Migrazioni nella storia recente: il caso degli italiani all’estero dall’Unità ad oggi

Le migrazioni hanno avuto un ruolo fondamentale e decisivo nella storia dell’uomo. La preistoria della popolazione si propone in termini di migrazioni (Storia dell’emigrazione italiana, Antonio Golini e Flavia Amato). Da allora fino a oggi, si usa individuare tre grandi fasi della migrazione umana: la fase preistorica, la fase storica e quella contemporanea, che, secondo gli studiosi, comincia nel 1810/1815 con l’indipendenza delle colonie dell’America Latina e dura poco più di un secolo. Le più importanti e massicce migrazioni dei tempi moderni furono favorite dal sorgere del capitalismo, della grande industria, dalla liberalizzazione economica e politica.

L’evoluzione dell’emigrazione italiana è stata oggetto di molti studi che hanno analizzato a fondo le sue origini e dinamiche. Sebbene l’Italia abbia avuto un cambio di ruolo all’interno delle direttrici migratorie internazionali, passando da paese di emigrazione a paese d’immigrazione, l’interesse per il tema non è mai cessato. Occorre infatti notare che l’Italia è ancora un paese di emigrazione, in quanto il fenomeno migratorio in uscita non è mai cessato del tutto. L’emigrazione italiana all’estero ha profondamente inciso sulla storia economica, sociale e demografica del nostro paese. Circa 27 milioni di italiani sono emigrati all’estero tra il 1876 (anno della prima rilevazione ufficiale degli espatriati) e il 1988 (anno in cui si era praticamente esaurita) (Figura 1).

Numero di espatriati divisi negli anni. Fonte: www.emigrazioneparmense.it

Numero di espatriati divisi negli anni. Fonte: www.emigrazioneparmense.it

Una parte di quelle migliaia di persone ha fatto rientro in Italia per svariati motivi: alcuni perché non furono ammessi nel paese di destinazione, altri perché delusi dal punto di vista economico o professionale, altri ancora perché desiderosi di tornare nella loro terra di origine e ritrovare le radici dopo un periodo all’estero. Pertanto è stata una perdita molto elevata per l’Italia, un paese che nel 1871 contava poco meno di 27 milioni di abitanti e, nel 1991, poco meno di 57.

Nella storia dell’emigrazione italiana possiamo identificare quattro fasi, distinte l’una dall’altra:

-la prima, dal 1876 al 1900;

-la seconda, dal 1900 alla prima guerra mondiale;

-la terza, tra la prima e la seconda guerra mondiale;

-la quarta, dal dopoguerra agli anni ‘60/’70.

L’emigrazione della prima fase (1876-1900) ha una dimensione discreta ma, tuttavia, crescente nel flusso migratorio. A causa di una quasi totale assenza di regolamentazioni delle politiche migratorie e della mancata vigilanza e tutela delle persone, i movimenti degli italiani che emigravano furono totalmente spontanei se non clandestini. In questo quarto di secolo partirono circa 5 milioni di persone: prevalentemente uomini (81%) di età assai giovane (il 16 % aveva meno di 14 anni) e di provenienza per lo più contadina. La prima grande depressione mondiale (1873-79) caratterizzata dal crollo delle derrate alimentari e da una politica protezionistica adottata dal governo, colpisce duramente gli agricoltori spingendoli a cercare i mezzi per sopravvivere fuori dall’Italia. Nel periodo che va dal 1870 al 1913, la produzione del reddito cresce più rapidamente della crescita della popolazione, alzando cosi il reddito pro capite. In particolare nelle Americhe si è registrato un tasso medio annuo dell’1,81%, di gran lunga più forte di quello medio mondiale di 1,30%, e di quello dell’Europa Occidentale di 1,32% (Maddison A., The worls economy: a millenial perspective).

Le mete iniziali furono europee, come Francia e Germania, per poi diventare, a fine secolo anche extraeuropee, come Argentina, Brasile e Stati Uniti. Il primato del Sudamerica, dove gli emigrati confluivano per lo più nella lavorazione della monocoltura, tuttavia decrebbe rapidamente con l’avvicinarsi del 1900 a causa della crisi politica e del settore agricolo. In opposizione a ciò, aumentarono invece i flussi migratori verso gli Stati Uniti d’America. Nella scelta del paese di destinazione influisce anche la provenienza geografica: nel meridione prevalsero le mete extraeuropee, mentre nel settentrione d’Italia le preferenze ricaddero sul continente, soprattutto per la Francia.

La seconda fase, dal 1900 alla Prima guerra mondiale, coincide con l’avvio del processo d’industrializzazione italiana. Questa fase fu definita da molti studiosi la “grande emigrazione”. Sebbene l’Italia in questo periodo vivesse una forte fase d’industrializzazione, questa fu disomogenea, differenziata sul territorio, e incapace di assorbire la manodopera eccedente (espulsa dal settore agricolo e dalle aree rurali). Fu un vero e proprio esodo, considerando che furono 9 milioni gli italiani che emigrarono in quel periodo (una media di 600 000 persone l’anno). Il picco di tale flusso fu raggiunto nel 1913 con più di 870 000 espatri.

L’emigrazione di questo periodo è largamente extraeuropea: il 45% degli emigranti (prevalentemente meridionali, oltre il 70%) espatria in America sebbene una buona parte continui a preferire l’Europa, soprattutto i settentrionali. Le destinazioni europee registrano una forte crescita: Francia, Germania e Svizzera si trovano al centro di tale tendenza. In questa seconda fase, spesso, a emigrare non furono soltanto uomini in cerca di lavoro, ma anche intere famiglie, accrescendo cosi il numero di italiani all’estero (Fig. 2). Tuttavia permane un fortissimo squilibrio tra i sessi, con prevalenza nettamente maschile. A prescindere dal paese di destinazione, c’è un fattore che li accomuna: gli emigrati trovano occupazione sempre negli stessi comparti produttivi, ovvero nelle attività di sfruttamento dei giacimenti, nelle costruzioni di strade e nell’edilizia (Casacchia O., Le migrazioni interne e internazionali).

Fu creato proprio in quel periodo (nel 1901) il Commissariato Generale dell’Emigrazione, con lo scopo di tutelare gli emigranti. Lo scopo era di regolamentare le condizioni per l’espatrio, e rendere disciplinato e protetto il flusso migratorio. Tuttavia i gravi problemi igienico-sanitari e sociali degli italiani che si ammassavano nei porti d’imbarco delle grandi città italiane, come Genova, Palermo o Napoli, furono lungi dall’essere risolti. Un esempio eclatante fu l’epidemia di colera che ebbe luogo a Napoli nel 1911 a causa delle precarie condizioni sanitarie tra le persone in attesa di essere imbarcate. Mark Twain scrive cosi nel suo romanzo Innocenti all’estero: “Civitavecchia è il più orribile covo di sporcizia, d’insetti, d’ignoranza in cui ci siamo imbattuti finora.” (Stella G., L’Orda).

italiani a Ellis Island

La terza fase, quella tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, è caratterizzata da un brusco calo delle partenze. Le cause furono molteplici: tra le prime ci furono le restrizioni legislative adottate in quegli anni da alcuni stati per ridurre e controllare il flusso degli immigrati che sbarcavano cercando fortuna. Gli Stati Uniti furono tra i primi ad adottarle, mediante, per esempio, il famoso Quota Act del 1921 e 1924, con cui furono stabilite le quote massime di uomini da ammettere, soprattutto tra coloro che provenivano da paesi non più graditi, come l’Italia.  Oltre a queste leggi, fu anche la grande crisi del 1929 a far ridurre il flusso degli italiani in America. Lo Stato italiano dall’altra parte contribuì al calo delle partenze portando avanti una politica restrittiva e anti-emigratoria perseguita dal fascismo. I motivi erano il prestigio e il potenziamento bellico, data l’esigenza di trattenere in patria giovani leve da impiegare per scopi militari. L’emigrazione era una soluzione e una valvola di sfogo per una popolazione che si trovava in un periodo di grave crisi economica e con un elevato tasso di disoccupazione. La politica anti-emigratoria del fascismo diede un’alternativa all’emigrazione come valvola di sfogo: i piani di colonizzazione di alcune aree agricole del paese e la colonizzazione in Africa ne furono un esempio.

Se da una parte decresceva l’emigrazione oltreoceano, aumentava invece verso l’Europa, dirigendosi “soprattutto verso la Francia, alimentata anche dai numerosi espatri oltralpe degli oppositori politici del fascismo (specialmente comunisti), e verso la Germania negli anni ’30, specie dopo la firma del Patto d’Acciaio.” (InStoria, periodico mensile). Dal 1920 al 1940, emigrarono circa 3 milioni di italiani, principalmente verso Francia e Germania, supplendo cosi deficienza di manodopera nazionale in agricoltura, edilizia, industria. In questa terza fase, la componente maschile della popolazione emigrata scende (sebbene rimanga la prevalente), mentre si registra un aumento della componente giovane della popolazione (persone di età inferiore ai 14 anni). In base ai dati, s’ipotizza che in questo periodo si spostarono intere famiglie o i famigliari rimasti in patria di persone già precedentemente emigrate.

Il Commissariato Generale dell’Emigrazione, istituito nel 1901, perde in un primo momento la propria autonomia poiché viene incorporato nel ministero degli Esteri, per essere poi sostituito con la Direzione Generale per gli Italiani all’Estero.

Nella quarta e ultima fase, dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta, l’Italia è tornata a fornire consistenti flussi, con circa 7 milioni di espatri. Nello stesso tempo però il nostro paese diventa protagonista di grandi e profondi cambiamenti economici, sociali e politici, che hanno mutato le ragioni e gli effetti dell’emigrazione. La rapida industrializzazione (soprattutto delle regioni del Nord Italia), il boom economico (fra il 1950 e il 1970) e un considerevole aumento del Pil Italiano (da 165 a 522 miliardi di dollari) hanno dato il via a un flusso migratorio interno dalle aree rurali e meno sviluppate verso i grandi centri urbani, e verso le regioni più industrializzate bisognose di manodopera.

Sono due le destinazioni che prevalgono a fine degli anni quaranta: extraeuropea (America Latina, sebbene in calo per le continue crisi economiche e politiche, Australia, Venezuela) ed europea (Francia, Svizzera, Germania). “Peculiare è l’esperienza di emigrazione in Belgio, destinata al lavoro in miniera e improvvisamente abbandonata nel 1956, in seguito alla tragedia di Marcinelle nella quale persero la vita anche 136 minatori italiani” (InStoria, periodico mensile) (Fig.3).

Il giornale l’Unità riporta la notizia della tragedia avvenuta a Martinelle in Belgio nel 1956.

Il giornale l’Unità riporta la notizia della tragedia avvenuta a Marcinelle in Belgio nel 1956.

I flussi migratori verso le destinazioni che una volta erano più appetibili, come gli Stati Uniti d’America, calano a causa delle molte restrizioni agli ingressi adottate dai governi; per cui la ridotta emigrazione che comunque sceglie di partire è costituita principalmente da famigliari di persone che sono già emigrate e aspettano di ricongiungersi. L’Australia nel dettaglio, sebbene fosse considerata nel secondo dopoguerra come il nuovo sbocco emigratorio, perde i suoi flussi immigratori perché troppo lontana.

Durante gli anni cinquanta la meta transoceanica continua a calare sempre di più, mentre s’intensifica la meta europea. I trasferimenti oltreoceano sono in larga parte definitivi, mentre quelli europei sono spesso individuali e temporanei e si caratterizzano per un gran numero di rientri. La vicinanza geografica tra il paese di origine e il paese di arrivo favorisce sicuramente la temporaneità dell’emigrazione. Nel dettaglio, la Germania ha cercato di evitare sul proprio territorio gli insediamenti definitivi a vantaggio di quelli temporanei, con migranti che partivano dalla propria casa all’inizio dell’anno e vi rientravano alla fine. L’emigrazione di questo periodo è in genere più qualificata (numerosi sono i corsi di formazione e di addestramento professionale tenuti anche nei paesi di destinazione) e molto frequentemente controllata e assistita (uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana, Antonio Golini e Flavia Amato,). La maggior parte delle persone che emigrano provengono prevalentemente dal sud Italia: questa, che rappresenta il 36% della popolazione italiana, fornisce il 70% dell’emigrazione continentale e l’80% di quella transoceanica.

Dal 1970 l’Italia si trasforma, e da paese d’emigrazione diventa un paese d’immigrazione. Lo diventa quasi “inavvertitamente” dopo un secolo d’intensa emigrazione. Bisognerà attendere gli anni novanta per avere un completo provvedimento normativo sull’immigrazione straniera con l’adozione della cosiddetta Legge Martinelli.

Una tanto consistente, prolungata e numerosa emigrazione, ha avuto per l’Italia una serie di conseguenze, alcune positive, altre negative, ma tutte di grande rilievo, che devono essere tenute in conto per valutare gli effetti delle migrazioni oggi, dirette verso il nostro paese. Una tra le più evidenti conseguenze è sicuramente la perdita di popolazione e, in particolare, di forza lavoro. In alcune zone del paese la perdita di popolazione è stata talmente imponente da alterare il tessuto demografico, provocando lo spopolamento di alcuni comuni (alcuni in maniera irreversibile) e depauperando il capitale umano. In alcune regioni, il Molise ad esempio, l’emigrazione del secondo dopo guerra è stata di tale portata che, nel 1971, si registrava la metà della popolazione in età lavorativa che ci sarebbe stata in assenza di emigrazione. A causa dello spopolamento si è avuta, di conseguenza, una “razionalizzazione”, forse anche forzata, degli insediamenti umani: i piccoli borghi arroccati in montagna o alta collina sono quasi totalmente scomparsi. Una conseguenza positiva è stata l’acquisizione delle rimesse o dei capitali guadagnati dagli emigrati all’estero: molto spesso i redditi degli emigrati erano di funzione vitale e di sostentamento per le famiglie rimaste in patria, specialmente per quelle meridionali. L’emigrazione ha certamente modificato anche la vita degli uomini, dei famigliari delle persone che sono andate all’estero a cercar fortuna: gli stili vita, gli atteggiamenti, i comportamenti delle persone rimaste in loco sono stati influenzati, sia per gli interscambi con gli emigrati, sia per il ritorno (temporaneo o definitivo) di un gran numero di espatriati con qualità professionali e culturali acquisite all’estero. Un’ennesima conseguenza è stata il consolidarsi di più stretti e intensi rapporti politici, economici e culturali fra l’Italia e quei paesi d’immigrazione nei quali sono insediate influenti comunità italiani.

Se dovessimo fare un bilancio a livello collettivo, l’emigrazione italiana può essere valutata positivamente per la vita delle popolazioni. Tuttavia questa non ha, e non avrebbe potuto da sola, risolvere i gravi problemi di arretratezza economica di tutte le aree di esodo. L’emigrazione ha sicuramente alleggerito la pressione della popolazione ma senza un intenso sviluppo economico, non vi è stato alcun riscatto né risanamento delle aree di esodo. Una politica davvero globale in favore degli italiani all’estero, si è delineata soltanto dopo più di un secolo d’intensa emigrazione italiana, con la prima Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, tenutasi a Roma nel 1975. Solo nel 1989 è stato stabilito per legge che si tenesse il primo censimento degli italiani residenti all’estero.

Secondo quanto riferito dal Ministero degli Esteri, gli italiani all’estero sarebbero 4.500.000, di questi il 35% vive in Europa, l’11% nel Nord America, il 50% nell’America Latina, il 2% in Africa e il 2% in Oceania. Gli oriundi (figli, nipoti, pronipoti o parenti stretti d’italiani che hanno acquisito una cittadinanza straniera) invece, sempre secondo il Ministero degli Esteri, sono 58.500.000: praticamente un’altra Italia (Fig. 4). Di questi oriundi il 3,4 % si troverebbe in Europa (quasi tutti in Francia), il 27,5 in Nord America (principalmente Stati Uniti), il 68,1 nell’America del Sud (in particolare in Brasile e Argentina).

Oriundi nel mondo. Fonte www.chiesacattolica.it

Oriundi nel mondo. Fonte www.chiesacattolica.it

L’opinione pubblica italiana, negli ultimi anni, è talmente coinvolta dai problemi dell’immigrazione straniera diretta verso il nostro paese, che sembra quasi essersi dimenticata dei propri emigrati all’estero, e dei problemi e difficoltà che hanno avuto emigrando molti decenni indietro. Gli stereotipi più diffusi e durevoli del pregiudizio anti-italiano all’estero, nacquero e vennero alimentati principalmente dai giornali satirici stranieri (fig. 5). In tutti i paesi in cui c’è stata una forte e numerosa presenza di emigrati italiani, sono nati su di loro soprannomi di ogni genere: alcuni spiritosi, altri volgari, altri ancora infamanti. Gian Antonio Stella in “L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi”, raccoglie i nomignoli più insultanti rivolti agli italiani all’estero. Tra i più diffusi ci sono Dago (usato nei paesi anglosassoni, dall’emitologia incerta: alcune fonti dicono derivi da they go, finalmente se ne vanno, altre fonti da dagger, ovvero coltello, accoltellatore, in linea con uno degli stereotipi più diffusi sul “popolo dello stiletto”), maccheroni o macaroni o maccarrone (mangia pasta, usato in tutto il mondo e in tutte le lingue), Wop (without passport o without papers, usato in America principalmente) e carcamano (ovvero furbone, quello che calca la mano sul peso della bilancia, diffusissimo in Brasile).

“Occhio zio Sam: sbarcano i sorci!” L’invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d’Europa su Judge, 6 giugno 1903.

“Occhio zio Sam: sbarcano i sorci!” L’invasione giornaliera dei nuovi immigrati direttamente dai bassifondi d’Europa su Judge, 6 giugno 1903.

Negli ultimi decenni l’Italia si è trasformata, com’è ben noto, da Paese di emigrazione in Paese d’immigrazione e ciò ha suscitato un notevole interesse da parte di esperti e studiosi sulle cause sociali, economiche e politiche di tale processo. E’ cosi accaduto che gli studi sulle comunità italiane residenti all’estero, relativamente numerose tra gli anni Sessanta e Ottanta dello scorso secolo, abbiano poi conosciuto un progressivo calo d’interesse. Ma la semi-conclusione dello studio del grande esodo d’italiani verso mete europee e transoceaniche, non ha certo comportato l’automatica risoluzione delle problematiche legate alla vita degli emigrati italiani o dei loro discendenti. Sarebbe interessante rendere di nuovo attuale l’interesse per la ricostruzione dell’emigrazione delle varie comunità italiane: una ricostruzione che, mettendo in evidenza le tappe più significative nel processo d’inserimento (e anche, magari, d’integrazione) nell’ambito dei paesi ospitanti, segua le vicende vissute dalle ormai diverse generazioni di origine italiana residenti oltre confine.

 
 

Bibliografia:

Bevilacqua P., De Clementi A. e Franzina E., Storia dell’Emigrazione Italiana, Donzelli Editore, 2009.
Casacchia O., Strozza S., Le migrazioni interne e internazionali in Italia dall’Unità ad oggi: un quadro complessivo, Franco Angeli, 2002.
Instoria, rivista online di storia & informazione, periodico mensile.
Lucchesi F., Italiani d’Australia, l’emigrazione valtellinese nel Nuovissimo continente dalle origini ai giorni nostri, Pàtron Ediotre, Bologna, 2011.
Maddison A., The worls economy: a millenial perspective, Development Centre of the Oecd, Parigi, 2001.
Stella G. A., L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, 2002.
chiesacattolica.it
emigrazioneparmense.it