Immigrazione e salute tra globalizzazione e accoglienza

L’emigrazione è il fenomeno sociale che porta un singolo individuo o un gruppo di persone a spostarsi dal proprio luogo originario verso un altro luogo. Tale fenomeno può essere legato a cause ambientali, climatiche, religiose, economiche e sociali, spesso tra loro intrecciate.[1]

Le migrazioni rappresentano una costante della società umana sin dalle sue origini e non sono mai state prive di implicazioni e di costi. Sia dalla parte dei migranti, sia da parte della società accogliente sono necessari compromessi, dialogo e talvolta sacrifici per cercare di mantenere una convivenza pacifica.

I fenomeni migratori, infatti, comportano sempre una “fatica” che coinvolge anzitutto il migrante, che deve riuscire ad integrarsi e a vivere in un contesto straniero, spesso ostile. Ma anche il paese d’approdo, che deve affrontare le difficoltà insite nell’accogliere e nell’integrare il nuovo arrivato all’interno del proprio sistema sociale.

La migrazione è caratterizzata da due fattori: quello fisiologico e quello traumatico. Fisiologico perché il bisogno di emigrare verso nuovi luoghi, per i motivi sopracitati, è insito nella specie umana. Traumatico in quanto sempre e in ogni caso accompagnata da difficoltà, disagi, sofferenze e sacrifici.

I fenomeni migratori hanno come soggetti emigrati e immigrati. Questi termini assumono generalmente una connotazione negativa, che risulta maggiormente accentuata per il termine immigrato.

L’emigrante richiama, infatti, l’immagine mentale di una persona che abbandona la patria alla ricerca di qualcosa di meglio. Viene visto quindi come un pioniere, colui che va avanti a cercare fortuna e che, talvolta, può però anche incorrere in situazioni di sfruttamento e di grave disagio sociale. Di contro, l’immigrato è colui che si trasferisce in una determinata località in modo permanente o per un lungo periodo, non per turismo o per una visita temporanea. L’immigrato viene, quindi, definito dalla popolazione del paese di approdo come un “occupatore”.

L’immigrazione è definibile come l’ingresso in un paese in maniera permanente o semipermanente di gruppi di persone provenienti da un altro paese. All’interno del concetto di immigrazione si possono includere le massicce migrazioni di popolazione avvenute prima della nascita degli Stati nazionali e anche i movimenti interni a un paese: le cosiddette migrazioni interne e il fenomeno dell’urbanizzazione.

Alla fine del 2004 i cittadini stranieri nei 25 Stati membri dell’Unione, escludendo quelli che hanno già acquisito la cittadinanza, sono risultati 26 milioni e 61.000 su una popolazione di 457 milioni di abitanti, con un’incidenza di poco superiore al 5% e punte del 9% in Germania e in Austria, dell’8% in Spagna, del 5% nel Regno Unito e in Francia e superiore al 4% in Italia (quota in salita al 5,2% l’anno successivo).[2]

Migranti nel Mondo

Migranti nel Mondo

Invece lo stato di salute delle popolazioni nel mondo è molto eterogeneo e non è riconducibile a un semplice schema. Da un lato vi sono stati miglioramenti rilevanti: l’aspettativa media di vita a livello mondiale dal 1960 al 2014 è aumentata da 50 a 67 anni; il vaiolo è stato debellato e il numero di vittime del morbillo, 871mila nel 1999, si è ridotto alle 122mila stimate nel 2012. Sono quindi innegabili i successi delle vaccinazioni, che oggi, purtroppo, vengono erroneamente osteggiate da movimenti antivaccinisti.

Ma indagini statistico-epidemiologiche indicano che il generale miglioramento dello stato di salute lascia ancora escluse le popolazioni delle aree più povere del nostro pianeta. Le disparità in ambito sanitario, infatti, sono anche maggiori di un tempo: nel mondo ci sono sette miliardi di persone, ma solo a un miliardo spetta una vita lunga e sana. Mentre l’aspettativa di vita di un bambino nato in Giappone è di 82 anni, quella di un bambino nato nello Swaziland è solo di 32.

Negli ultimi anni, inoltre, si sta assistendo a quella che sembra essere una crisi della sovranità in ambito sanitario. Ciò significa che elementi politico-economici si interpongono tra popolazione e salute a discapito dei cittadini. Prendiamo ancora una volta come esempio i vaccini. L’OMS nel 1979 dichiarò debellato il vaiolo, una malattia che ha registrato milioni di casi e migliaia di morti ogni anno. Per arrestare l’epidemia fu quindi avviato un sistema di sorveglianza che consentiva di interrompere ogni singolo focolaio con l’isolamento dei casi e la vaccinazione delle persone entrate in contatto con essi. Questo traguardo fu raggiunto grazie a un lavoro capillare svolto dall’OMS, che, con l’aiuto dei governi, realizzò il suo più grande successo, riuscendo a produrre il vaccino anche nei paesi poveri.

Nonostante l’OMS sia tutt’oggi in vincita per quanto riguarda le battaglie sulle vaccinazioni, il caso della poliomielite dimostra come l’intensificarsi della conflittualità e la relativa perdita di prestigio delle istituzioni internazionali crei problemi profondi e di natura strategica.

La campagna per eradicare la polio entro il 2000 è stata lanciata dall’OMS 25 anni fa e, benché l’obiettivo non sia stato raggiunto, in questi anni c’è stato uno straordinario progresso: dai 350mila casi in 125 paesi nel 1999 ai 223 nel 2012, concentrati in gran parte in Nigeria, Pakistan e Afghanistan. È bene sottolineare che non è un caso che la malattia sia ancora presente in questi tre paesi, questo perché si tratta di luoghi al centro di pesanti conflitti militari e culturali. [3]

Tuttavia, nell’era della globalizzazione è molto difficile che i problemi sanitari rimangano confinati in singoli paesi. Un esempio lampante è l’epidemia della SARS, scatenatasi nel 2002 in Cina e diffusasi rapidamente in tutto il mondo. Nell’arco di otto mesi sono stati registrati 8422 casi e 916 morti in 29 paesi differenti.

La salute globale (global health) è stata definita dallo United States Institute of Medicine come “l’insieme di aspetti della salute collettiva che trascendono i confini nazionali, possono essere influenzati da circostanze o mutamenti in altri paesi e possono essere meglio affrontati da azioni e soluzioni cooperative”. Il concetto di salute globale è connesso con un altro fenomeno importante: quello della transizione epidemologica, ossia il processo continuo in base al quale alcune malattie declinano e altre si diffondono. Benché le malattie infettive rappresentino ancora oggi un importante problema di sanità pubblica, le malattie non trasmissibili (malattie croniche), stanno diventando le principali cause di morte anche nei paesi a basso reddito. Alla base di queste trasformazioni vi sono fattori biologici, ambientali, sociali, culturali e comportamentali.

Le principali cause di morte a livello globale sono denutrizione (quarto posto), malattie a trasmissione sessuale (quinto posto), malattie infettive e parassitarie (decimo posto). Tutte le altre cause di morte, unite ai fattori di rischio come obesità, scarso esercizio fisico, pressione alta, fumo di sigaretta e diete sbilanciate, sono diventati importanti anche nel resto del mondo.

Ad esempio le malattie coronariche sono la causa del 17% delle morti nei paesi ad alto reddito e dell’11% in quelli a basso reddito, in entrambi i casi si trovano in prima posizione tra le cause di morte. [4]

Cause di morte nel mondo. Corriere della Sera. Fonte: OMS

Cause di morte nel mondo. Corriere della Sera. Fonte: OMS

È evidente che a causa della facilità con cui le persone si spostano, percorrendo migliaia di chilometri in poche ore, è più facile la trasmissione di malattie potenzialmente limitate in determinate aree geografiche. A causa di ciò si è sempre più diffusa tra l’opinione pubblica l’idea che l’immigrato rappresenti un pericolo sanitario.

 

La tubercolosi

Un caso che ha suscitato non poche preoccupazioni è stato l’aumento del numero di individui affetti da tubercolosi. È bene notare, però, che in Italia, negli ultimi 10 anni, il numero di casi di TBC in persone nate all’estero è aumentato parallelamente all’incremento della loro numerosità: dal 2003 al 2012 la percentuale del numero dei casi di TBC registrati in cittadini nati all’estero è passata da circa il 37% al 56% del totale dei casi notificati. Analizzando, però, l’incidenza di casi di TBC notificati a persone nate all’estero rispetto alla popolazione residente straniera, si osserva un forte decremento con valori quasi dimezzati nell’arco del decennio di osservazione, a fronte di una sostanziale stabilità dell’incidenza nel complesso della popolazione.[5]

Ciò significa che il numero dei casi di TBC nei migranti aumenta molto meno del loro incremento numerico. La condizione di “immigrato” rappresenta però un fattore di rischio: è più probabile che un immigrato sviluppi la tubercolosi per la maggiore prevalenza di infezione latente  negli stranieri che provengono da aree ad alta endemia, ma soprattutto per le condizioni di vulnerabilità e di precarietà, oltre che per le obiettive difficoltà di accesso ai servizi di prevenzione, diagnosi e cura che caratterizzano lo status d’immigrato.[6] Infatti, gli stranieri che provengono da paesi ad alta incidenza possono aver acquisito l’infezione prima di partire, ma non hanno come destino inevitabile quello di ammalarsi e diventare contagiosi: solo il 10% delle persone che acquisiscono l’infezione sviluppa in seguito la malattia tubercolare diventando contagioso per altri.

Percentuale di casi di tubercolosi: confronto tra nati in Italia e nati all’estero - Anni 2003-2012 Fonte dei dati: Ministero della Salute Direzione Generale della Prevenzione Malattie Infettive e Profilassi Internazionale (Anno 2014)

Percentuale di casi di tubercolosi: confronto tra nati in Italia e nati all’estero – Anni 2003-2012. Fonte dei dati: Ministero della Salute – Direzione Generale della Prevenzione Malattie Infettive e Profilassi Internazionale (Anno 2014)

Per quanto il nostro sia un Paese a bassa endemia per TBC e i dati disponibili siano tali da non destare particolari preoccupazioni, non si può ignorare che la componente attribuibile alla popolazione immigrata, pur non rappresentando di per sé un motivo di allarme sociale, è un aspetto da non trascurare. Diversi studi dimostrano, infatti, che la trasmissione della malattia da parte di immigrati alla popolazione residente sia un evento estremamente raro. Tuttavia, allo scopo di garantire ai pazienti un trattamento efficace, ridurre il rischio che altre persone prevalentemente appartenenti alla stessa comunità si possano infettare e perseguire, contemporaneamente, il controllo della malattia riducendo il rischio di un potenziale aggravamento nella popolazione generale, sono necessari interventi multipli e coordinati a tutti i livelli.

Per esempio bisognerebbe implementare le diagnosi e la sorveglianza della TBC, soprattutto attraverso campagne di sensibilizzazione e percorsi formativi rivolti in particolar modo agli operatori socio-sanitari. Inoltre, migliorando il trattamento e la gestione dei casi, si ridurrebbero gli esiti sfavorevoli, rendendo il sistema assistenziale più flessibile e adattabile a uno scenario demografico in evoluzione.

Infine si dovrebbe favorire l’accoglienza e l’accesso ai servizi sanitari da parte degli immigrati, attraverso l’informazione su diritti e doveri e sui percorsi sanitari esistenti.

 

L’AIDS

Per quanto riguarda le malattie a trasmissione sessuale e nello specifico AIDS (Acquired Immuno Deficiency Sindrome) e HIV (Human Immunodeficiency Virus), la popolazione straniera residente in Italia risulta avere un’incidenza dell’infezione di AIDS di oltre quattro volte superiore alla popolazione italiana.[7]

È comunque errato pensare che entrare in contatto con persone siero positive possa aumentare la diffusione dell’HIV. La diffusione dell’AIDS avviene infatti a causa di superficialità nell’adozione di misure preventive, come il mancato utilizzo del preservativo durante i rapporti sessuali, dei guanti nel personale sanitario o l’utilizzo di una stessa siringa da parte di più persone. La preoccupazione di una maggior diffusione della malattia nei paesi ospitanti a fronte dell’immigrazione è pertanto infondata. Bisognerebbe piuttosto incrementare gli sforzi per educare la popolazione alla prevenzione e al mantenimento di comportamenti corretti e protettivi nei confronti del contagio (quale che sia la fonte, italiana o straniera). Occorrono, dunque, maggiori sforzi da parte degli operatori sanitari volti a garantire una più efficace azione preventiva, un accesso tempestivo al test diagnostico e una maggiore fruibilità dei percorsi di cura, con particolare riferimento al grado di adesione dei pazienti ai protocolli terapeutici.

Grafico casi di AIDS nella popolazione straniera di età 18 anni ed oltre per genere – Anni 1992-2011 Fonte dei dati: ISS. Centro Operativo AIDS. Anno 2014

Grafico casi di AIDS nella popolazione straniera di età 18 anni ed oltre per genere – Anni 1992-2011. Fonte dei dati: ISS. Centro Operativo AIDS. Anno 2014

 

Il caso Ebola

Il virus Ebola ha scatenato un vero e proprio allarmismo tra la popolazione europea e italiana, in particolare durante l’autunno 2015. Ancora una volta si è diffusa la convinzione che gli immigrati sbarcati nella nostra nazione potessero contribuire alla diffusione del virus. Il virus Ebola è estremamente letale e nella maggior parte dei casi provoca malattia sintomatica nell’arco di pochi giorni dall’infezione. Questo vanifica la possibilità che una persona infettata si avventuri nel travagliato viaggio via terra e mare che dovrebbe condurlo in Italia. In secondo luogo, si deve tener conto del fatto che generalmente i viaggi migratori hanno la durata di mesi, spesso anni, mentre il periodo massimo di incubazione è di 21 giorni. Nel corso di questo tempo, l’infezione avrebbe quindi abbondantemente concluso la sua evoluzione, conducendo o al decesso o alla sopravvivenza (e guarigione) della persona colpita.

 

Conclusioni

Il messaggio che talvolta viene diffuso dai media o da partiti politici nazionalisti o non ben disposti nei confronti dell’accoglienza e dell’integrazione, è quello della pericolosità sanitaria insita nel migrante, nonostante queste teorie allarmistiche vengano costantemente smentite dalle organizzazioni sanitarie.

Tutto ciò può distogliere l’opinione pubblica dalle reali emergenze da affrontare concretamente e tempestivamente, come l’assenza di politiche inclusive a livello internazionale, l’organizzazione frammentata e, a volte, improvvisata dei sistemi di accoglienza, una polemica politica e sociale continua. È importante tener conto delle condizioni di vita che spingono i migranti a fuggire dalla loro terra d’origine e dei traumi fisici, ma soprattutto psicologici, che queste persone hanno subito e continuano a subire. Pertanto un’adeguata accoglienza e una maggiore tutela dei diritti alla salute a livello globale potrebbe ridurre le disparità all’interno di una nazione.

 

Nota

[1] Emigrazione in Garzanti Linguistica. www.garzantilinguistica.it

[2] Pubblicazione di Cristina Scaroni, Fenomeni migratori e problematiche socio-sanitarie. www.ipasvi.it (Federazione Nazionale Collegi Infermieri professionali, Assistenti sanitari, Vigilatrici d’infanzia)

[3] Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione di Paolo Vineis – Codice Edizioni

[4] Salute senza confini. Le epidemie al tempo della globalizzazione di Paolo Vineis – Codice Edizioni

[5]  Ministero della Salute. Dati pubblicati su Osservasalute 2014

[6] Rapporto Ministero della Salute, 2008. Tubercolosi in Italia

[7] Ministero della Salute. Dati pubblicati su Osservasalute 2014