Qualcosa, là fuori

Qualcosa, là fuori è il titolo dell’ultimo romanzo di Bruno Arpaia.

«Ma vi rendete conto? Qui, ormai, siamo alla fine della civiltà della scrittura e tutti se ne fregano…Invece è una catastrofe, stiamo tornando indietro di centinaia d’anni e il mondo tira dritto come se niente fosse… Cultura? …Qui, gratta gratta, il novanta per cento di quello che si spaccia per cultura è puro e semplice intrattenimento. Invece la cultura è anche fatica, tempo, pensiero… E se l’86 per cento dei ragazzi praticamente non sa nemmeno leggere, vuol dire che a poco a poco perderemo pezzi, saperi, conoscenze…E torneremo indietro. Ma come fate a non preoccuparvi?».

Sono questi i risultati di una discussione (alle pagine 73 e 74 del romanzo di Bruno Arpaia Qualcosa là fuori, Guanda 2016) tra amici in un contesto storico immaginato, comunque in questo secolo, quando la Terra potrebbe essere in gran parte devastata dagli effetti fortemente negativi dei mutamenti climatici.

Mi sembra molto importante che una discussione del genere avvenga tra i protagonisti di un romanzo e che in un romanzo si parli del futuro del pianeta nel quale vivono sette miliardi e mezzo di persone che saranno tra nove e dieci quando potrebbe avverarsi quanto si teme. È bene che ciò avvenga perché è uno strumento utile per fare in modo che ciò che si teme non avvenga. Intendo dire che se il dieci, quindici per cento di quelli che sanno leggere e che leggono soprattutto romanzi e meno saggistica, si renderà conto che il rischio della catastrofe che potrebbe portare all’estinzione dell’umanità è reale, se ciò accadrà sarà anche per merito dell’informazione mediata da romanzi come questo.

Né solo come questo. Mi piace ricordarne almeno altri tre che vanno in questa direzione: ancora Bruno Arpaia per Guanda L’energia del vuoto (2011), Ian McEwan, Solar, (Einaudi 2010) e Cormac McCarthy, La strada, (Einaudi 2007).

I primi  sono associabili al comune intento, non manifestato ma evidente, di far sapere che una catastrofe può non essere lontana. L’altro, La strada, come per certi versi anche il primo di Arpaia, sono già nella catastrofe: padre e figlio vi viaggiano attraverso le rovine di una Terra ridotta in cenere, spingendo un carrello con un po’ di cibo, verso l’oceano dove sperano di trovare calore e vita. È un dialogo lungo e commovente quello tra padre e figlio che cerca di dare risposte ala domanda : “ce la caveremo, vero, papà?” “sì. Ce la caveremo” è la risposta necessariamente rassicurante. Rassicurante perché data ad un figlio bambino al quale bisognava anche spiegare perché non si poteva prestare aiuto a qualche altro disperato incontrato lungo il viaggio. Perché non ce n’era per tutti e, come si dice, “mors tua vita mea” tanto da alimentare persino il cannibalismo.

Quella di McCarthy è una Terra fredda, nevica, piove, bisogna ripararsi e accappottarsi per sopravvivere. E accendere il fuoco ogni volta che si trova qualcosa da bruciare. Il fuoco. Un’altra fondamentale e rivoluzionaria invenzione umana che mi ricorda un altro libro Il più grande uomo scimmia del pleistocene di Roy Lewis (Adelphi 2001) nel quale uno dei più divertenti dibattiti avviene tra Edward e il fratello Vania: «Stavolta l’hai fatta grossa, Edward» é il commento di Vania quando si rende conto che il fratello si appresta ad “addomesticare” il fuoco. Naturalmente il dialogo tra i due fratelli che rappresentano il “progressista” e il “conservatore”, é solo il frutto della bella fantasia di uno scrittore, ma é anche un modo per datare a 500.000 anni fa l’inizio di azioni umane come possibili cause di rischi che potessero materializzarsi in disastri. «Potresti bruciare la foresta. Che fine farei io, allora» era la preoccupazione di Vania.

Ma, quella dell’addomesticamento del fuoco fu una “benedetta” invenzione che non era stata realizzata per provocare incendi e, come scrive Terry Pratchett nella presentazione al volume: «è anche un modo di ricordarci che i problemi del progresso non sono cominciati con l’era atomica, ma con l’esigenza di cucinare senza essere cucinati e di mangiare senza essere mangiati».

Non è andata così. E la maggior parte delle grandi invenzioni umane che portano la firma dell’ingegno di scienziati e di oscuri protagonisti è stata adattata ad interessi personali e/o speculativi che ne hanno negativamente modificato le premesse alla loro base. L’invenzione dell’agricoltura, la rivoluzione industriale, la trasformazione delle energie fossili e via elencando si possono considerare momenti di fondamentale importanza negli ultimi 12.000 anni nella storia dell’umanità e nel progressivo e sempre più diffuso miglioramento della qualità della vita. Non era certo nelle intenzioni dei loro “inventori” trasformarle in uno strumento di inquinamento e di accumulo di gas serra in atmosfera.

Di quei gas, cioè, che, come sostiene la massima parte degli scienziati che studiano questo argomento, sono causa dei mutamenti climatici dalle conseguenze gravissime per l’ambiente terrestre e per i suoi miliardi di abitanti. E  che caratterizzano le preoccupazioni delle quali si fanno portavoce, variamente e in modi e in contesti diversi, i protagonisti dei quattro libri che citavo.

Per Napoli, per esempio, perché è nato a Napoli Livio Delmastro, il neuroscienziato protagonista del bel romanzo di Bruno Arpaia (Qualcosa, là fuori). Un bel romanzo, ma mi piacerebbe aggiungere “di fantascienza”. Invece no: è un libro che, pur romanzando date e luoghi, prende spunti e riferimenti dalle valide ricerche e informazioni scientifiche che delineano scenari di assoluta preoccupazione per il nostro futuro se, trascurando quanto concordato a Parigi a dicembre 2015, si dovesse continuare ad accumulare in atmosfera quelle sostanze che sono alla base dei mai troppo temuti mutamenti climatici.

Le città di mare sono quelle che alimentano maggiori preoccupazioni sia per il previsto innalzamento del loro livello, sia per l’incremento degli “eventi estremi”.

E le ondate temporalesche toccarono anche Napoli nel racconto di Arpaia: «un nubifragio senza precedenti che imperversava proprio nella direzione sbagliata e una rarissima marea equinoziale sommarono i loro effetti per spingere migliaia di tonnellate d’acqua verso la città sommergendo quasi del tutto il porto, via Marina, via Caracciolo, la Riviera di Chiaia e Mergellina». Ne scaturirono, morti, danni alle cose, abitanti evacuati. Anche la metropolitana fu invasa dalle acque, ma per questo non c’è bisogno di mutamenti climatici.

È quello che può accadere? La risposta realisticamente più corretta è sì. Può accadere se alle parole scritte e orali delle tante “conferenze” che da oltre venti anni hanno affrontato il problema dell’ “effetto serra” e dei “buchi” nell’ozonosfera sino alla conferenza di Parigi che prima ricordavo, non seguiranno fatti capaci di invertire la tendenza nel rispetto degli impegni scritti e sottoscritti.

Intanto, e tanto più se questo non avvenisse, aumenterebbe enormemente il numero dei migranti. Perché a quelli che oggi per vari e differenti motivi fuggono dalle loro terre d’origine si aggiungerebbe  il nuovo flusso dei “migranti ambientali” costretti ad abbandonare i loro Paesi desertificati e inabitabili, dal Sud verso la Scandinavia. E mica solo dall’Africa verso l’Europa.  Delmastro che aveva insegnato a Stanford, riferisce all’amico Victor che «anche qui ci sono milioni di agricoltori che abbandonano le terre, di profughi che si spostano verso il Nord della California, dalla costa del Golfo, dalla Florida… è un disastro, Victor. Non so fino a quando riusciremo a resistere».

E Livio diventa anche lui un migrante da una Napoli “diventata un inferno” e che «a poco a poco rimaneva senza elettricità e senza fogne, con l’immondizia in strada che si arrampicava sino ai piani alti delle case, le strade sempre più sconnesse e mai riparate…».

È una sorte veramente incombente se non si vorrà prendere atto del rischio che già corre l’umanità.

Saremo tutti costretti a fuggire e a trasformarci in migranti? Noi oggi presenti sulla Terra no. Ma i figli e, soprattutto, i nipoti certamente sì. Sì, a meno che chi ci governa, proiettando concretamente nel futuro gli scenari che realisticamente oggi si ipotizzano, non intervenga dal presente per modificarne le caratteristiche. Il problema è che – come scrive McEwan (Solar) ricordato da Arpaia: «… come tutte le persone di sua conoscenza, anche lei non era in grado di prendere la cosa seriamente, non fino in fondo almeno. La vita quotidiana non lo permetteva».  D’altra parte – ricorro ancora ad una citazione da Arpaia – (Niels Bohr) «è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro».

D’altra parte sono almeno trent’anni che quelli tra noi più attenti al problema ne discutono con preoccupazione. Per cui, come scrive McCarthy: «Guardati intorno. Non c’è profeta nella lunga storia della Terra a cui questo momento non renda giustizia. Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione».