata alla lunga transizione neolitica – non alla rivoluzione neolitica, non si usa più questo termine – alla faticosa e non lineare transizione che porta, alla fine dell’ultima glaciazione, i gruppi umani ad assumere una nuova organizzazione sociale legata alla domesticazione di piante e animali, con un possesso del territorio, una sedentarizzazione, e quindi alla possibilità (non alla necessità) di dover anche difendere questo territorio, in modo intenzionale e organizzato, contro un altro gruppo. Sui giornali sono apparse le ultime scoperte molto interessanti in Africa di quello che qualcuno ha addirittura chiamato genocidio, in realtà è la prova di un seppellimento di un intero gruppo con dentro donne, uomini, bambini quasi tutti con segni di violenza molto forte. Sono quindi i primi terribili segni che alcuni gruppi si sono fatti la guerra e uno dei due ha sterminato l’altro. Questi reperti sono tutti risalenti proprio alle fasi concomitanti o immediatamente successive alla transizione neolitica. Le piccole guerricciole che possono nascere tra gruppi di cacciatori raccoglitori si sono trasformate nei prodromi della guerra come la conosciamo oggi, quando un gruppo si organizza e si arma per attaccare e sopprimerne un altro.

Un secondo punto che è emerso da questo lavoro – che già era presente nella dichiarazione di Siviglia ma in modo molto embrionale – è la grande importanza che assumono gli studi in campo etologico. Studi che mirano a mostrare quanto siano stati rilevanti dal punto di vista evoluzionistico i comportamenti pro-sociali: una categoria molto ampia dentro la quale troviamo l’empatia, l’altruismo con reciprocità, l’altruismo senza reciprocità, la cooperazione e altri comportamenti ampiamente sottovalutati nella letteratura etologica ed evoluzionistica negli ultimi decenni, e che invece oggi si rivelano fondamentali, in particolare per spiegare l’evoluzione umana e i precursori naturali del comportamento altamente cooperativo umano. Molti avranno letto i libri di Frans de Waal, in cui spiega queste ultime scoperte, come la cosiddetta “consolazione dello sconfitto” e in generale tutta una serie di comportamenti poco “darwiniani” in senso stretto, cioè nel senso che l’individuo si comporta in modo tale da assumere un atteggiamento a favore di altri individui dello stesso gruppo non necessariamente imparentati con lui. E quindi un atteggiamento che implica un costo, un investimento, senza un ritorno egoistico immediato, ma neanche a volte differito. È piuttosto difficile capire come siano evoluti questi comportamenti (per un vantaggio darwiniano trasferito al gruppo? per favorire indirettamente propri parenti?), ma anche molto intrigante.

Quindi nell’aggiornamento della Carta di Siviglia il nostro gruppo racconta l’importanza di questi studi, che dall’aggressività spostano il pendolo dell’attenzione verso la capacità di cooperazione solidale. A questo punto però è nato un dibattito interessante: d’accordo, non siamo “The killer ape”, ma siamo diventati al contrario “la scimmia empatica”? Siamo la scimmia solidale per antonomasia? Siamo buoni per natura? Molti degli scienziati presenti nel gruppo hanno fatto presente giustamente che sarebbe stato un errore ribaltare semplicemente le teorie degli anni ‘70 e passare dalla pessimistica “teoria della scimmia assassina” all’ottimistica teoria della “scimmia empatica e cooperativa”. In fondo, ci vogliono cooperazione e solidarietà tra commilitoni anche per fare la guerra.

Allora si è pensato di sintetizzare il tutto sostenendo che gli studi naturalistici sul comportamento sociale umano oggi ci mostrano che siamo, di sicuro, una scimmia ambivalente. La natura biologica della socialità umana è quella di avere dentro di sé “precursori naturali” contraddittori – si è preferito non usare più il termine più deterministico di “istinto”, il cui uso oggi non è pacifico in letteratura – che ci rendono capaci di comportamenti aggressivi e di comportamenti cooperativi, che ci rendono capaci di cose buone o cattive, ovviamente con un giudizio morale che noi poi appiccichiamo a questi comportamenti sulla base della nostra storia culturale.

Se la natura che abbiamo sviluppato nel corso della nostra evoluzione è così ambivalente, allora discendono due conclusioni a mio avviso abbastanza importanti: la prima è che è molto rischioso guardare alla natura come a un’autorità morale, forse non è in questa direzione che dobbiamo guardare; non è nella biologia, non è nei geni che troviamo un comportamento giusto, normale o deviante. La natura ci presenta un caleidoscopio di comportamenti estremamente diversificati, anche nei tempi recenti della nostra storia evolutiva.

La seconda conclusione è che se la nostra natura biologica ci consegna un’eredità ambigua, allora significa che decidere di sviluppare comportamenti pacifici o comportamenti violenti e aggressivi non dipende soltanto dalla natura biologica, ma dipende anche dalle nostre scelte e dalla nostra evoluzione culturale. Un principio che nella Carta di Siviglia, già nella metà degli anni ’80, era sottolineato in modo molto forte. La guerra e l’odio sono quindi una possibilità biologica inscritta nel nostro retaggio, così come l’altruismo, ma la loro realizzazione è una costruzione principalmente culturale: pensiamo all’analitica e consapevole costruzione dell’odio interetnico che abbiamo visto negli ultimi decenni in alcune situazioni come nei Balcani o in Ruanda. Una costruzione intenzionale, mediatica, quasi subliminale, dell’odio, che ha avuto effetti quasi incredibili. Si è riusciti a fare in modo che comunità umane che con molta difficoltà erano riuscite a convivere per secoli iniziassero a un certo punto a scannarsi l’una con l’altra, anche nella stessa vallata. Ci sono riusciti. Vuol dire che una perversa azione culturale può scatenare il peggio della nostra natura, che è ambivalente.

Rispetto ai tempi della Carta di Siviglia, oggi abbiamo smesso di vedere una dicotomia tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, abbiamo capito che c’è un forte intreccio bidirezionale. Il conflitto tra biologismo e culturalismo, che qualcuno continua a coltivare, non ha più senso di esistere. L’evoluzione biologica ci dà le condizioni per certi comportamenti, ma quella culturale è capace di retroagire su quella biologica. Quindi nell’evoluzione umana queste due dimensioni sono fortemente intrecciate.

Se è così – ed è l’ultimo punto sul quale abbiamo lavorato nella Carta nuova – significa che nessun appello alla natura, ai geni, al cablaggio cerebrale può togliere importanza alla responsabilità della scelta individuale e di gruppo, quindi alla responsabilità in ultima istanza del singolo individuo, per quanto intruppato e conformista. La Carta di Science for Peace si conclude appunto con la deduzione secondo cui abolire la guerra o ridurla il più possibile non è affatto contro natura, ma è uno scenario possibile, praticabile, intenzionalmente (proprio come si può scatenare il peggio intenzionalmente, si può lavorare nella direzione opposta).

Tutto questo lavoro si è poi tradotto in due risultati concreti. Il primo è una serie di materiali che abbiamo costruito per le scuole, adatti già per la Materna e la Primaria, in collaborazione con alcuni pedagogisti dell’Università di Milano Bicocca. I colleghi hanno realizzato molte schede davvero belle ed efficaci per lavorare, su questi temi scientifici delicati, anche con i bambini più piccoli. Il secondo risultato è stato un sintetico decalogo della Carta di Science for Peace, che nelle varie edizioni del convegno è stata fatta firmare a tutti gli ospiti che concordavano con le tesi esposte, tra cui sei premi Nobel e decine di altre grandi personalità della scienza.

I punti che abbiamo alla fine condensato sono:

– la guerra non è una necessità evolutiva, la biologia non ci condanna alla guerra e alla violenza, ma pone le nostre menti di fronte a una gamma di scelte differenti.

– la guerra non è un destino predeterminato geneticamente, perché la cultura umana ci fornisce la capacità di plasmare e cambiare la nostra natura.

– l’evoluzione di comportamenti sociali complessi è stata determinata da un intreccio di competizione e cooperazione, aggressività e altruismo.

– la guerra non è cablata nel nostro cervello, che può essere utilizzato per la pace e per la solidarietà nello stesso modo in cui può essere impiegato per la violenza.

– esistono influenti precursori naturali nel nostro cervello che ci predispongono a comportamenti pro-sociali, così come all’aggressività, ma nessuno dei nostri comportamenti è determinato dalla natura al punto da non poter essere modificato dall’apprendimento e dalla responsabilità individuale. (Questo punto ha suscitato discussioni e alla fine non è stato firmati da alcuni studiosi legati ancora ai vecchi modelli della psicologia evoluzionistica statunitense; io credo che prima o poi si convinceranno dinanzi alle evidenze scientifiche della plasticità umana).

– è possibile concepire liberamente nuovi modi per organizzare le società; la pace è realisticamente una possibilità, oltre che un’urgenza sociale e un imperativo morale per la specie umana.

– abbiamo il dovere di rafforzare tutti quelli strumenti educativi e sociali che possono indirizzare la nostra evoluzione culturale verso la pace.

– abbiamo il dovere di vigilare su tutte le strategie adottate dai leader politici e dai mass-media che alimentano emozioni di paura e senso di minaccia da parte di un nemico esterno e che preparano le persone a sostenere una guerra.

– le ambiguità ereditate dalla nostra stessa storia di specie rafforzano quel principio di cautela che suggerisce di non cercare nella natura il fondamento di comportamenti che si presumono essere normali o necessari. Se nulla nei nostri geni o nella nostra naturale giustifica la violenza istituzionalizzata come inevitabile, allora la guerra è da considerarsi un’invenzione sociale.

– come evidenziato nelle conclusioni della Dichiarazione di Siviglia del 1989, la stessa specie che ha inventato la guerra ora può benissimo inventare la pace.