La chimica italiana nel XX secolo

L’11 settembre 1912, oltre cent’anni fa, il triestino Giacomo Ciamician sale finalmente sul palco dell’VIII Congresso Internazionale di Chimica Applicata e inizia a parlare. È stato invitato dai suoi colleghi americani a indicare di cosa si dovranno occupare i chimici nel futuro prossimo venturo. A parlare, in altri termini, della chimica del nuovo secolo: il XX.

Ciamician sbaraglia facilmente la sottile emozione che gli secca la gola e svolge d’un fiato, con un entusiasmo capace di trascinare la platea, la sua relazione, La fotochimica dell’avvenire. Il testo sarà pubblicato a stretto giro, il successivo 27 settembre, su Science, la prestigiosa rivista dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS).

Gli uomini, sostiene il chimico italiano, utilizzano il carbon fossile «con crescente avidità e spensierata prodigalità». Ma la risorsa non è infinita. Occorre chiedersi, continua Ciamician, se l’«energia solare fossile» (perché tale è il carbon fossile) sia l’unica fonte energetica di origine solare utile per lo sviluppo della civiltà.

La domanda è retorica, perché Ciamician e l’intera platea sanno che l’energia solare per così dire “diretta” può essere molto più utile. Il Sole, infatti, invia sulla Terra sotto forma di luce una grande quantità di energia. Di gran lunga superiore a quella necessaria all’uomo per far funzionare la sua economia. Il guaio è che – al netto di quella intercettata dalle piante e dagli altri organismi capaci di fotosintesi – la gran parte della luce che dal Sole raggiunge direttamente la Terra è semplicemente dispersa. Dobbiamo imparare a catturare e a usare questa energia, sostiene Ciamician. Per farlo, s’accalora il chimico triestino, dobbiamo lavorare lungo tre direttrici: aumentare la produzione di materia organica vegetale e l’uso delle sostanze di origine vegetale; trasformare le piante in combustibile gassoso; valorizzare la capacità delle piante di produrre sostanze preziose, in alternativa al catrame.

Ma, spiega ancora Ciamician, possiamo e dobbiamo fare di più. Possiamo imparare a intervenire direttamente sulle piante per modificare i processi chimici che si compiono in esse. Tuttavia l’obiettivo finale è imparare a “fare come le piante” – usare la luce per realizzare una catena di reazioni a bassa temperatura – creando una fotochimica industriale a basso costo.

In definitiva, Giacomo Ciamician propone ai chimici di lavorare nel corso del XX secolo alla fotosintesi artificiale. Un programma ambizioso, che riguarda sia la chimica teorica sia la chimica applicata.

Riguarda la chimica teorica perché “fare come le piante” e, dunque, sfruttare l’azione chimica della luce a temperatura ambiente, è un problema che attiene ai fondamenti stessi delle chimica, come si incaricherà di dimostrare la storia nei successivi trent’anni.

In realtà Ciamician aveva posto il problema di “fare come le piante” e realizzare un dispositivo chimico capace di captare l’energia solare e trasformarla in maniera efficiente già nel 1903 – ne aveva parlato in un discorso tenuto all’università di Bologna il 7 novembre 1903 – quando ancora non si sapeva bene cosa fosse la luce. Solo nel 1905, infatti, Albert Einstein rivelerà la natura quantistica delle onde elettromagnetiche. E solo nel 1913, dunque dopo l’intervento di Ciamician a New York, il fisico chiarisce che all’origine dell’effetto fotoelettrico c’è “una molecola che assorbe un fotone”.

Ma torniamo, appunto, alla conferenza del 1912. Giacomo Ciamician la conclude in questo modo:

“Chissà che in avvenire non sia possibile mandare in effetto delle reazioni fotochimiche, come sarebbe la seguente: gli ultimi prodotti della combustione, i rifiuti che le fabbriche mandano nell’aria, sono l’anidride carbonica e il vapore acqueo. Dato un opportuno catalizzatore si dovrebbe potere, con la partecipazione dell’energia solare, trasformarli in metano ed ossigeno i quali, bruciando, ridarebbero, naturalmente, in forma di calore tutta l’energia acquistata dal sole. Quando un tale sogno fosse realizzato le industrie sarebbero ricondotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrrebbero lavoro colla forza della luce del giorno, che non costa nulla e non paga tasse!”

In definitiva, sostiene Ciamician, le piante sono ottimi chimici perché sfruttano l’energia della luce per produrre una quantità enorme di molecole, semplici e complesse. Ma sono anche ottimi chimici industriali, perché realizzano tutto questo con pochi mezzi. A basso costo. Senza sprechi.

L’italiano ha chiari, dunque, sia i termini teorici sia i termini applicativi del problema della fotochimica. Branca di cui è considerato il fondatore.

Noi, a nostra volta, abbiamo ben presente che la storia raramente conosce soluzione di continuità. E che questi rari punti singolari non cadono di solito all’inizio o alla fine di un secolo, unità di misura del tutto arbitraria del tempo. Inoltre la scienza ha una sua dimensione intrinsecamente universale, per cui è difficile identificare con chiarezza i confini di una qualsivoglia “chimica nazionale”. Di qui l’impossibilità pratica di individuare “il” o anche “un” momento d’inizio della storia della chimica italiana nel XX secolo.

È dunque con una scelta piuttosto arbitraria che iniziamo il nostro racconto a partire dalla lecture che l’11 settembre 1912 a New York con cui un chimico nato a Trieste, formatosi a Vienna, laureatosi presso la Justus Liebig-Universität di Gießen in Germania, addestratosi alla scuola di Stanislao Cannizzaro a Roma e divenuto professore a Bologna, Giacomo Ciamician, volge lo sguardo al futuro. Indicando un obiettivo che, ancora oggi, a oltre un secolo di distanza, è più che mai attuale.

Molto è cambiato nel panorama della chimica e, più in generale, delle scienze naturali da quando il ventitreenne Ciamician, fresco di laurea, giunge a Roma alla corte di uno dei più grandi chimici di tutti i tempi, Stanislao Cannizzaro. Ma la transizione dalla chimica classica, che tanti successi teorici e pratici ha saputo mietere nel corso del XIX secolo, alla “nuova chimica”, quella quantistica, dalle fondamenta teoriche più solide non si è ancora consumata.

Cosicché la chimica applicata si ritrova sugli scudi, mentre la chimica teorica – non meno delle altre scienze naturali – è ancora in mezzo al guado. E la traversata è tempestosa.

La chimica è la scienza del discreto: degli atomi e delle molecole. I chimici, infatti, sono stati i primi a dimostrare che il mondo a livello microscopico non è caratterizzato dalla continuità, ma dalla discontinuità. Una dimensione, questa del discreto, che all’inizio del XX secolo vanno scoprendo anche altre discipline: dalla fisica alla nascente genetica. E non senza fatica, se proprio nel 1912 e proprio Max Planck, il teorico che dodici anni prima ha scoperto il «quanto elementare d’azione» e dunque la discontinuità in fisica, scrive una memoria in cui sostiene:

“Le forze fisiche, gravità, attrazioni o repulsioni elettriche e magnetiche, coesione, agiscono in modo continuo; le forze chimiche, al contrario, secondo quanti. Questa legge dovrebbe essere connessa con quella che permette alle masse in fisica di agire l’una sull’altra in quantità qualsiasi, mentre in chimica esse possono agire solo in proporzioni nettamente definite, variabili in modo discontinuo.”

Alla chimica – scienza degli atomi e delle molecole – hanno dato un contributo fondamentale nel corso del XIX secolo due italiani: il piemontese Amedeo Avogadro (1776-1856) e il siciliano Stanislao Cannizzaro (1826-1910).

 

La chimica italiana nel XIX secolo. Amedeo Avogadro

Avogadro è un nobile torinese, laureato in diritto canonico, che a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo occupa la cattedra di “fisica sublime” (oggi la definiremmo di “fisica matematica”) presso l’università della sua città. Nel vasto ambito di interessi di Avogadro trova posto anche la chimica teorica. Ed è in questo settore di studi che il nobile piemontese nel 1811 rilancia la teoria atomica della materia e fissa uno dei capisaldi della chimica di tutti i tempi.

L’idea che il mondo, a livello microscopico, sia costituito da atomi in realtà viene da lontano, come sa chi ha letto i filosofi greci. Tuttavia a ridarle forza scientifica è il chimico inglese John Dalton, quando nel 1808 propone la legge che prende il suo nome:

Quando due elementi si combinano tra loro, formando composti diversi, le quantità di uno di essi che si combinano con una quantità fissa dell’altro stanno fra loro in rapporti razionali, espressi da numeri interi e piccoli.

La materia è composta di atomi, che si combinano tra loro in maniera fissa e semplice per dare sostanze composte. Atomi di ossigeno e di idrogeno, per esempio, si combinano tra loro, sempre nel medesimo rapporto in peso (la quantità di ossigeno è sempre 8 volte maggiore di quella dell’idrogeno), per dare il composto acqua.

L’anno successivo, il 1809, il francese Joseph Louis Gay-Lussac dimostra che:

Quando due sostanze gassose reagiscono tra loro per formare nuove sostanze, anche esse gassose, i volumi dei gas reagenti e di quelli prodotti stanno tra loro in rapporti espressi da numeri interi e semplici.

 Nel caso dell’acqua abbiamo che due volumi di idrogeno si combinano con un volume equivalente di ossigeno per dare due volumi equivalenti di vapor acqueo.

Nel 1811 Avogadro porta a sintesi gli enunciati di Dalton e Gay-Lussac, proponendo il principio che oggi porta, a ragione, il suo nome:

Volumi uguali di sostanze gassose, a temperatura e pressione uguale, contengono un eguale numero di molecole.    

È davvero difficile sopravvalutare il valore del risultato raggiunto dall’italiano. Per diversi motivi.

Perché distingue tra atomo (chiamato molecola elementare)  e molecola (chiamata molecola composta o integrante): le molecole sono combinazioni (semplici) di atomi.

Perché conferisce alla molecola, più che a quello di atomo, il ruolo di unità fondamentale della chimica: un ruolo che la molecola riveste ancora oggi. Nella visione di Avogadro, infatti, le reazioni altro non sono che scambi, semplici, tra molecole. Nel caso dell’acqua significa che 2 molecole di idrogeno reagiscono con una molecola di ossigeno per dare, appunto, 2 molecole di acqua.

Perché, infine, fornisce una spiegazione semplice della relazione che c’è tra micro e macro, tra molecole e volumi. Fornendo, tra l’altro, un modo molto semplice per determinare il peso molecolare. Nel caso dell’acqua, il peso di una molecola del composto (H2O) è dato dal peso della molecola d’idrogeno (H2) più la metà del peso della molecola dell’ossigeno (O2).

La sintesi di Amedeo Avogadro è davvero geniale. Costituisce uno dei passaggi fondamentali sia nella storia della teoria chimica sia nella storia della chimica come scienza quantitativa. Ma probabilmente è troppo in anticipo sui tempi. Tant’è che bisogna attendere almeno mezzo secolo prima che venga accettata. Deve scontare, tra l’altro, l’aperta avversione del grande e potente chimico svedese Jöns Jacob Berzelius. I due, il piemontese e lo svedese, sono in contrasto. Berzelius è fortemente irritato perché Avogadro rifiuta quella sua idea secondo cui i composti organici hanno una natura diversa dai composti inorganici. L’italiano, figurarsi, va predicando che il mondo organico-biologico e il mondo inorganico sono fatti della medesima materia chimica e obbediscono alle medesime leggi fisiche.

Toccherà a un altro italiano, il siciliano Stanislao Cannizzaro, restituire ad Avogadro e al concetto di molecola il ruolo che meritano nella chimica. La consacrazione si consuma nel corso di un convegno internazionale che si tiene in Germania nel 1860.

 

La chimica italiana nel XIX secolo. Stanislao Cannizzaro

È August Kekulé a invitare a congresso i chimici di tutta l’Europa a Karlsruhe, in Germania, tra il 3 e il 5 settembre 1860. All’appello dell’uomo che sta fondando la chimica organica moderna – è infatti di Kekulé l’ipotesi, proposta due anni prima, che nei composti organici ogni atomo di carbonio si leghi ad altri quattro con altrettanti legami – rispondono in 140. Tra loro c’è un chimico russo di belle speranze, Dimitrij Mendeleev. E un chimico siciliano, Stanislao Cannizzaro, che non sarà da meno.

Proprio nell’ultimo giorno ai congressisti viene distribuita una nota sui pesi atomici scritta da Cannizzaro due anni prima, nel 1858, quando, professore di chimica a Genova, aveva sistemato gli appunti delle sue lezioni e pubblicato il  Sunto di un corso di filosofia chimica, dove si fa esplicito riferimento al lavoro di Avogadro del 1811.

Ora, al Congresso di Karlsruhe, Cannizzaro può prendere la parola e riproporre quella netta distinzione tra atomo e molecola che consentirebbe di far tornare molti conti in chimica, consentendo di distinguere tra atomi (per esempio l’idrogeno, H, o l’ossigeno, O), molecole di elementi puri (per esempio l’idrogeno molecolare, H2, o l’ossigeno molecolare, O2) e composti (per esempio, l’acqua: H2O). La chiarezza e la determinazione con cui Cannizzaro sviscera i suoi argomenti devono essere davvero grandi se, grazie anche all’appoggio pieno di Dmitrij Ivanovič Mendeleev, il Congresso accetta le ipotesi di Avogadro che oggi sono il fondamento della “filosofia chimica”.

Quel 5 settembre 1860, grazie al “patriota” Stanislao Cannizzaro, la chimica italiana ottiene il maggiore riconoscimento internazionale. Mentre l’Italia ancora non esiste: la nazione italiana nascerà solo sei mesi dopo, il 17 marzo 1861.

Non è, quella di “patriota”, una definizione proposta a caso per Stanislao Cannizzaro. Calza perfettamente sulla figura del chimico siciliano. E su quella di molti suoi colleghi chimici, fisici, matematici, naturalisti che vivono da protagonisti il Risorgimento italiano. Una comunità quella degli “scienziati italiani” (così si definiscono nelle riunioni annuali inaugurate nel 1839) che, nel corso di oltre due decenni, ha realizzato, spesso in maniera consapevole e determinata quattro operazioni: ha fatto della scienza uno dei collanti culturali della nazione che sta per nascere; ha dato un contributo diretto all’unità del paese; ha fatto di quella italiana una delle comunità scientifiche più importanti d’Europa e ha indicato nella scienza la leva che il nuovo stato unitario deve azionare per modernizzarsi.

L’avventurosa storia di Stanislao Cannizzaro – sfuggito a una condanna a morte del Borbone e divenuto allievo di un altro grande chimico, il calabrese Raffaele Piria – è l’emblema di questa straordinaria e dimenticata operazione.

Ma torniamo a Karlsruhe, dove Cannizzaro dimostra con grande chiarezza che le anomalie riscontrate da Berzelius e da altri nell’applicazione della legge di Avogadro sono solo apparenti, dovute a dissociazioni di tipo termico. Che in ogni composto, ogni elemento diverso partecipa con almeno un atomo, unità indivisibile. L’italiano dimostra infine che le molecole sono unità composte, ma dotate di una propria specifica identità chimica. Le molecole sono le unità costitutive della chimica.

Con questa impostazione Cannizzaro in persona riesce a misurare il peso atomico esatto di 21 diversi elementi chimici. Mentre i chimici possono finalmente scrivere con grande precisione e facilità le formule delle molecole e, in definitiva, possono fare della chimica una scienza matematizzabile. Come ha scritto l’inglese Harold Hartley: «La Conferenza di Karlsruhe, grazie alla presenza di Cannizzaro, fu destinata ad avere un’influenza decisiva sul progresso della teoria chimica e a essere una pietra miliare nella sua storia».

Dopo Karlsruhe Cannizzaro torna in Italia con un successo personale senza precedenti.  Ha restituito ad Avogadro quanto gli era dovuto. E ha contribuito a dare alla nazione in fase nascente un prestigio scientifico internazionale del tutto inatteso.

Con la proclamazione del Regno unitario, Stanislao Cannizzaro può tornare nella sua Palermo, come professore e poi come rettore dell’Università. Dieci anni dopo è a Roma, dove fonda il primo laboratorio chimico italiano organizzato con criteri moderni. Cannizzaro, come molti scienziati di altre discipline, ha aderito all’invito del primo ministro Quintino Sella, che vuole Roma non solo capitale d’Italia ma anche della scienza. Se l’Italia vuole imporsi tra le nazioni, sostiene il primo ministro, deve puntare sulla ricerca e la sua capitale deve diventare un centro di studi scientifici all’avanguardia nel mondo.

Anche per questo a Roma, intorno a Cannizzaro, si forma un’intera costellazione di chimici provenienti da tutto il paese. Alcuni – come il triestino Giacomo Ciamician – sono di grande spicco.

 

La chimica italiana all’inizio del XX secolo.

Se prima, durante e immediatamente dopo il Risorgimento la chimica italiana si è sviluppata in diverse città,  intorno a due figure – Amedeo Avogadro a Torino e Raffaele Piria a Pisa – nella parte finale del XIX secolo e all’inizio del XX si sviluppa soprattutto tra Palermo e Roma, intorno a una sola figura, Stanislao Cannizzaro, e alla costellazione dei suoi allievi.

Tra loro spicca certamente il tedesco naturalizzato italiano Guglielmo Koerner (1839-1925). Nato a Kassel si è laureato in chimica al Politecnico di Gießen nel 1860, dove ha studiato con Friedrich August Kekulé, di cui diventa poi assistente, maturando così una grande esperienza nella nascente chimica organica aromatica (ovvero la chimica del benzene e dei suoi derivati). Koerner si trasferisce poi a Palermo nel 1867, quale assistente di Cannizzaro, continuando a lavorare alla sintesi dei derivati del benzene e alla determinazione della loro formula di struttura. I suoi lavori in Sicilia contribuiscono a definire la completa equivalenza tra i sei atomi di idrogeno sull’anello del benzene.

Ma Koerner concentra la sua attenzione soprattutto sui diversi isomeri del benzene. Ritiene che, nello studio dei casi di isomeria delle sostanze aromatiche, debbano essere risolte due questioni principali: stabilire sperimentalmente quali sono i derivati del benzene nei quali i sostituenti si trovano in posti corrispondenti, e stabilire il luogo chimico dell’atomo costituente, cioè quanti atomi di idrogeno separano due diversi sostituenti.

Nel 1870 il tedesco, ormai italianizzato, si trasferisce ancora, perché diventa professore di Chimica organica alla Scuola Superiore di Agricoltura di Milano. Nella città lombarda resterà ben 52 anni, fino al 1922, svolgendo un imponente lavoro in laboratorio: in soli quattro anni, per esempio, sintetizza 126 composti chimici e ne definisce la struttura. I suoi lavori nell’ambito della chimica organica sono davvero molto vasti. Il suo maggior successo è, probabilmente, la sintesi dell’amminoacido asparagina, ottenuta nel 1887 insieme ad Angelo Menozzi.

Un altro allievo di Cannizzaro di grande valore è il siciliano Emanuele Paternò (1847-1935), che giovanissimo e ancora studente giunge – primo in assoluto – a ipotizzare che le quattro valenze dell’atomo di carbonio potrebbero essere «disposte nel senso dei quattro angoli del tetraedro regolare». Si tratta di uno dei capisaldi della nascente stereochimica (lo studio della disposizione spaziale degli atomi nelle molecole). Ma pochi sono i riconoscimenti che Paternò ottiene nella letteratura scientifica internazionale. L’uomo d’altra parte è distratto dalla politica: diventa senatore e sindaco di Palermo. Ciò non gli impedisce, però, di realizzare studi di grande significato nell’ambito della crioscopia, misurando l’abbassamento del punto di congelamento di un solvente quando viene aggiunto un soluto. Lo studio consente di misurare il peso molecolare dei soluti. Paternò da un lato contribuisce a chiarire gli aspetti teorici del fenomeno e dall’altro applica il metodo, in maniera ancora una volta originale, alle soluzioni di polimeri (ovvero delle molecole costituite da un numero molto grande di atomi).

I suoi studi di crioscopia Paternò li porta avanti con un altro grande allievo di Cannizzaro, Raffaele Nasini (1854-1931). Chimico toscano, due lauree “ad honorem” a Cambridge e a Glasgow, Nasini studia prima a Roma con Cannizzaro poi a Berlino con Hans Heinrich Landolt. Nel 1891 sale in cattedra a Padova, presso l’università dove poi sarà rettore nel periodo tra il 1900 e il 1905. Si trasferisce poi a Pisa, dove resta fino al 1924, dirigendo la locale scuola di farmacia.

Anche Nasini diventa Senatore del regno. Ma nel 1929, in pieno regime fascista.  I suoi studi riguardano il rapporto tra costituzione e proprietà dei composti organici, a ulteriore dimostrazione della notevole capacità di ricerca nella chimica organica raggiunta dalla scuola italiana. Nasini ha, tuttavia, grandi interessi anche e soprattutto nel campo della chimica applicata e della chimica industriale. Studia i gas naturali come le acque minerali. Nel 1895 inizia una ricerca pionieristica sui soffioni boraciferi nel campo geotermico di Larderello, in Toscana, grazie a fondi messi a disposizione da un imprenditore interessato al loro sfruttamento commerciale.  Nel medesimo anno fonda la Società Chimica di Milano, che riunisce imprenditori e chimici (tra loro c’è anche Koerner). Lo scopo è quello di favorire la nascita di una moderna industria chimica italiana.  Nasini contribuisce, probabilmente, più di ogni altro a rinnovare l’indirizzo tecnico e scientifico di questa industria in Italia a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Con risultati, come vedremo, in chiaroscuro.

Ma l’allievo di maggiore valore scientifico della nidiata di Cannizzaro è certamente il già citato Giacomo Ciamician. I suoi primi interessi, tra Vienna e Giessen, in Germania, sono rivolti alla chimica fisica. Il triestino studia gli spettri di emissione di svariate sostanze. Poi si dedica, anche lui, alla chimica organica, fondando in pratica la chimica del pirrolo – un composto aromatico eterociclico (un anello di cinque atomi, uno dei quali non è di carbonio) – e dei sui derivati. Il pirrolo ha una grande importanza in biochimica, perché è una componente di molte molecole biologiche: di molti amminoacidi, dell’emoglobina, della clorofilla, della vitamina B12. Le conoscenze sul pirrolo prodotte da Ciamician e dalla sua scuola troveranno una immediata applicazione nell’industria farmaceutica.

Ma intanto i suoi interessi si spostano anche verso la chimica delle piante. Il triestino studia, in particolare, la capacità che hanno i vegetali di trasformare la luce solare in energia biochimica. Con questa loro capacità le piante (e alcuni tipi di batteri) forniscono energia per tutta la biosfera e, pertanto, possono essere considerate come delle vere e proprie “fonti di energia rinnovabile”.

Gli studi di Ciamician sono davvero pionieristici. E infatti il triestino è considerato il fondatore di una nuova disciplina chimica: la fotochimica.

In definitiva, all’alba del XX secolo intorno a Cannizzaro si è sviluppata una scuola chimica italiana capace di misurarsi, soprattutto nella chimica organica, con le migliori scuole europee e, quindi, mondiali.

 

L’industria chimica italiana all’alba del XX secolo

I chimici della scuola di Cannizzaro, in realtà, hanno ben chiaro l’importanza che la loro disciplina ha non solo nella conoscenza della natura, ma anche nell’economia e nella società. La chimica è coprotagonista in Europa – soprattutto in Germania – di un processo di innovazione che verrà chiamato seconda rivoluzione industriale. L’Italia non ha agganciato la spinta innovativa. La scienza chimica italiana è all’avanguardia, ma l’industria chimica è in ritardo.

Questa l’analisi della situazione proposta dal sempre lucidissimo Giacomo Ciamician in un saggio pubblicato nel 1905 su I problemi chimici del nuovo secolo:

“L’industria chimica ha assunto in breve tempo un’importanza considerevole nell’economia delle nazioni più evolute […]. Il valore commerciale annuo dei prodotti delle industrie chimiche in Germania è salito nel 1897 a 950 milioni di marchi e oggi supera di certo il miliardo […]. In Italia il movimento delle industrie chimiche accenna a un notevole risveglio che speriamo sia foriero d’un fecondo avvenire […]. Ma per elevarsi a nazione industriale mancano all’Italia ancora molti coefficienti., che dipendono più dagli uomini che dalle cose e però per potere basterebbe volere.

Anzitutto vi dovrebbe contribuire l’azione del Governo e del Parlamento. Le nuove industrie sono delicate pianticelle che nel loro primo sviluppo hanno bisogno di assidue cure e magari della serra calda della protezione […].

Alle industrie chimiche sono poi naturalmente necessari i chimici. Ed è questo per noi un tasto assai doloroso. Non v’ha dubbio che in Germania esse devono la loro attuale floridezza al capitale, che da Liebig in poi è stato investito nelle scuole delle chimica,  perché in nessun’altra disciplina il lavoro scientifico e quello industriale stanno in così stretto rapporto. Ora la Germania spende nelle sole università, senza contare i politecnici, in dotazione ai laboratori di chimica annualmente quasi un milione, cifra che sta in triste contrasto con le 90 mila lire assegnate allo stesso scopo dal nostro bilancio dell’istruzione superiore […].

Finalmente anche agli industriali incombono considerevoli oneri, senza di cui ogni progresso diverrebbe impossibile. Il tempo in cui una fabbrica poteva menare fruttuosa esistenza lavorando sulla base di alcune ben sperimentate ricette è finito […].

Le industrie non possono fiorire se abbandonate agli empirici, ci vogliono chimici educati alla ricerca, molti e ben retribuiti. La Germania ne impiega circa 4mila, di cui la maggior parte possiede cultura accademica.”

 Anche questo saggio di Giacomo Ciamician risulta tutt’oggi di straordinaria attualità. Eppure è stato scritto nel 1905, in un altro periodo di crisi dell’industria italiana. Anzi, in un periodo di uscita dalla crisi (non a caso Ciamician accenna a un notevole risveglio in atto). L’economia industriale in Italia aveva avuto, infatti, due momenti significativi di sviluppo: uno a metà del XIX secolo e poi negli anni ’80 di quel medesimo secolo.

Alla fine di questi due cicli la quantità delle produzioni industriali italiane, soprattutto nella siderurgia e nel tessile, è cresciuta. Ma la qualità dei prodotti non è certo esaltante. Sia pure con qualche eccezione – prima tra tutte la centrale elettrica, la prima in Europa, inaugurata il 28 giugno 1883 in via Santa Redegonda a Milano – le industrie italiane sono industrie siderurgiche e tessili che producono beni di bassa qualità. E quasi tutte – compresa la centrale elettrica di Milano – utilizzano tecnologia straniera. Per queste due ragioni la nascente industria italiana non richiede innovazione. Né, di conseguenza, ricerca scientifica.

Quanto all’industria chimica, semplicemente non esiste. Il tentativo di crearne una è fallito. Il governo ha cercato di impiantare un’industria dei coloranti e, almeno, un’industria per la produzione di zuccheri. Ha anche nominato commissioni ad hoc e inviato tecnici all’estero per acquisire il know how. Me non se ne è venuto a capo. Solo dopo il 1887, grazie a Emilio Maraini, l’Italia potrà vantare almeno una piccola industria saccarifera.

Maraini (1853-1916) era nato a Lugano, in Svizzera, e aveva lavorato a Rotterdam, presso la Koch & Flierbohm, un’impresa olandese di spicco nel commercio internazionale delle spezie e di beni alimentari. Per le sue capacità il giovane viene messo a capo del settore degli zuccheri. Una posizione strategica. Rotterdam è, infatti, la porta d’ingresso in Europa dei prodotti saccariferi. E la Koch & Flierbohm domina l’importazione di zucchero da canna da Cuba e dai Caraibi. Maraini acquisisce le necessarie conoscenze e poi si mette in proprio. Dopo aver impiantato una sua  fabbrica a Praga, nel 1886 giunge a Roma con l’obiettivo di creare in Italia un’industria dello zucchero da barbabietola. Ci riesce. La fabbrica nasce, appunto, nel 1887 a Rieti.

Tuttavia il successo di Maraini è, come abbiamo detto, più un fiore nel deserto che non l’inizio della primavera industriale italiana. Anzi, sulle fabbriche del giovane paese arriva presto il gelo. All’inizio degli anni ’90, infatti, la produzione industriale italiana subisce subito un vero e proprio crollo.

La causa è tutta politica: l’ideologia protezionista. Il governo di Francesco Crispi, esponente della sinistra storica, introduce una serie di dazi e balzelli sulle importazioni dall’estero per favorire l’industria (siderurgica, tessile e saccarifera) oltre che le produzioni agricole. Ma, invece di favorire la crescita, la politica delle tariffe di Crispi determina una grave crisi recessiva. I dazi vengono considerati inaccettabili all’estero. E determinano la rottura degli accordi commerciali con la Francia, il paese che accoglie il 40% delle esportazioni italiane. La crisi investe immediatamente le aziende agricole del Sud e l’industria metallurgica. Poi si estende a tutto il paese e a tutta la sua giovane e piccola industria.

Solo dopo il 1896 può iniziare un nuovo ciclo di espansione. Questa volta è un ciclo stabile, dura fino alla prima guerra mondiale, e forte. Qualcuno lo ha definito il «vero miracolo economico italiano».

Alla fine di questo ciclo l’industria del paese, pur restando seconda all’agricoltura per produzione di ricchezza e per numero di addetti, assume una consistenza davvero significativa. Solo poche grandi potenze, in Europa, vantano un’industria più importante. Protagonisti sono alcuni imprenditori destinati a diventare famosi: Giovanni Agnelli (auto), Camillo Olivetti (macchine da scrivere), Giorgio Enrico Falck (acciaio). Ma anche Guido Donegani (fertilizzanti) e Giovanni Battista Pirelli (gomma). Questa volta la chimica c’è. Eccome. Con il settore elettrico e il neonato settore automobilistico, l’industria chimica si propone come il motore trainante dello sviluppo industriale italiano del nuovo secolo.

Tuttavia non vengono risolti i problemi strutturali. In Germania, che è il paese guida della seconda rivoluzione industriale, i rapporti tra il sistema di produzione di nuove conoscenza (la scienza) e il sistema di produzione dei nuovi beni (l’industria) è molto stretto. Il che determina sia una grande capacità di innovazione sia una grande qualità dei prodotti.

In Italia il rapporto tra scienza e industria non si crea, se non in modo occasionale. Le imprese preferiscono, in genere, acquistare tecnologia straniera, piuttosto che investire nella propria capacità di ricerca e di sviluppo. Restando così quasi sempre ai margini delle produzioni di avanguardia.

Ci sono, tuttavia, delle eccezioni.

È il caso dell’industria della gomma, praticamente fondata in Italia da Giovanni Battista Pirelli (1848-1932), un ingegnere, figlio del panettiere di Varenna, che appena laureato, grazie a una borsa di studio, decide di attraversare in lungo e in largo l’Europa per studiare lo sviluppo della seconda rivoluzione industriale. Tornato a casa spiega a  un gruppo di milanesi facoltosi che il futuro è, appunto, nella gomma. Li convince. Con loro chiede e ottenuti i finanziamenti necessari dalle banche e nel 1872 fonda la G. B. Pirelli & C., che presto sarà nota semplicemente come Pirelli. L’ingegnere vuole che la sua fabbrica sia dotata di un proprio laboratorio di ricerca e sviluppo. E, caso abbastanza raro, cerca collaborazione nell’università, trovandola in studiosi di valore come il matematico Tullio Levi-Civita.

È il caso, anche, dell’industria elettrotecnica. Se è vero che le scoperte di grandi scienziati e tecnologi, come Antonio Pacinotti e Galileo Ferraris, non hanno avuto nella seconda parte del XIX secolo una ricaduta a livello industriale e se è vero che anche la centrale elettrica costruita a Milano nel 1883 è avvenuta a opera di ingegneri stranieri con tecnologie straniere, è anche vero che dopo la crisi degli anni ’90 l’elettricità inizia a diffondersi in maniera sempre più capillare nel paese. Tanto che nell’anno 1900 a Milano il Gran Ballo Excelsior saluta la grande novità: il progresso industriale.

La crescita della nuova economia è davvero molto rapida. Intorno al 1914, l’Italia è, ormai, sesta o settima al mondo per distribuzione di energia elettrica. Eppure, a conferma dei limiti che abbiamo ricordato, la produzione scientifica nel campo dell’ingegneria elettrotecnica è una piccola frazione (intorno all’1%) della letteratura mondiale.

Certo, vengono costruite nuove centrali e un’estesa rete di trasmissione. E se i generatori sono acquistati all’estero, le industrie italiane partecipano a questo sviluppo anche con tecnologie proprie. Alcuni industriali, come Ercole Marelli e Adriano Olivetti (che è stato allievo di Galileo Ferraris e ha lavorato come assistente alla Stanford University), cercano in maniera attiva un contatto con la comunità scientifica.

Anche l’industria chimica partecipa allo sviluppo del settore elettrico. La Pirelli, per esempio, proprio grazie al lavoro del direttore dei laboratori di sviluppo, Emanuele Jona (1860-1919), mette a punto sistemi di isolamento dei cavi di assoluta avanguardia. Ma nel complesso – per quanto ormai in fase che, per dirla con Ciamician, è di risveglio – l’industria chimica italiana continua a dipendere molto dall’estero e poco dalla ricerca scientifica.

Abbiamo già ricordato le parole di Ciamician sulle differenze tra il “modello italiano” e il “modello tedesco”. Non sono le parole di un profeta isolato. Ma espressione di un vero e proprio movimento di scienziati che, con una certa frustrazione, si batte per la modernizzazione del paese. È un comune sentire anche tra i chimici italiani. Come dimostra la denuncia che Raffaele Nasini pronuncia nel 1911 ai colleghi e agli italiani tutti in un’assemblea della Società Italiana per il Progresso delle Scienze: riguarda l’«ignoranza […] veramente vergognosa delle persone cosiddette colte, rispetto ai problemi fondamentali della scienza sperimentale, alla sua organizzazione, ai suoi bisogni». È venuta meno, sostiene Nasini, la coscienza scientifica che aveva permeato il paese nel corso del Risorgimento e nei primi anni dopo l’unità d’Italia. Da allora tutto va peggiorando. L’insegnamento è peggiorato. La ricerca non ha progredito. «La scienza sperimentale italiana, non la chimica sola, non ha fatto nessun progresso  per ciò che si riferisce all’apprezzamento del paese, all’aiuto per parte del Governo, al sussidio di provvide leggi, alla sua organizzazione». Occorre recuperare la coscienza scientifica che fu di Matteucci e Sella, di Brioschi, Cremona e Cannizzaro. «È un appello disperato che io faccio […] ad ogni persona che si occupi di scienza», perché se l’Italia continuerà a ignorare la ricerca andrà incontro ad «anni di decadenza e di sfacelo, e il rimedio, se verrà, verrà quando il male sarà ormai troppo grande e avrà impresso tristi conseguenze per tutta la vita del nostro paese».

I chimici sanno che il punto debole dell’industria italiana è, per dirla con parole più in uso oggi, il «modello di sviluppo senza ricerca» che sembra aver scelto.

 

La chimica durante e dopo la prima guerra mondiale

Questa debolezza strutturale diventa evidente durante il primo conflitto mondiale, iniziato nel 1914. Quando l’Italia entra in guerra, infatti, si accorge piuttosto bruscamente che la sua industria chimica (proprio come quella elettromeccanica) è troppo dipendente dall’alleato ormai divenuto nemico, la Germania. Così molti iniziano a pensare che sia d’importanza strategica sviluppare un’industria chimica d’avanguardia tutta italiana.

Per raggiungere questo obiettivo la strada è stretta, ma obbligata: occorre mettere insieme impresa e accademia. E poiché si è in guerra, anche militari e civili. D’altra parte molti uomini di scienza in Europa stanno dando un contributo non solo ideale al loro paese in armi. E i chimici sono tra i più attivi e importanti. Non ha forse un chimico accademico, Fritz Haber, regalato al suo paese, la Germania, la capacità di produrre ammoniaca di sintesi a livello industriale, rendendola indipendente dai minerali di salnitro del lontano Cile? E non è sempre Fritz Haber che ora sta portando sui campi di battaglia una nuova arma di distruzione di massa, i gas asfissiati (sono utilizzati per la prima volta in grande stile nella battaglia di Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915), presentandosi in prima linea a dirigere le operazioni? Qualcuno dice che Haber si comporta come un «generale in camice bianco».

A differenza di molti altri uomini di scienza, che approvano l’entrata in guerra dell’Italia, i chimici italiani sono neutralisti o, addirittura, vorrebbero che l’Italia restasse fedele alla Triplice Alleanza ed entrasse nel conflitto a fianco della Germania. Giacomo Ciamician ed Ettore Molinari sono per la denuncia della guerra in quanto tale. Emanuele Paternò e l’industriale chimico Giovanni Morselli per l’alleanza con l’ammirata Germania.

Va anche detto che, sebbene molti scienziati europei manifestino un inaspettato spirito nazionalista e mettano al servizio degli eserciti dei loro paesi la proprie competenze, sebbene sia stata definita «la guerra dei chimici» a causa dell’uso dei gas, la Grande Guerra non è un «conflitto scientifico». Anche quando si istituiscono centri di “invenzione e ricerca” a fini militari, essi svolgeranno più una funzione di consulenza per ottimizzare i progetti degli stati maggiori che non di organizzatori di una vera e propria attività scientifica creativa con la sistematica applicazione delle conoscenze prodotte. Con il primo conflitto mondiale non nasce un nuovo rapporto tra scienza e società, ma nasce piuttosto, come rilevano Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi: «la consapevolezza dell’utilità della scienza e della necessità di una moderna tecnologia per vincere la guerra».

La chimica italiana fa eccezione. Anche in Italia nasce una forte consapevolezza dell’importanza strategica della chimica, sia  come industria sia come scienza applicata. L’analisi questa volta produce effetti concreti. È sull’onda di questa nuova consapevolezza, infatti, che nasce l’industria chimica italiana.

Tra i principali protagonisti dello sviluppo della chimica industriale italiana, durante gli anni della guerra, ci sono, manco a dirlo, alcuni allievi di Giacomo Ciamician. In particolare Giuseppe Bruni (1873-1946), e Livio Cambi (1885-1968). Cui bisogna aggiungere Giorgio Renato Levi (1895-1965), allievo di un allievo di Ciamician (lo stesso Bruni).

Giuseppe Bruni era entrato a far parte della squadra del triestino trapiantato a Bologna nel 1889, appena dopo la laurea in chimica conseguita nella sua città natale, Parma. Il primo lavoro di Bruni è in chimica organica, ma poi il giovane indirizza i suoi interessi verso la teoria delle soluzioni solide, ottenendo risultati molto apprezzati dal massimo esperto del tempo, Jacobus Henricus van ‘t Hoff.

L’olandese insegna a Berlino. E lì, per affinare le proprie competenze, Bruni lo raggiunge nel 1901. Nella città tedesca il giovane parmense resta un anno, poi ritorna a Bologna. Ma non si ferma a lungo neppure alla corte di Ciamician. Infatti ottiene in rapida successione una cattedra di chimica prima a Milano, poi nella sua Parma, infine a Padova, dove resta dieci anni, continuando i suoi studi nell’ambito della ricerca chimica di base.

Bruni è uomo di vasti interessi culturali. E, infatti, nel 1907 fonda, insieme al matematico Federigo Enriques, al medico Antonio Dionisi, al biologo Andrea Giardina e all’ingegnere Eugenio Rignano, la Rivista di Scienza, divenuta più semplicemente Scientia nel 1910 e destinata ad avere un ruolo importante nel dibattito scientifico e filosofico italiano.

Ma la svolta per il chimico avviene nel 1917, in piena guerra, quando Bruni approda di nuovo e, questa volta, definitivamente a Milano per insegnare chimica generale e inorganica al Politecnico. Da questo momento i suoi interessi superano i confini della chimica teorica e si estendono (anche) nel campo industriale. La Pirelli, infatti, gli affida il suo laboratorio di ricerca e sviluppo. Bruni acquisisce così tutte le competenze del chimico industriale senza perdere quello del teorico. È grazie a questa sua specificità che riesce, in breve, a chiarire qual è la natura chimica della vulcanizzazione a freddo della gomma.

L’industria è, ormai, uno dei fuochi di interesse del parmense. E lo sviluppo dell’industria chimica è il suo progetto politico. Per questo, nel 1919, fonda il Giornale di chimica industriale e applicata, che a partire dal 1935 diventerà La chimica e l’industria, nome che la rivista porta ancora adesso.

Un notevole contributo allo sviluppo della chimica industriale italiana viene anche dal marchigiano Livio Cambi. Nato e diplomatosi ad Ancona, Cambi si iscrive alla facoltà di chimica dell’Università di Bologna dove incontra Giacomo Ciamician. Del maestro triestino Cambi diventa studente “interno”. Con lui, poi, si laurea nel 1906, a soli 21 anni, ottenendo, su indicazione dello stesso Ciamician, la medaglia d’oro quale migliore laureato dell’anno.

Dopo aver ottenuto il titolo, il giovane resta due anni a Bologna, come assistente nell’Istituto di Chimica Generale. Poi si trasferisce a Firenze con Angelo Angeli, un altro allievo di Ciamician, che è stato appena nominato direttore dell’Istituto di Chimica Farmaceutica presso l’ateneo della città toscana. A Firenze Cambi resta un anno, poi si trasferisce a Milano, presso il Laboratorio di Elettrochimica dove resta fino al 1917. Qui realizza un’intensa attività di ricerca, soprattutto nell’ambito della chimica inorganica e dell’elettrochimica. Il suo sguardo è rivolto in particolare alle applicazioni industriali. E infatti nel 1916 ottiene il suo più grande successo: la messa a punto di un sistema di produzione dello zinco per via elettrochimica, primo passo verso la creazione di un’industria italiana dello zinco elettrolitico. Giacinto Motta, il nuovo direttore generale della Edison, gli affida infatti l’incarico di progettare e realizzare un impianto di produzione. Entro il 1917 Cambi mette a punto un impianto pilota. Funziona. Così nel 1918 il chimico marchigiano progetta l’impianto industriale di San Dalmazzo di Tenda per la produzione dello zinco per via elettrolitica, che entra in attività nel 1921. È il primo del genere in Europa.

Intanto Cambi è diventato consulente presso il sottosegretariato delle Armi e Munizioni, che presto diventerà Ministero della Guerra. Mentre nel 1917 passa, come direttore, alla Scuola-Laboratorio di Chimica Industriale della Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri di via S. Marta a Milano, dove resta fino al 1922, quando si trasferisce a Pavia quale professore straordinario di Chimica Industriale.

Quanto a Giorgio Renato Levi è, come abbiamo detto, un allievo (il migliore) di Bruni. Non fa in tempo a laurearsi, nel 1916, che subito è chiamato alle armi. In quanto chimico espleta il servizio militare presso la Società italiana prodotti esplodenti (Sipe) di Cengio, fornendo un notevole contributo all’esercito, che di esplosivi ha bisogno. A guerra finita continua la collaborazione con Sipe, ottenendo risultati di notevole importanza: come la sintesi della benzidina. Diventa per un breve periodo direttore del laboratorio ricerche della Società Italica di Rho, dove si occupa con di coloranti azoici. Con successo: anche se i risultati saranno coperti a lungo dal segreto industriale. Nel 1921 Giuseppe Bruni lo chiama al Politecnico di Milano, come suo assistente. Qui Giorgio Renato Levi continua la sua attività di ricerca e inizia quella del formatore di chimica industriale. Tra i suoi allievi, poi collaboratori, figura il giovane Giulio Natta.

Un altro chimico che partecipa allo sviluppo dell’industria bellica è Nicola Parravano (1883-1938). Non appartiene alla scuola di Ciamician, ma a quella di Cannizzaro. Nato nella provincia laziale, dopo il diploma si è trasferito poi a Roma, per studiare chimica. Tra i suoi insegnanti vi sono Emanuele Paternò e, appunto, Stanislao Cannizzaro. Parravano si laurea nel 1904 e resta presso l’istituto chimico romano come assistente dal 1905 al 1909. Si reca poi a Berlino per sei mesi, presso il laboratorio di Walther Hermann Nernst. Tornato a Roma, ottiene prima la cattedra di Chimica e Tecnologia presso l’Università di Padova, poi, nel 1915, quella di Chimica-Fisica (la prima istituita in Italia) a Firenze. Anche Parravano è un grande esperto di esplosivi e, in quanto tale, durante la guerra diventa membro della Commissione Suprema di Collaudo e Controllo che di esplosivi si occupa a fini militari. I suoi successi sono indubbi. Nel 1917 la Reale Accademia dei Lincei gli conferisce il Premio Reale per la Chimica. E nel 1919 l’Università La Sapienza lo richiama a Roma per ricoprire la cattedra di Chimica generale e inorganica.

Un altro grande esperto di esplosivi è, certamente, Ettore Molinari (1867-1926). Nato a Cremona, non è solo un chimico valente, ma un personaggio con una forte personalità e una visione politica molto precisa: è un anarchico militante, famoso in tutta Europa. Si è laureato in Svizzera, a Basilea; ha lavorato a lungo all’estero; poi è tornato in Italia, contribuendo a fondare nel 1895 la Società chimica italiana. Studia la chimica del tritolo e dei suoi derivati. Per le sue riconosciute competenze (e malgrado i suoi ideali politici), nel 1910 diventa consulente della Società italiana dei prodotti esplodenti, la Sipe di Cengio. Nel 1915 assume la direzione del laboratorio chimico e, in un solo anno, riesce ad aumentare di 40 volte la produzione di esplosivi dello stabilimento ligure. Sempre in piena guerra, nel 1916, Molinari diventa libero docente di chimica tecnologica al Politecnico di Milano e, soprattutto, viene chiamato nel Comitato nazionale tecnico-scientifico per lo sviluppo e l’incremento dell’industria italiana.

La guerra vede la mobilitazione degli scienziati e, tra loro, di molti chimici. Lo stesso Giacomo Ciamician offre il suo contributo, mettendo a punto una maschera antigas che, grazie a un filtro a strati di garze imbevute in soluzioni alcaline, risulta molto efficace contro il cloro (non contro il fosgene). Mentre Arnaldo Piutti (1857-1928) elabora, presso l’Istituto di chimica farmaceutica e tecnologica che ha fondato a Napoli, una tecnica di produzione della cloropicrina (nitro cloroformio), un composto aggressivo (l’Italia lo usa come lacrimogeno asfissiante sul fronte austriaco) che può essere adoperato anche come disinfettante.

Si tratta, spesso, di iniziative spontanee. Ma, ormai è chiaro, s’impone l’esigenza di coordinare questa crescente attività sull’esempio di quanto avviene in tutti i paesi d’Europa. Francia e Gran Bretagna hanno allestito delle vere e proprie agenzie di stato per il coordinamento della ricerca scientifica di interesse militare. In Italia, malgrado la mobilitazione di diversi uomini di scienza, tra cui l’influente matematico Vito Volterra, non si arriva a questo livello di organizzazione. Le prime iniziative di coordinamento, per quanto strano possa sembrare, sono a carattere privato. Il 19 luglio 1915, quando l’Italia è entrata in guerra da ormai due mesi, un gruppo di industriali e intellettuali in prevalenza milanesi – tra loro Giuseppe Colombo, Giovanni Battista Pirelli, Guglielmo Marconi, Luigi Albertini (il direttore del Corriere della Sera) –  decide di costituire un Comitato nazionale di esame delle invenzioni attinenti ai materiali di guerra (Cnig). Il comitato è, appunto, privato. Ma ottiene una sorta di riconoscimento istituzionale quando il governo, non avendo uomini propri, invia il direttore, che è Federico Giordano, quale suo rappresentante presso il Comité Interallié des Inventions, creato dalla potenze dell’Intesa.

Neppure questa evidente anomalia spinge le autorità politiche e militari ad accelerare i tempi. Solo il 24 gennaio 1917 il Ministro della Guerra, Paolo Morrone, decide di allestire un Ufficio Invenzioni e dà mandato al presidente dell’Associazione italiana per l’intesa intellettuale, Vito Volterra, grande matematico e ufficiale del genio, di progettarlo.

Volterra fa presto. L’Ufficio nasce nel successivo mese di marzo, assumendosi molti dei compiti affidati al Cnig. L’anno dopo, il 1918, viene ribattezzato Ufficio Invenzioni e Ricerche (Uir). Si avvale della collaborazione sia di fisici – come Orso Mario Corbino, Giuseppe Occhialini, Antonino Lo Surdo – sia di chimici, come Raffaele Nasini.

Sempre in piena guerra, nel luglio 1916, e sempre per iniziativa di privati cittadini, si forma il Comitato nazionale scientifico tecnico per lo sviluppo e l’incremento dell’industria italiana (Cnst).

Intanto, a causa del blocco navale che impedisce l’importazione dei minerali dal Cile, nasce anche in Italia un’industria per la produzione “artificiale” dell’ammoniaca che si afferma come una delle più avanzate d’Europa.

La Grande Guerra, come ha scritto Luigi Cerruti, segna in generale «una frattura rispetto al passato, una discontinuità che [accelera] in modo irreversibile la modernizzazione del nostro Paese». E determina, in particolare, la nascita della chimica industriale italiana.

 

La chimica e i chimici tra le due guerre

Lo stesso Luigi Cerruti, tuttavia, ci avvisa che la svolta è solo parziale. La Grande Guerra ha determinato lo sviluppo quantitativo del sistema di produzione industriale nel paese. Non la sua evoluzione qualitativa. «Non dobbiamo pensare – sostiene Cerruti – che la situazione di tragica emergenza in cui versava il Paese abbia in qualche modo portato i governi italiani ad un loro “ravvedimento”» .

La politica, la gran parte degli industriali e la stessa opinione pubblica continuano a non considerare la scienza volano dello sviluppo. Come denuncia in piena guerra, nel 1916, il chimico e industriale farmaceutico Roberto Lepetit (1865-1928): «Tutti gli sforzi dei cultori, professori e industriali, diretti a suscitare qualche interessamento per un ramo tanto importante della moderna attività, trascorsero fra l’indifferenza del governo, dei legislatori e del pubblico». E come ripete, in quel medesimo anno, Ettore Molinari: “bisogna che gli industriali si modernizzino tecnicamente. I criteri generali direttivi delle aziende chimiche in Italia devono evolversi, consolidarsi su base più sane, all’infuori delle speculazioni arrischiate e delle mene di affaristi poco scrupolosi”.

La Grande Guerra infine viene a termine. Ma la situazione in Italia non cambia. Tanto che Nasini, ormai capo virtuale di un movimento per lo sviluppo delle scienze applicate, nell’aprile 1919, si sente costretto a denunciare di nuovo la scarsa attenzione che il sistema produttivo riserva alla scienza. L’accusa, tuttavia, si estende anche ai politici: “Né minori opposizioni, minore avversione alle ricerche sistematiche sulle nostre naturali ricchezze le troviamo nei nostri uomini di Stato […] Né sempre si è trattato di opposizioni per rifiuto di fondi; il più spesso per ignoranza, o per malavoglia, o per incredibili, bestiali, questioni di procedura”.

Questi stati d’animo, espressi nel primo dopoguerra e determinati da analisi lucide senza sbocchi apparenti, spiegano perché molti scienziati – e, soprattutto, molti chimici – guarderanno al fascismo con speranza. E tuttavia un processo di modernizzazione del paese negli anni che seguono il primo conflitto mondiale è non solo in atto, ma incide, in qualche modo, anche sulla politica della ricerca e sull’economia fondata sulla ricerca.

Alla fine della guerra, infatti, le potenze vincitrici decidono di creare un Consiglio Internazionale delle Ricerche (Cir), con lo scopo di favorire sia una maggiore integrazione delle comunità  scientifiche sia lo sviluppo di un’industria sempre più innovativa. A rappresentare l’Italia nel Cir è Vito Volterra, che, come abbiamo visto, sta lavorando ai medesimi obiettivi in Italia.

Il grande matematico convince il primo ministro, Vittorio Emanuele Orlando, della opportunità di istituire un consiglio delle ricerche, centralizzato e fuori dalle università, anche in Italia. Il 17 febbraio 1919 il governo nomina una commissione ristretta per predisporre la nascita di un consiglio delle ricerche tutto italiano, di cui fanno parte anche il chimico Raffaele Nasini e il senatore Giovanni Battista Pirelli. Il pendolo sembra oscillare dalla parte giusta. Nel 1921 la pressione degli scienziati riesce a portare al Ministero dell’Istruzione il fisico Orso Mario Corbino, che prende il posto di Benedetto Croce. Ma, nonostante ciò, le vicende politiche tumultuose dell’Italia del dopoguerra rallentano la nascita dell’ente.

Tuttavia è sulla base di questi impulsi che nel novembre 1923 – al governo c’è ormai Benito Mussolini – nasce finalmente il Consiglio Nazionale di Ricerche (Cnr), che, almeno come primo obiettivo, ha quello «di coordinare ed eccitare l’attività nazionale nei differenti rami della scienza e delle sue applicazioni».  Il 12 gennaio 1924, nella prima riunione degli organismi dirigenti, Vito Volterra viene nominato all’unanimità presidente dell’ente che ha ideato. Il Cnr, che è dotato di piena autonomia, assorbe sia l’Uir sia il Cnst e si organizza sulla base di comitati nazionali disciplinari. I primi cinque sono: il comitato per l’astronomia, per la geodetica e la geofisica, per la matematica, per la radiotelegrafia e, naturalmente, per la chimica.

La missione del Cnr, nella visione di Volterra, non è solo quella di coordinare le ricerche scientifiche in Italia in questi e, ben presto, in altri settori. Ma anche e soprattutto di svolgere ricerca in proprio. Con proprio personale e propri laboratori. Ma, almeno all’inizio, la dotazione dei fondi messi a disposizione dal governo Mussolini è misera: appena 175.000 lire l’anno, da confrontare con i 92.000.000 annui (525 volte di più) assegnati dal governo inglese a un’istituzione analoga. L’obiettivo del grande matematico non ha alcuna possibilità di concretizzarsi.

Volterra non è un fascista. Anzi, è un dichiarato antifascista. Che si batte pubblicamente contro la riforma della scuola proposta dal Ministro Giovanni Gentile e che aderisce al manifesto voluto da Benedetto Croce contro il regime. Nell’agosto 1931 Volterra sarà uno dei pochissimi docenti universitari che rifiuterà di giurare fedeltà al fascismo. La sua presenza al Cnr non è più tollerabile e non è più tollerata da Mussolini. Alla fine del suo mandato triennale, nel 1927, il governo fascista modifica lo statuto di autonomia dell’ente, lo dota di un budget alquanto migliore (500.000 lire annui) e nomina alla presidenza Guglielmo Marconi.

L’inventore della radio e premio Nobel per la fisica nel 1909 è un nome noto in tutto il mondo, che il regime può spendere nella sua campagna d’immagine. Ma Marconi non si  limita a prestare la faccia. E mostra di non voler prendere sottogamba l’investitura. Anzi, affronta con impegno il suo nuovo compito. Ha un suo progetto preciso: puntare su alcuni settori strategici. Tra cui ci sono la radiotelegrafia, naturalmente, ma anche la nuova fisica di Enrico Fermi. E, inoltre, la chimica. Marconi intende collegare la ricerca applicata del Cnr all’industria e cerca, inutilmente, una sponda nella Confederazione degli industriali.

Quasi tutti i suoi progetti sono destinati a fallire. Il regime non lo segue. E non dota il Cnr dei soldi di cui avrebbe bisogno.  Alla fine del suo mandato, Marconi può vantare a suo attivo un’unica, concreta realizzazione: la creazione nel 1936 dell’Istituto nazionale di biologia. Non è, invece, riuscito a realizzare né un laboratorio nazionale di chimica, né un laboratorio nazionale di fisica come da più parti si chiedeva.

Il mancato sviluppo del Cnr non rappresenta un’eccezione. Il regime non ha una politica scientifica e non promuove in maniera sistematica la ricerca. Persino nelle sue componenti più raffinate, come quella del filosofo Giovanni Gentile, ha difficoltà a riconoscere il valore culturale della scienza. Gli riconosce però un valore pratico. La ricerca scientifica può e deve essere utile alla Nazione.

Di qui la spinta a valorizzare la ricerca che può essere più immediatamente applicata. Di qui la spinta a valorizzare la chimica. Soprattutto la chimica di cui il regime ha una pur vaga conoscenza. “Come ministro della Guerra – dichiara Benito Mussolini a un convegno della Sips del 1926 – ho molto bisogno della scienza. Bisogna che la scienza mi dica se ci sono dei gas ultravenefici, e soprattutto che cosa si deve fare per combattere altri gas”.

L’approccio pragmatico alla scienza fa sì che il fascismo, al contrario del nazismo, non realizzi un controllo ideologico della ricerca. Non nascerà mai, in Italia, un tentativo di creare una «scienza italiana», come accade in Germania. Non ci saranno casi Lysenko come in Unione Sovietica.

Ciò consentirà ad alcuni gruppi – si pensi ai ragazzi di via Panisperna che diventano leader al mondo nella nuova fisica nucleare, o ai giovani che tra Firenze e Padova ruotano intorno a Bruno Rossi diventando leader al mondo nella fisica dei raggi cosmici – di raggiungere traguardi di assoluta avanguardia. Ma non consentirà uno sviluppo organico né del sistema scientifico del paese né dell’industria innovativa.

Il fascismo non avrà neppure una cultura organica dell’innovazione. Nel corso del ventennio l’intervento statale a vantaggio dell’università e della ricerca non aumenta, non in termini tali, almeno, da reggere minimamente il confronto con gli altri paesi europei. Non cambia neppure la cultura degli industriali. Mentre in molti settori declinano decisamente gli studi teorici.

Ne risente, in maniera decisiva, la chimica teorica italiana, che quasi scompare. Come sostiene Luigi Rolla, Direttore dell’Istituto di Chimica generale dell’Università di Genova, nel corso della riunione Sips 1938:

“A tanto fervore di iniziative nel campo applicativo non corrisponde l’attività dei nostri chimici nella ricerca scientifica pura. Si può confessare che ciascuno di noi, partecipando a riunione scientifiche di chimici in Germania, in Inghilterra, in America, in Francia, abbia deplorato, con amarezza, facendo istintivamente dei confronti, questa grave deficienza. Anche una statistica facile sugli indici di una qualunque Zentralbatt porta ad amare considerazioni”.

Il rapporto tra scienza, industria e fascismo, tuttavia, presenta numerose fluttuazioni. Nel 1925, per esempio, i ministeri economici vengono affidati a Giuseppe Volpi e Giuseppe Belluzzo, il che favorisce la transizione nell’egemonia tra gruppi di potere: dagli imprenditori che rappresentano l’industria tradizionale ai quelli che guidano la “nuova industria” elettrica, chimica e automobilistica.

Di conseguenza cresce la pressione per una più stretta connessione tra imprese e ricerca scientifica utile. Se ne fa espressione lo stesso Mussolini, che nel 1926, alla XV riunione della Sips, sostiene:

“Che cosa ho dato io personalmente alla scienza? Un bel nulla. Che cosa ho dato come Capo del Governo? Ancora molto poco (VOCI: Tutto). La ricerca scientifica in Italia da dieci anni attraversa un periodo di stasi. Bisogna avere il coraggio di confessare che siamo in ritardo … La guerra ci ha impoveriti. Invece la ricerca scientifica moderna richiede un impiego ingentissimo di mezzi. Non per niente io ho ordinato ad una commissione di fare uno studio che mi informi sulla stato dei laboratori dei Gabinetti scientifici universitari, perché è mio avviso che questo sia, se non deplorevole, certamente arretrato”.

Dopo il Cnr, Mussolini favorirà la nascita dell’Accademia d’Italia. Ma il suo impegno per la ricerca di base resta minimo. La valorizzazione della ricerca fortemente applicata può contare invece sulla fondazione o il rafforzamento di diversi centri (tra cui quello per lo studio dei combustibili presso il Politecnico di Milano) o di laboratori industriali (come quello della Montecatini) e raggiunge un apice negli anni ’30, quando prima la crisi economica poi le sanzioni della società delle Nazioni in seguito alla guerra d’Etiopia spingono il regime a ipotizzare e praticare l’autarchia. Mussolini mobilita, in questo progetto del “fare tutto in casa”, anche gli scienziati. Non a caso, proprio a partire dal 1937, il Cnr può finalmente contare su finanziamenti che ne consentano il rilancio. Ma a guidare l’ente non sarà più Marconi, che muore il 20 luglio 1937, bensì un generale, il maresciallo Pietro Badoglio.

Tuttavia mai il fascismo riuscirà a impostare un politica sistematica della scienza e dell’innovazione tecnica. Oscillerà sempre tra propaganda e dilettantismo. Tant’è che persino durante l’autarchia i fondi a disposizione della ricerca, compresa la ricerca applicata, tendono a diminuire. E all’appuntamento, tragico, con la guerra, il paese si presenta senza una sistema di ricerca militare minimamente organizzato. D’altra parte la consapevolezza che il paese nel suo complesso è indietro rispetto alle grandi potenze europee viene resa esplicita, con insolita franchezza, nel Primo convegno per lo sviluppo dell’autarchia industriale che si tiene a Venezia nel 1938.

E tuttavia durante il fascismo, malgrado le difficoltà del Cnr e malgrado l’autoritarismo confusionario del regime, la scienza italiana non resta ferma. Anzi, come abbiamo detto, in alcuni settori raggiunge valori assoluti: tanto che, grazie a Enrico Fermi e ai sui “ragazzi di via Panisperna”, per alcuni anni, dal 1934 al 1938, Roma si afferma come la capitale mondiale riconosciuta della fisica nucleare.

La chimica applicata durante il regime assolve a un ruolo particolare. Sia perché l’industria chimica italiana si sviluppa, anche grazie all’intervento dello stato interessato alla produzione autarchica. Sia perché i chimici aderiscono pressoché in massa e, spesso, con gran convinzione al regime.

La ripresa economica dell’Italia inizia, nel dopoguerra, prima del fascismo. E la chimica ne è da subito protagonista. Con alcune delle aziende che abbiamo già nominato: come la Pirelli nella gomma o l’Acna di Cengio, che opera nel settore trainante degli esplosivi. Ma anche con molte significative novità. Nel 1921, per esempio, Guido Donegani, il presidente della Montecatini, incontra l’ingegnere Giacomo Fauser. Donegani è diventato amministratore della società nel 1910, succedendo al padre. Nel decennio successivo apre almeno 40 stabilimenti in tutta Italia, per la produzione di fertilizzanti e di altri composti chimici. Ma la collaborazione con Fauser segna una svolta, perché porta alla messa a punto di un processo per la produzione di ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico, noto come processo Montecatini-Fauser, grazie al quale l’azienda diventa una delle principali produttrici al mondo del composto che è alla base sia dell’industria dei fertilizzanti sia dell’industria degli esplosivi.

A partire dagli anni ’20 la Montecatini rappresenta un’autentica novità: contribuisce a realizzare una grande industria chimica in Italia, seguendo la strada della stretta collaborazione con i chimici delle università.

Quando poi Mussolini assume il potere, Guido Donegani si schiera con il fascismo. Il che permette all’azienda di espandersi e diversificare, nel campo dei coloranti e delle resine sintetiche. Ma permette al regime di avere una notevole fonte di “prodotti autarchici”, che aumentano sia all’epoca della battaglia del grano – Montecatini si impegna nell’aumento della produttività nel settore dei cereali – sia dopo le sanzioni del 1936, quando la grande azienda chimica tenterà di sostituire con la fornitura di lignite il calo delle importazioni di carbone.

Un altro settore in decisa espansione è quello della chimica farmaceutica. Alcune tappe significative, dopo la fondazione nel 1888 a Napoli della Menarini Industrie Farmaceutiche Riunite, sono: la creazione nel 1919 delle Aziende Chimiche Riunite a opera di Francesco Angelini; la nascita del Laboratorio Farmacologico Reggiano nel 1926; la creazione del gruppo farmacologico Chiesi e della Farmitalia nel 1935.

Nell’anno 1920 la Società di Navigazione Italo Americana (SNIA) inizia a interessarsi del commercio di fibre artificiali e cambia nome in Società di Navigazione Industria e Commercio , per poi assumere quello di Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa (SNIA Viscosa). Con una politica di integrazione e di investimenti, la SNIA Viscosa diventa una delle aziende leader nella produzione del rayon. Esporta l’80% dei suoi prodotti e nel 1925 è la prima azienda italiana quotata alla borsa di New York. L’autarchia ne cambia il profilo aziendale. Nel 1937 la SNIA Viscosa inizia a produrre la Lanital, a partire dalla italica caseina, ma gioco forza nel corso degli anni ’30 la sua attitudine all’export verrà drasticamente erosa.

La nascita dell’industria petrolchimica italiana va attribuita, probabilmente, alla creazione nel 1926 dell’Azienda Generale Italiana Petroli (Agip): un’azienda di stato cui è affidata la missione di produrre e commerciare il petrolio e i suoi derivati. A partire dall’anno successivo godrà di una posizione di privilegio, avendo il governo emanato una legge che attribuisce al demanio la proprietà del sottosuolo e al governo il diritto di autorizzare le attività di estrazione petrolifera. L’Agip, che ha un impianto di raffinazione a Fiume e ne rivela un altro a Porto Marghera nel 1937, assume ben presto una posizione dominante nel campo.

Nel 1936 infine, nasce l’Anic: l’Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, con l’obiettivo di produrre “benzina sintetica”. L’idea è da tempo allo studio, anche avanzato, in Germania. Un paese che, come l’Italia, non ha petrolio ed è costretto a importarlo. Si tratta di una debolezza strategica, che i nazisti vogliono superare un po’ come si è fatto con l’ammoniaca: producendola per via sintetica. Vengono messi a punto e nascono così in Germania diverse fabbriche di “benzina sintetica”.

Mussolini non vuole essere da meno in questo tentativo di affermare l’indipendenza energetica. Soprattutto dopo le sanzioni del 1936, che hanno reso difficile l’approvvigionamento di petrolio, e la conquista dell’Albania, che ha invece reso disponibili notevoli fonti di bitumi viscosi. È per questo che l’Agip, l’Aipa (Azienda Italiana Petroli Albanesi) e la Montecatini si accordano per creare l’Anic e mettere a produzione la trasformazione del carbone e dei bitumi in benzina attraverso un processo di idrogenazione. Gli stabilimenti sono due, uno a Bari e l’altro a Livorno. Non si ottengono, però, grandi risultati. Anche per mancanza di conoscenze teoriche profonde.

Se il fascismo punta sulla chimica, è anche vero che i chimici puntano sul fascismo. Nell’elenco dei 400 candidati dal Gran Consiglio che, con lista unica e bloccata, entrano in Parlamento nel 1929 troviamo molti nomi dell’industria chimica. Da Guido Donegani a Cesare Serono, il fondatore a Torino, della Società per la fabbricazione di prodotti biologici Dott. Cesare Serono e C., che a partire dal 1906 è divenuta Istituto Nazionale Medico Farmacologico Serono con sede a Roma. Da Giovanni Morselli, della Carlo Erba, a Ernesto Belloni, il chimico farmaceutico dirigente dell’ACNA e della Schiapparelli che diventerà, anche, podestà di Milano.

Tra i 400 del Gran Consiglio del Fascismo non ci sono solo i chimici dell’industria, ma anche quelli dell’accademia. C’è, per esempio, Gian Alberto Blanc (1879-1966), professore di geochimica a Roma e autore di un tentativo, fallito, di produrre fertilizzanti potassici. E c’è, soprattutto, il coltissimo Giuseppe Bruni. Fascista della prima ora, se è vero che già una settimana dopo le elezioni vinte da Mussolini, nell’aprile 1924, al Convegno Nazionale di Chimica industriale tiene una relazione su “La chimica nella preparazione e nella difesa nazionale”, in cui sostiene che la guerra è stata “una grande Università popolare all’aria aperta”, che ha insegnato a tutti “che cosa potesse la Chimica”. Bruni non ha tema di esaltare il pensiero “incomparabilmente chiaro e profondo” del nuovo “Capo del Governo”, e di augurare che le menti dei chimici si mostrino “ferme e unite come le verghe del fascio per operare e per servire” la patria e il nuovo governo che la rappresenta.

L’impegno politico non ha eroso gli interessi e le capacità dello scienziato. Nel 1924, insieme a Giorgio Renato Levi, che è suo assistente, crea al Politecnico di Milano il primo Centro italiano di studi strutturistici roentgenografici, ovvero di analisi ai raggi X. A questa scuola si formano, tra gli altri, i giovani Giulio Natta e Adolfo Ferrari.

Anche Livio Cambi aderisce al fascismo, da cui riceve ampi riconoscimenti. Nel 1924 il marchigiano viene chiamato dal rettore dell’Università di Milano, Luigi Mangiagalli, a istituire un corso di laurea in Chimica industriale. È il primo in Italia. Nel 1926 diventa preside della facoltà di scienza dell’ateneo meneghino. Nel 1927 saluta l’”Era nuova” fascista che è, a suo dire, in “stretto collegamento” con “l’impulso di rinnovamento [della] borghesia lombarda”. Nel 1936 ribadisce la sua riconoscenza al fascismo che ha spazzato via il “grigiore del regime liberale” in cui “naufragava ogni iniziativa per il disinteresse, l’assenteismo delle classi dirigenti e dei governi”. L’adesione al regime del grande chimico giunge fino in fondo. Nel 1939, dopo le leggi razziali, Cambi accetta di rappresentare il Partito nazionale fascista nella Corporazione della siderurgia e metallurgia. E all’inizio del 1941 si propone di ridisegnare “il panorama della produzione metallurgica nel dominio dell’Asse” con la speranza di contribuire alla “potenza economica del sistema italo-germanico”.

Ma, forse, il chimico che più ottiene e più dà al fascismo è Nicola Parravano. La sua adesione al regime è addirittura entusiastica. In un discorso su “Il Fascismo e la Scienza”, tenuto nell’aprile 1936, sostiene che la ricerca è una “forza sociale” al servizio del paese ed esalta lo “scienziato fascista”, quale “uomo di  cultura, tecnico applicatore ed individuo etico e politico”.

Parravano riceve molto dal regime: tanto che già alla fine degli anni ’20 ha una funzione dominante nella comunità chimica. Collaborando dopo la guerra con l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, si convince sempre più della necessità che ha l’industria italiana, se si vuole sviluppare, di puntare sulla ricerca scientifica. Per questo contribuisce a fondare e poi dirige l’Istituto Scientifico di Ricerche nel campo siderurgico voluto da Ernesto Breda, creatore a Sesto San Giovanni di una delle maggiori industrie d’Italia. Parravano si afferma come uno dei maggiori organizzatori dell’Istituto Nazionale di Chimica e dei maggiori collaboratori di Guglielmo Marconi al Consiglio Nazionale delle Ricerche. Diventa membro sia del Consiglio Superiore dell’Istruzione sia del Consiglio Superiore della Sanità. È nominato all’Accademia d’Italia, di cui diventa poi l’amministratore. Ottiene riconoscimenti anche all’estero, diventando presidente della Union Internationale de Chimie. L’uomo, nel corso dell’intero ventennio fascista, è un autentico concentrato di potere scientifico.

Ma Parravano non riceve solo incarichi e onorificenze, fornisce anche un contributo di straordinaria importanza al fascismo. Un contributo che raggiunge il suo acme nel 1938, quando  organizza, con l’Associazione Italiana di Chimica, e presiede il X Congresso Internazionale di Chimica. Come scrive Luigi Cerruti:

“Questo congresso fu un vero trionfo per la comunità scientifica italiana e per il regime che lo aveva finanziato. Nell’imponente scenario  dato dalla nuova sede dell’Università di Roma, 2500 intervenuti (di cui 1600 stranieri) affrontarono il tema generale La chimica al servizio dell’uomo, articolato in 11 sezioni che toccavano tutti i temi della vita scientifica, produttiva e civile. Davanti al Re Imperatore, nel suo discorso inaugurale Parravano poteva sentenziare «Tutti guardano a noi», e sciogliere un inno alla chimica: «Scienza divina è la nostra»”.

Certo i chimici non sono gli unici scienziati italiani ad appoggiare il fascismo. Ma tra quelle scientifiche è forse la comunità più numerosa. Le motivazioni dei singoli sono le più diverse. C’è chi lo fa per convinzione. Chi solo per opportunismo. Chi per entrambi. Chi, infine, si piega al compromesso nella convinzione che prima o poi la bufera passerà e intanto l’integrità della scienza potrà essere preservata.

Mario Giacomo Levi (1878-1954) paga in proprio per questa sua ingenuità. Mario Giacomo (da non confondere con Giorgio Renato) è un chimico, grande esperto di combustibili, che nel 1937 si ritrova all’apice della carriera: dirige l’Istituto di chimica industriale e la Sezione combustibili del Politecnico di Milano. Lavora lealmente col regime. Tanto che in una riunione della Sips, proprio nel 1937, da un lato esalta “la profetica veggenza e il superumano coraggio del Capo”  e dall’altro assicura che: “prossimamente la Nazione sarà in grado di prodursi i 4/5 dei carburanti necessari al suo consumo attuale”. Ancora l’8 giugno del 1938, al X Congresso Internazionale e Romano di Chimica, canta le lodi della grande “nazione proletaria”: “l’Italia dell’era fascista”.

Un mese dopo il Duce fa pubblicare il Manifesto della Razza e in autunno il suo governo vara le leggi razziali. Il fascista Mario Giacomo Levi deve lasciare l’università e ogni altro incarico pubblico. Perché ebreo.

La cattedra di Chimica industriale del Politecnico di Milano viene offerta a Giulio Natta, il migliore allievo di Giorgio Renato Levi, che insegna al Politecnico di Torino. Giulio Natta accetta.

Non è il solo docente universitario italiano che prova a convivere col fascismo. Nel 1931, su 1.200 professori ordinari dell’università, solo alcuni (meno di venti) rifiutano di giurare fedeltà al regime, come richiesto dal regio decreto emanato il 28 agosto 1931. Tra loro ci sono due chimici. Uno è Giorgio Errera (1860-1933), docente dell’università di Palermo, che in passato aveva già rifiutato per motivi politici l’invito del Ministro Giovanni Gentile ad assumere l’incarico di Rettore dell’Università di Pavia. L’altro è Michele Giua (1889-1966), docente del Politecnico di Torino, socialista militante. Entrambi lasciano l’insegnamento. Dopo il varo delle leggi razziali e per le sue attività politiche clandestine Giua sarà arrestato e condannato a 15 anni di reclusione. Resterà in carcere fino all’agosto 1943.

Certo, non è semplice opporsi al fascismo. Ma Errera e Giua, insieme a Volterra e a pochi altri, dimostrano che non è neppure impossibile. Sta di fatto che i 102 professori ordinari (il 7% dell’intero corpo docente) cacciati per motivi razziali vengono tutti sostituiti da colleghi che non sanno opporsi o non vogliono opporsi. Alcuni – come il matematico Francesco Severi o il fisico Antonino Lo Surdo –  saranno, addirittura, complici zelanti del regime. E mostreranno un certo accanimento nella persecuzione dei loro vecchi e illustri colleghi.

A causa delle leggi razziali non sono pochi i chimici di grande rilevanza che perdono la cattedra. Oltre ai già citati Giorgio Renato e Mario Giacomo Levi sono cacciati dall’università Cesare Finzi, che insegna chimica farmaceutica a Perugia; Leone Maurizio Padoa, dell’università di Bologna; Ciro Ravenna, che insegna chimica agraria a Pisa.

Ma al di là dei singoli, sta di fatto che poche settimane dopo il X Congresso Internazionale di Chimica, organizzato nel maggio 1938 nella nuova città universitaria di Roma, che sembra aver suggellato il trionfo della chimica italiana e del regime, con il varo delle leggi razziali e poi con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, inizia la rapida parabola che porta al disastro la nazione e la sua comunità scientifica.

 

 Il dopoguerra

Le leggi razziali del 1938 e, poi, la guerra determinano il collasso delle attività di ricerca in Italia. Anche quelle di ricerca applicata. E neppure l’industria – a differenza di quanto era avvenuto nel ’15-’18 – ne esce bene. La causa non va cercata solo nella dispersione degli uomini e nella distruzione di molte fabbriche. Ma anche nell’approssimazione con cui il regime fascista entra nel conflitto, le stesse vicende belliche con diversi eserciti stranieri che occupano il paese, la “fuga” del re e l’esercito lasciato senza guida all’indomani della dichiarazione d’armistizio: tutto questo genera un caos organizzativo e un vuoto di potere che in pochi mesi determina (anche) il disastro della scienza italiana.

Dopo l’8 settembre una nuova classe dirigente assume la guida del paese. Ma la politica della ricerca non muta. Un paese povero non ha fondi per finanziare l’impresa scientifica, vanno sostenendo all’unisono il Presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, e il ministro dell’economia, Luigi Einaudi, anche dopo la guerra in Europa. L’unico contributo che i governi possono dare allo sviluppo scientifico, teorizza il ministro della pubblica istruzione Guido Gonella, è assicurare la stabilità economica e la pace sociale.

Ancora una volta all’Italia manca una politica della ricerca.

Sul fronte industriale la situazione, con la fine della guerra, cambia radicalmente. Si avvia la fase nota come “ricostruzione”. È certo una fase segnata dal successo. Senza, tuttavia, che vengano sciolti gli antichi nodi di fondo. Dopo aver sperimentato per anni l’autarchia, l’economia italiana si ritrova in un regime di libero scambio internazionale. L’industria sperimenta il ritardo tecnologico accumulato rispetto agli altri paesi europei e agli Stati Uniti. Gli industriali pensano di recuperarlo, quel ritardo, acquisendo tecnologie e brevetti all’estero. Probabilmente non hanno alternative, non nell’immediato almeno. Ma, come nota Roberto Maiocchi, sarebbe stato necessario accompagnare questa fase di “importazione in condizioni di emergenza”, con l’attivazione di un’autonoma ricerca industriale per non pregiudicare lo sviluppo futuro.

Tutto questo non viene fatto. La stessa riorganizzazione del Cnr, affidata all’ingegnere Gustavo Colonnetti, si consuma in una strutturale penuria di finanziamenti e determina un forte avvicinamento dell’Ente all’università con una marcata separazione dal mondo industriale.

Tuttavia la scienza italiana ha enormi potenzialità, come rileva un rapporto della neonata Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (Oece) del 1953. E queste potenzialità hanno modo di esprimersi proprio negli anni ’50 e nei primi anni ’60. Accompagnando e, per molti versi, alimentando il “boom economico” con la definitiva trasformazione dell’Italia da paese agricolo in grande paese industriale.

Le potenzialità sembrano trasformarsi in attualità. La scienza italiana conosce infatti una stagione di straordinari successi, con punte di eccellenza assoluta. Sia nella ricerca fondamentale: in fisica, in particolare, della cui ricostruzione si fa carico Edoardo Amaldi dopo la diaspora dei gruppi di Enrico Fermi e Bruno Rossi. Sia nella ricerca applicata: alla Olivetti, l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, mette a punto il primo computer a transistor al mondo e dopo la sua morte i suoi collaboratori realizzano il primo “personal computer”; nello spazio l’Italia si ritaglia una posizione di grande prestigio, mettendo in orbita propri satelliti artificiali, terzi al mondo dopo Unione Sovietica e Stati Uniti.

In chimica i successi non sono certo da meno.

Primi, tra tutti, quelli colti da Giulio Natta. Nato a Porto Maurizio, in Liguria, all’inizio del XX secolo, in una famiglia di giudici e di avvocati, studia e ottiene la maturità a soli 16 anni presso il liceo Cristoforo Colombo di Genova. Al contrario di quanto si aspettano i genitori, si iscrive al biennio di ingegneria presso l’Università del capoluogo ligure, poi nel 1921 si trasferisce al Politecnico di Milano, diventando allievo interno nel laboratorio di Giorgio Renato Levi, dove è da poco giunta dalla Germania (in conto riparazioni belliche) uno strumento per lo studio dei cristalli con i raggi X.

Nel 1921 Natta si laurea in ingegneria chimica, e in capo a un anno ottiene il suo primo incarico di ricerca. Nel 1927 diventa libero docente. In questa fase si occupa della sintesi del metanolo, della sintesi della formaldeide dal metanolo, della sintesi delle aldeidi superiori e infine della gomma sintetica.

Tutti questi studi hanno sia un risvolto fondamentale – consentono un notevole aumento di conoscenze sui meccanismi di reazione e sui catalizzatori – sia un risvolto pratico: perché consentono di migliorare la produzione industriale di questi prodotti. Grazie a Natta, per esempio, l’Italia rompe il monopolio della Germania nella produzione industriale di metanolo. Con la Montecatini il chimico ligure mette a punto una linea di polimerizzazione della formaldeide e infine, nel 1938, contribuisce  alla costruzione di un impianto per la produzione della gomma sintetica a Ferrara.

Natta avrà sempre una grande attenzione per il rapporto fecondo tra la chimica fondamentale, la chimica applicata e l’industria ad alto tasso di innovazione.

Anche per questo nel tempi i suoi interessi si spostano verso il settore emergente dei materiali polimerici. Nel 1932 Natta si reca, con una borsa di studio,  a Friburgo nel laboratorio del fisico Herman Seemann per perfezionare le conoscenze tecniche sulla diffrazione elettronica. A Friburgo lavora anche Hermann Staudinger, tra i primi a riconoscere l’esistenza delle macromolecole e a studiarle. È lì che Natta ha il suo primo incontro con la chimica dei polimeri.

L’anno successivo, il 1933, il giovane ligure ottiene la cattedra di professore di chimica e nel 1939 ritorna a Milano, al Politecnico, per insegnare Chimica industriale, al posto di Mario Giacomo Levi, cacciato via in seguito alle leggi razziali. Natta è da tutti considerato il migliore chimico industriale italiano. E Mario Giacomo non ne farà una questione personale. Quando, dopo la guerra, sarà reinsediato al suo posto, i suoi rapporti con Natta saranno sempre cordiali. Il suo corso – basato sullo studio della termodinamica applicata, della cinetica e della catalisi – risulta subito di livello molto alto.

Le capacità scientifiche del chimico ligure sono ormai così universalmente riconosciute, che nel 1938 il Presidente del Comitato per la Chimica del CNR, Nicola Parravano, che è anche presidente dell’organizzazione che raduna gli industriali chimici, conferisce a Giulio Natta ben 200.000 delle 285.000 lire che ha a disposizione affinché possa portare avanti le sue ricerche sulla produzione di idrogeno. In pratica, Parravano assegna a Natta il 70% dei fondi con cui lo stato finanzia la ricerca chimica.

Nel 1947, a guerra finita, Giulio Natta compie un viaggio negli Stati Uniti con Pietro Giustiniani, un imprenditore che diventerà amministratore delegato della  Montecatini, per studiare il sistema di ricerca e l’organizzazione dell’industria chimica americana. I due restano colpiti dal fatto che la ricerca industriale impiega migliaia di persone e che la produzione ha abbandonato il carbone come fonte originaria e si è rivolta al petrolio. L’industria emergente è ormai quella petrolchimica.

Tornati in Italia, Giustiniani mette a disposizione di Natta le risorse per fare del Politecnico di Milano un centro di ricerca avanzata in chimica, specializzato nella chimica dei polimeri. La ricaduta industriale del progetto ottiene un clamoroso successo dopo che Natta, nel 1952, ascolta il tedesco Karl Ziegler che, nel corso di un convegno a Essen, illustra la reazione di Aufbau che ha appena scoperto. La reazione utilizza catalizzatori metallo-organici e consente di ottenere polimeri lineari di etilene. Giulio Natta ne intuisce l’importanza e convince Giustiniani a invitare Ziegler a Milano e a firmare un accordo in base al quale la Montecatini acquisisce i diritti per lo sviluppo industriale in Italia delle scoperte del tedesco. Natta, da parte sua, ottiene pieno accesso agli studi di Ziegler.

Il chimico tedesco continua i suoi studi e con un nuovo catalizzatore (il tetracloruro di titanio) ottiene il polietilene lineare, che è oggi una della materie plastiche più utilizzate, con una reazione di sintesi a bassa pressione e bassa temperatura, usando tetracloruro di titanio come catalizzatore.

A Milano Natta e il suo assistente, Piero Pino, si concentrano invece su un altro monomero, il propilene, usando una processo di sintesi analogo. L’11 marzo 1954 Paolo Chini, per vedere cosa succede, esegue un processo di frazionamento particolare da cui ricava tre diversi prodotti, l’ultimo dei quali è una polvere bianca, cristallina, con alto punto di fusione. Il giorno dopo Paolo Corradini ottiene  un diagramma di diffrazione ai raggi X, che conferma non solo l’alto grado di cristallinità, ma anche la conformazione spaziale estremamente ordinata del prodotto. Il gruppo Natta ha messo a punto il polipropilene lineare isotattico, con alto grado di stereoregolarità: una proprietà sconosciuta in natura.

In breve Giulio Natta dimostra che il processo che produce stereoregolarità può essere utilizzato nella polimerizzazione di altri monomeri, come lo stirene.

Il polipropilene isotattico, che è una plastica dura e resistente, avrà un grande successo industriale: sarà prodotto a partire dal 1957 e si imporrà al mondo con il nome di Moplen. Sarà usato anche come fibra, con il nome di Meraklon, e come film, con il nome di Moplefan. La Montecatini ne conserverà per decenni il monopolio assoluto. La sintesi del polipropilene isotattico costituisce, nel medesimo tempo, uno dei più grandi successi scientifici e industriali della chimica italiana di ogni tempo.

Negli anni ’60 la plastica si impone non solo come materiale di largo impiego, ma come la «materia della modernità». La gran parte della plastica commerciale è costituita dal polietilene di Ziegler e dal polipropilene di Natta.

Nel 1963 i due otterranno il premio Nobel per la Chimica.

Giulio Natta muore a Bergamo il 2 maggio 1979. Risulta titolare di 316 brevetti, conseguiti tra il 1927 e il 1969. Un caso raro, in Italia, di accademico abile nella soluzione di problemi industriali.

 

Una nuova crisi.

Una nuova crisi nel rapporto tra scienza e società in Italia si consuma nel segno del geologo Felice Ippolito e del chimico Domenico Marotta.

Marotta (1886-1974) è nato a Palermo, dove si è laureato con Giorgio Errera in Chimica e Farmacia  nel 1910. L’anno successivo il giovane si sposta a Roma, iniziando a collaborare con Emanuele Paternò presso L’Istituto di Chimica generale dell’università di Roma. Si mantiene insegnando presso l’Istituto tecnico Leonardo da Vinci, prima di passare quale ispettore del Servizio farmaceutico presso la Direzione generale della sanità del ministero dell’Interno. Nel 1916 ottiene la libera docenza e nel 1919 dà vita, con altri 70 chimici e sotto la direzione di Paternò, all’Associazione italiana di chimica generale e applicata. In quel medesimo anno Paternò lo nomina segretario del Consiglio nazionale di chimica e in tale veste Marotta si trova a organizzare, nel 1920 a Roma, la prima conferenza dell’International Union of Pure and Applied Chemistry (Iupac).

L’esperienza gli consente, negli anni successivi, di dirigere l’organizzazione di ben sei congressi di Chimica pura e applicata, senza mai tralasciare la ricerca. Si interessa di chimica delle sostanze alimentari. E, tra il 1923 e il 1939, studia le farine e la panificazione, fornendo un contributo alla “battaglia per il grano”.

Intanto nel 1934 viene fondato l’Istituto di Sanità Pubblica (Isp) –  che a partire dal 1941 assumerà il nome definitivo di Istituto Superiore di Sanità (Iss) – e Domenico Marotta è chiamato a dirigerne il laboratorio chimico, che con i suoi 19 laureati è il maggiore della nuova istituzione. Subito dopo, il 28 febbraio 1935, Marotta viene nominato direttore dell’Isp. In breve l’Istituto di Sanità Pubblica diventa la maggiore e più attrezzata istituzione scientifica italiana. L’unica a possedere un microscopio elettronico, costruito dalla Siemens in Germania. In piena guerra, quando Roma sarà occupata, i tedeschi sequestrano il microscopio. Ma Marotta riesce a farne costruire uno tutto italiano, con prestazioni addirittura migliori, che diventa operativo nel 1946.

Prima della guerra, il principale obiettivo di Marotta, che conserva anche la direzione del laboratorio di chimica, è la lotta alla malaria. Il chimico siciliano collabora con Alberto Missiroli e con Lewis Hackett, della Rockfeller Foundation,  ottenendo un formidabile successo che porta, di lì a qualche anno, alla completa eradicazione della malattia dall’Italia.

A guerra finita, pur avendo collaborato col fascismo, Marotta resta alla direzione dell’Istituto Superiore di Sanità. Riproponendo nuovi obiettivi. Non più centrati sulla lotta alla malaria o alla malattie batteriche a trasmissione oro fecale (come il colera o il tifo), ma sulla lotta alle malattie virali, sui vaccini e sullo sviluppo dei farmaci antibiotici.

Si tratta di obiettivi strategici nel campo della chimica farmaceutica, perseguiti da Marotta con un metodo e un’organizzazione che hanno pochi pari al mondo. Sta di fatto che il chimico palermitano riesce a far venire a lavorare in Istituto un premio Nobel inglese di origine tedesca, Ernst Boris Chain, che trova migliori le condizioni di lavoro a Roma che non a Londra. Marotta affida a Chain la creazione di un Centro internazionale di chimica microbiologica, dove il premio Nobel porta avanti progetti di ricerca sia di tipo biochimico (il metabolismo dei carboidrati, i meccanismi d’azione dell’insulina) sia di tipo farmacologico (con particolare attenzione agli antibiotici). Grazie a Chain l’Italia diventa uno dei poli mondiali di produzione della penicillina: l’unico, fuori dal mondo angloamericano.

Marotta riesce a portare in Italia anche Daniel Bovet, un ricercatore svizzero che è stato direttore del Laboratorio di Chimica terapeutica dell’Istituto Pasteur di Parigi. Anche a Roma Bovet organizza un laboratorio di Chimica terapeutica. Per i suoi studi sui sulfamidici e gli antistaminici, svolti in Italia presso l’Istituto di Marotta, Bovet ottiene il premio Nobel nel 1957.

Grazie soprattutto (ma non solo) a Chain e a Bovet, nel volgere di pochi anni l’Italia raggiunge una così elevata produttività scientifica nel campo della chimica farmaceutica da consentire lo sviluppo di un’industria di chimica dei farmaci tra le più importanti del mondo.

Quando, nel 1961, Marotta lascia la direzione, l’Istituto Superiore di Sanità conta 10 laboratori (contro i 5 del 1934) e 223 ricercatori (contro i 34 del 1934). E, soprattutto, conta su un grande prestigio internazionale.

Inopinatamente, due anni dopo Domenico Marotta subisce una campagna di stampa che lo accusa di aver utilizzato con disinvoltura i fondi dell’Istituto Superiore di Sanità. Nel 1964 sarà processato e condannato a oltre sette anni di prigione (ridotti a poco più di due anni in appello). Marotta passerà solo una settimana in galera, poi a causa dell’età otterrà gli arresti domiciliari. Ma la magia del suo Istituto è rotta. Chain lascia l’Italia, Bovet lascia Roma. Più o meno negli stessi mesi subisce sorte analoga il geologo napoletano Felice Ippolito, che sta cercando di creare una filiera autonoma italiana nel campo dell’energia nucleare.  E sempre nel giro di quei pochi mesi Enrico Mattei, capo dell’Eni, viene ucciso e Mario Tchou, l’ingegnere dell’Olivetti che ha costruito il primo computer a transistor del mondo, muore in un incidente stradale.

La rinascita scientifica e, soprattutto, tecnologica italiana subisce una pesante battuta d’arresto. Anche la chimica ne risente.

 

L’industria chimica nel dopoguerra

Negli anni ’50 e ’60 l’Italia diventa, definitivamente, un paese industriale. Uno dei più importanti del mondo. La ricchezza aumenta e gli italiani realizzano il «miracolo economico». A questo cambiamento senza precedenti nella storia recente del paese partecipa in larga misura l’industria chimica. In stretta correlazione con al ricerca.

Grazie a Natta e alla Montecatini nasce, come abbiamo detto, l’industria dei materiali polimerici: della plastica, delle fibre sintetiche, degli elastomeri sintetici (gomme). Il che induce lo sviluppo di altre attività industriali. Le nuove fibre sintetiche, per esempio, hanno bisogno di nuovi coloranti. Cercando di rispondere a questa domanda si sviluppa l’Azienda Colori Naturali e Affini (Acna), controllata con una quota di maggioranza assoluta da Montecatini, che in breve diventa in grado di competere anche sui mercati internazionali.

Non c’è solo Montecatini. All’inizio degli anni ’60 nasce la Mossi & Ghisolfi, che produce il polietilene e il poliestere di cui hanno bisogno una serie di altre industrie, da quelle cosmetiche a quella farmaceutica fino all’industria dei detergenti. Negli anni ’70 la Mossi & Ghisolfi diventerà una delle grandi aziende produttrici di polietilene tereftalato, noto come PET.

L’industria delle materie plastiche e, più in generale, dei materiali polimerici caratterizza lo sviluppo economico e persino lo stile di vita italiano. Ma non è la sola industria chimica di successo in Italia. In realtà, dopo la seconda guerra mondiale il ruolo dell’industria chimica diventa sempre più importante in tutto il mondo. La crescita dell’industria automobilistica, per esempio, comporta la sviluppo dell’industria della gomma e della raffinazione del petrolio. La chimica ne è interessata sia per il passaggio dalla gomma naturale alla gomma sintetica sia, soprattutto, per il gran numero di derivati del petrolio che hanno sbocchi commerciali. In definitiva, rapidamente si sviluppa la petrolchimica.

La Società Italiana Resine, per esempio, specializzata già a partire dagli anni ’30 in resine fenoliche estende le sue competenze nel petrolchimico, realizzando il polo di Porto Torres in Sardegna e imponendosi come il terzo gruppo chimico italiano.

Ma un passaggio fondamentale nello sviluppo della petrolchimica e più in generale della chimica italiana è la nascita, nel 1953, dell’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni), l’azienda di stato che si occupa del settore energetico voluta e sostanzialmente fondata da Enrico Mattei che ha il compito di «promuovere ed intraprendere iniziative di interesse nazionale nei settori degli idrocarburi e del gas naturale». L’Eni assume in sé l’Agip, l’Anic e la Snam. E Mattei conferisce all’azienda una grande capacità dinamica, che la porta a sfidare l’oligopolio delle grandi compagnie energetiche internazionali. Sul piano interno l’Eni promuove sia la diffusione del gas (con lo sviluppo di una rete di gasdotti) sia della benzina per automobili (con una rete diffusa di distributori). L’Eni interviene anche nella chimica, non solo realizzando centri di raffinazione del petrolio (come il polo petrolchimico di Gela, in Sicilia, realizzato nel 1959), ma anche creando il polo petrolchimico di Ravenna (1958) che entra in competizione con la Montecatini nel settore dei fertilizzanti.

L’Eni di Mattei – grazie soprattutto, ma non solo, a una sua controllata, la Snam Progetti – punta molto sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo tecnologico per acquisire autonomia e capacità competitiva.

La morte di Mattei determina un deciso cambiamento nella strategia dell’Eni. L’azienda continua a espandersi, ma affievolisce la spinta tipica del suo fondatore all’autonomia e alla ricerca. In realtà, a partire dalla metà degli anni ’60, l’industria italiana tende sempre di più a specializzarsi nei settori della media e bassa tecnologia. E anche le aziende che operano nei settori ad alto contenuto di conoscenza aggiunto, tendono ad acquisire all’estero i brevetti piuttosto che a puntare a un’autonoma capacità di ricerca. La tendenza è favorita anche dallo sviluppo di una rete imponente di medie e piccole imprese.

Un altro carattere importante nella storia dell’industria chimica italiana è l’espansione di Eni in settori della chimica industriale sempre più lontani dal petrolio. La necessità di contrastare il nuovo e potente competitore induce la Montecatini, sotto la spinta di Mediobanca, a fondersi nel 1966 con Edison: nasce così la Montecatini Edison, poi abbreviata in Montedison.

Montedison è una delle più grandi industrie chimiche al mondo. A metà degli anni ’70 conta oltre 150.000 dipendenti e fattura oltre 5,4 miliardi di dollari. Ma nel corso del tempo – vuoi per la forte influenza politica, vuoi per una sempre minore capacità di innovazione – la Montedison va incontro a una serie di difficoltà crescenti. Tanto che, all’inizio degli anni ’90, esce dalla chimica, prima di sparire del tutto.

Purtroppo a Guidare Montedison non c’è più un leader come Giustiniani. Anzi, come scrivono Angelo Guerraggio e Pietro Nastasi: «Fuori Giustiniani, l’azienda cadde sotto il controllo di gente che credeva fosse meglio comprare i brevetti altrui e realizzare attività industriali senza correre il rischio della ricerca».

Anche la SIR segue un processo analogo. Nel 1967 ingloba la Rumianca e si afferma come uno dei colossi della chimica europea. Poi sprofonda in una crisi che la porta, nel 1981, alla scomparsa. I suoi stabilimenti e le sue attività vengono rilevate, ancora una volta, dall’Eni.

Il declino della grande industria chimica italiana è legato all’incapacità di rifondare continuamente se stessa sulla ricerca scientifica e sull’innovazione. Anche per questo è considerato l’emblema del più generale declino della grande industria in Italia.

Certo resta l’Eni. E resta anche una sua capacità di innovare. Come dimostra il recente tentativo (2011)  di creare, con Novamont, un polo di “chimica verde” a Porto Torres in Sardegna. Ma non basta.

 

La chimica italiana contemporanea

All’inizio degli anni ’60, tuttavia, non si consuma solo una transizione di fase nella storia dell’industria chimica. Anche la scienza chimica – e la scienza tout court – nel nostro paese subiscono profondi cambiamenti.

Nel 1963, per esempio, viene creato il Ministero della Ricerca e viene riorganizzato il Cnr. Ma invece di una nuova fase di rilancio, la ricerca italiana conosce una nuova fase di declino. Il Ministero è, infatti, senza portafoglio. E la riforma del Cnr è piuttosto lacunosa e lascia l’Ente del tutto subordinato all’università.

Tuttavia gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) in Italia crescono sia in termini assoluti che in termini relativi: se nel quinquennio 1958-1963 non superavano lo 0,3% del Prodotto interno lordo, nel quinquennio successivo (1963-1968) risultano più che raddoppiati, passando allo 0,7%.

Cambia anche l’università, che inizia a diventare un’università di massa e può contare su un incremento di investimenti che, certo, resta inferiore a quello di altri paesi europei e non. Ma che non è banale.

Grazie a questi investimenti, molti giovani entrano nelle università e negli Enti pubblici di ricerca. Anche negli istituti di chimica. Si tratta di giovani validi, che tendono a integrarsi nella comunità scientifica internazionale. E a partecipare alla ricerca chimica di punta, anche nei settori fondamentali e non solo in quelli industriali.

Ne è un esempio Alfonso Maria Liquori (1926-2000), un chimico napoletano che frequenta Max Perutz e il gruppo, di cui fanno parte anche James Watson e Francis Crick, che tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 studia la struttura delle proteine e degli acidi nucleici.

Negli anni ’60 Liquori cerca di portare anche in Italia, prima a Napoli poi a Roma, lo studio della biochimica e delle macromolecole biologiche magari abbinandolo a quello delle macromolecole di sintesi. Va a lavorare a Parigi con Jacques Monod e François Jacob per studiare i linguaggi della biochimica. Crea a Venezia l’International Center for Theoretical Biology. Fornisce un contributo determinante per la fondazione dell’European Molecular Biology Organization (EMBO).

In questi ultimi anni gli studi accademici, nelle università e negli Enti pubblici di ricerca, sono rimasti separati dall’industria. Anche nel settore della chimica. E la ricerca italiana sconta un gap quantitativo con quella dei principali paesi d’Europa e del mondo. Ma i chimici italiani sono tornati agli studi a tutto campo. Non solo e non tanto nella chimica applicata, dunque, ma anche e soprattutto nella chimica fondamentale.

La chimica italiana – lo dimostrano gli indici bibliometrici – è tra le prime al mondo. I chimici italiani magari sono pochi, ma certamente sono di valore.

Per averne dimostrazione, basta tornare a Bologna. Nell’istituto che all’inizio del XX secolo era di Giacomo Ciamician e che ora è intitolato a Giacomo Ciamician. Lì fino è ancora possibile incontrare Vincenzo Balzani. Sta cercando, con le sue macchine molecolari e con i suoi collaboratori, di realizzare il sogno dell’antico maestro: mettere a punto un processo di fotosintesi artificiale. Si tratta di studi all’avanguardia. Come dimostra il fatto che Balzani è uno dei chimici più citati al mondo ed è stato più volte candidato al premio Nobel. Sono studi che mettono insieme teoria e applicazione e che, come quelli di Giacomo Ciamician, guardano al futuro.

 

Bibliografia essenziale

– Califano Salvatore, Storia della chimica, Bollati Boringhieri, 2011

– Cerruti Luigi, Bella e potente, La chimica del Novecento tra scienza e società, Editori Riuniti, 2003

– Di Meo Antonio, Storia della chimica in Italia, Vignola, 1996

– Pietro Greco, Lelio Mazzarella, Guido Barone, Alfonso Maria Liquori. Il risveglio scientifico nei primi anni ’60 a Napoli, Bibliopolis, 2013

– Guerraggio Angelo e Nastasi Pietro, L’Italia degli Scienziati, Bruno Mondadori, 2010

– Maiocchi Roberto, Il ruolo delle scienze nello sviluppo industriale italiano, in: Storia d’Italia. Annali 3, Scienza e Tecnica, Einaudi, 1980