Est modus in rebus. Stare nei limiti

La combustione delle fonti fossili d’energia, la produzione di cemento, l’uso e le trasformazioni d’uso del territorio (compresa la deforestazione) sono le cause principali dell’accumulo di CO2 e altri gas serra in atmosfera e dei cambiamenti climatici in corso.

Le più recenti e autorevoli valutazioni pongono particolare enfasi sugli effetti tangibili dei cambiamenti climatici, tra cui la crescente severità con cui si presentano gli estremi climatici: ondate di calore, siccità, alluvioni, inondazioni e intrusione marina (Hansen et al., 2013; IPCC, 2014).  Queste valutazioni dicono che c’è una urgenza a ridurre le emissioni di CO2, perché la longevità del carbonio nel sistemi climatico (Archer, 2005) e la persistenza del conseguente riscaldamento (Solomon et al., 2010) potrebbero condurre a inevitabili, altamente indesiderabili, conseguenze.

Nell’ultimo decennio il tasso di crescita della CO2 atmosferica è stato pari a 2,1 ppm l’anno, il più alto da quando sono iniziate le misure dirette in continuo dell’atmosfera. L’alterazione della concentrazione di gas serra ha prodotto uno sbilanciamento energetico di 0,91±0,10 Watt al metro quadro (W m-2), sufficiente a far aumentare di quasi 1°C la temperatura media globale dell’atmosfera e di generare il caos climatico che abbiamo di fronte.
Nonostante ciò le emissioni globali di CO2 continuano ad aumentare, poiché i combustibili fossili rimangono la fonte primaria di energia. In mancanza di politiche e misure per piegare il trend di emissioni dei gas-serra, gli scenari proposti dal quinto rapporto di valutazione dell’IPCC prevedono un riscaldamento fino a 5-6°C.
L’accordo raggiunto a Parigi al termine della XXI sessione della Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione ONU sui cambiamenti climatici ha accolto le esortazioni della scienza di non oltrepassare i 2°C di riscaldamento globale rispetto alla temperatura media dell’era pre-industriale ed evitare quindi pericolose e caotiche interferenze con il sistema climatico.

 

Per rispettare questo impegno la comunità mondiale deve ridurre progressivamente l’uso di combustibili a base di carbonio, attraverso l’adozione di pratiche di maggiore efficienza energetica e lo sviluppo di tecnologie energetiche alternative, giungendo in questo modo a stabilizzare la concentrazione di questi gas al di sotto di una soglia di sicurezza.  Agli inizi di giugno 2016 (provare al sito https://www.co2.earth per credere) la concentrazione atmosferica di CO2 ha raggiunto 407 parti per milione (ppm), 127 ppm in più dell’era pre-industriale.
I cambiamenti climatici, per via della oggettiva gravità del tema, della frequenza e dell’intensità degli eventi estremi (e per via della relativa comprensibilità) hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e delle istituzioni più di altri temi ambientali globali di natura antropogenica.  Tuttavia ve ne sono altri, similmente gravi e seri, che non ricevono una corrispondente attenzione, sia dal mondo scientifico sia politico e mediatico e sono stati in qualche modo oscurati.

Per esempio, non ci sono titoli sui giornali che strillano contro il fallimento delle conferenze internazionali che hanno a che fare con livelli pericolosamente alti di azoto e fosforo nelle acque.  Difatti l’ecosistema globale viene avvelenato con l’uso di fertilizzanti azotati e fosfatici, creando vaste zone morte negli oceani e nei laghi di tutto il mondo.  Dal 1913, da quando è stato sviluppato a scala industriale il processo industriale Haber-Bosch, che consente la fabbricazione di fertilizzanti azotati a partire dall’azoto atmosferico, abbiamo aumentato la produttività agricola e la disponibilità di cibo e fibre.  In questo modo, però, il ciclo bio-geo-chimico dell’azoto (e del fosforo, attraverso diversi processi industriali) è stato profondamente modificato. Sottratto sotto forma molecolare (N2) dall’atmosfera, l’azoto finisce nel suolo, nei corpi idrici, nella biosfera terrestre e nell’atmosfera, in forme reattive. Per esempio sotto forma di protossido di azoto (N2O), uno dei più importanti gas serra non-CO2,. dotato di un forzante radiativo molto potente e un tempo di permanenza in atmosfera molto lungo (120 anni).  Le fonti naturali di N2O sono gli oceani, le foreste pluviali e i batteri presenti nel suolo, mentre proprio l’agricoltura è la fonte antropica principale di N2O.

 

Uno studio pubblicato all’inizio dell’anno su Science (http://www.sciencemag.org/news/2016/02/record-ozone-hole-may-open-over-arctic-spring) ha riproposto all’attenzione internazionale la questione del buco dell’ozono (che è la causa dell’aumento di radiazioni UV-B, una grave minaccia per la salute umana e per tutte le specie e gli ecosistemi che le ospitano).  L’immissione in atmosfera di inquinanti atmosferici persistenti (in gran parte di natura antropica: clorofluorocarburi, halon, tetracloruro di carbonio, idro-bromo-fluoro-carburi, ecc.) e un flusso d’aria straordinariamente fredda hanno causato la comparsa in inverno di un buco insolitamente profondo nello strato dell’ozono protettivo della Terra, sopra l’Artico.  Ora che la luce del sole è tornato sull’Artico dopo il buio dell’inverno boreale e la temperatura è aumentata (favorendo le reazioni tra i CFC e l’ozono) c’è il rischio che il buco dell’ozono diventi ancora più profondo.  In più gli scienziati sono preoccupati per gli effetti che la luce ultravioletta in eccesso, che entrerà nell’atmosfera a causa dello squarcio della stratosfera, potrà avere sulla salute umana e sugli ecosistemi e per il fatto che il riscaldamento globale potrà allargare il buco dell’ozono.

La perdita di biodiversità, a livello genetico, di specie e di ecosistema, procede con una progressione senza precedenti: circa 1000 specie su un milione di specie conosciute all’anno.
L’attuale ritmo di estinzione delle specie è considerato da 100 a 1.000 volte superiore a quello registrato in epoca pre-umana, facendo ritenere che siamo di fronte a una nuova (la sesta) estinzione delle specie (questa volta per cause antropogeniche), persino superiore a quella che ha segnato la fine dei dinosauri.  Dal 1970 a oggi il Living Planet Index (LPI) è diminuito di oltre il 30%.  Un’indagine condotta in 16 Paesi, dal Sud America all’Indonesia, afferma che il 25% delle 625 specie di primati oggi conosciute è in pericolo di estinzione, a causa della caccia, del commercio illegale, della distruzione degli habitat, dei cambiamenti climatici.

Per contrastare la perdita della biodiversità la comunità internazionale ha adottato nel 1992 la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD). La CBD prevede tre obiettivi principali: la conservazione della biodiversità a scala globale, l’uso sostenibile e durevole delle sue componenti e un’equa distribuzione dei beni e dei servizi che ne derivano. Nel 2010 i governi dei Paesi che aderito alla CBD hanno approvato il Global Strategic Plan, la strategia per la tutela della biodiversità mondiale per il periodo 2011-2020.  Il piano prevede 20 obiettivi (da misurare con 56 indicatori), complessivamente noti come Aichi targets, che definiscono il contesto di riferimento giungere poi ai target nazionali o regionali.
Nel 2014, Nel corso della XII sessione della Conferenza dei Paesi che hanno sottoscritto  la Convention on Biological Diversity (CBD), è stato presentata la quarta edizione del Global Biodiversity Outlook (GBO-4, 2014), che fa il punto sui progressi da raggiungere entro il 2020.  Purtroppo il GBO-4 ci dice che gran parte degli sforzi internazionali per raggiungere i target di Aichi stanno fallendo miseramente e che, se non si cambia passo, gran parte delle nazioni non riusciranno a raggiungere gli obiettivi.  La situazione delle specie più minacciate del pianeta, che comprendono il 90% di tutti i lemuri e molte specie simbolo, come giraffa dalla lingua blu, sta peggiorando invece di migliorare. “Mediamente Il rischio di estinzione per uccelli, mammiferi, anfibi e coralli non mostra alcun segno di diminuire”, dice il rapporto.

 

Uno studio pubblicato nel 2009 da un gruppo internazionale di scienziati (Rockstrom et al., 2009), poi ripreso da un nuovo gruppo scienziati nel 2015 (Steffen et al., 2015), ha individuato nove processi geologici, fisici e biologici che regolano la stabilità e la resilienza del sistema Terra, come pure le interazioni tra gli ecosistemi terrestri, marini e l’atmosfera.   Questi processi—che includono oltre ai cambiamenti climatici, alla trasformazione dei flussi bio-geo-chimici di azoto e fosforo, alla riduzione dell’ozono stratosferico, alla perdita della integrità della biosfera, anche la trasformazione di uso del suolo, il rilascio di nuove sostanze, il carico di aerosol atmosferico, il prelievo di acqua dolce, l’acidificazione degli oceani—sono rimasti sostanzialmente stabili dall’inizio dell’Olocene. Viceversa, dall’inizio dell’era industriale stanno subendo profonde modificazioni a causa delle attività umane.
Le alterazioni di questi processi stanno imprudentemente guidando il sistema terrestre in uno stato molto meno ospitale, danneggiando gli sforzi per la prosperità delle società viventi del pianeta e portando a un peggioramento del benessere umano in molte parti del mondo, compresi i Paesi ricchi.

Essendo la Terra un sistema unico, complesso e integrato, i processi individuati operano come un insieme interdipendente e le interazioni che si generano tra essi possono creare feedback stabilizzanti o destabilizzanti.
Gli autori dei due studi, pur consapevoli che un’analisi sistematica e quantitativa delle interazioni tra tutti i processi rimanga oltre la portata della attuale capacità di osservazione e modellizzazione, sulla base della conoscenza del funzionamento e della resilienza del sistema terrestre, ritengono che il pianeta operi chiaramente all’interno di stati ben definiti e hanno proposto un confine planetario e uno spazio operativo sicuro per ognuno dei processi individuati.  Il superamento di questi confini può innescare una cascata di effetti negativi, mettendo la vita umana e la civiltà in pericolo e alterando irreversibilmente la vitalità degli habitat e delle specie. Viceversa, restando entro questi confini, la vita può andare avanti.

 

Ma quali sono questi confini? Come si fa a determinarli? Quanto azoto possiamo distribuire su un ettaro di suolo? Quante specie animali e vegetali o quanta estensione di un bioma forestale possiamo permetterci di perdere senza compromettere l’integrità biologica del pianeta?
Mentre alcuni dei confini proposti sono relativamente semplici da definire poiché input e variazioni locali contribuiscono alla definizione di un limite planetario, viceversa altri (come ad esempio la trasformazione di uso del suolo e l’integrità biologica) sono ritenuti complessi proprio perché complessi sono i processi dei sistemi umani ed ecosistemici e non sono facilmente associati a soglie globali o regionali  provate e conosciute.

Nella tabella 1 sono presentati, in corrispondenza dei nove processi planetari, i valori attuali delle metriche che li rappresentano e i  confini proposti dallo studio prima citato.  Così per i cambiamenti climatici, la metrica è rappresentata dalla concentrazione atmosferica di CO2,[1] il cui valore attuale  è 407 ppm CO2, mentre  il confine proposto è  di 350 ppm.  Per la biodiversità la metrica proposta è il numero di estinzioni di specie l’anno rispetto a ogni milione di specie esistenti (E Ms a-1).  Attualmente siamo a un livello di estinzioni pari a ~1.000 E Ms a-1, mentre il confine proposto è di 10 E Ms a-1.
Chiaramente, la soglia dei cambiamenti climatici dipende dalla capacità di rimanere nello spazio di sicurezza per i processi che regolano l’acqua dolce, il territorio, l’aerosol, l’azoto e il fosforo, gli oceani e la composizione degli spazi stratosferici. Trasgredire il limite dell’azoto e del fosforo può erodere la resilienza di alcuni ecosistemi marini, riducendo potenzialmente la loro capacità di assorbire CO2 e influenzando così il confine climatico.  In sostanza, non possiamo permetterci il lusso di concentrare i nostri sforzi su uno dei processi e un relativo confine in modo isolato dagli altri. Se un confine viene trasgredito, necessariamente altri confini potranno trovarsi nella condizione di essere a grave rischio. Per esempio, cambiamenti significativi d’uso del suolo in Amazzonia potrebbero influenzare risorse idriche lontane, come quelle del Tibet.

L’idea che si possa definire un set di  planetary boundaries, oltre i quali i cambiamenti di alcuni processi bio-geo-fisici planetari possono  portare il sistema terrestre al di fuori di uno spazio di sicurezza per l’umanità, sta attraendo un grande interesse all’interno della comunità scientifica. Alcuni studi hanno accolto l’idea dei confini planetari e hanno proposto nuovi limiti per le variabili di controllo, come nel caso della integrità biologica (Mace et al., 2014), investigando le interazioni con altri processi e confini, e suggerendo le aree su cui gli scienziati e i decisori politici dovrebbero focalizzarsi.
All’interno di autorevoli organizzazioni non-governative, come il Programma ONU per l’Ambiente e l’Agenzia Europea dell’Ambiente,  il concetto di planetary boundary è già diventato un linguaggio comune. Alcuni governi, tra cui quello svedese e svizzero, stanno già supportando il concetto di planetary boundaries e hanno avviato il processo di trasferire a scala nazionale o regionale (scaling-down) i limiti proposti da Steffen e colleghi (Nykvist et al. 2013; Hy et al. 2015).   L’approccio finora seguito dai singoli Paesi per calcolare i limiti nazionali è quello che viene definito di «assegnazione- ibrida». Le risorse sono ripartite prima ai Paesi e poi alle persone, i beneficiari finali, in modo da rappresentare il ruolo dei Paesi nell’assegnazione indiretta delle risorse. La quota di un limite planetario per un Paese viene definita come la percentuale della popolazione dello stesso rispetto alla popolazione globale a una data di riferimento.

 

Successivamente, i limiti nazionali pro capite sono calcolati dividendo il limite nazionale per la popolazione nel periodo considerato.
L’implementazione del concetto di confini planetari ha profonde implicazioni per la sostenibilità globale.  In particolare ai Paesi sarà chiesto di affrontare contemporaneamente più processi ambientali che interagiscono tra loro.  Così, ad esempio, la stabilizzazione del sistema climatico non potrà avere luogo senza una gestione sostenibile delle foreste globali, di avere ecosistemi oceanici stabili, ecc.). L’approccio dei confini planetari può aiutarci non solo identificare i più importanti problemi ambientali, ma anche a prendere decisioni su come gestire la nostra vita e le nostre attività economiche entro i limiti della sostenibilità.

I nove processi planetari alterati dall'uomo1

I nove processi planetari alterati dall'uomo
 
Note
[1] La CO2 è il principale determinate dello stato del clima della Terra, una sorta di “control knob” che definisce la temperatura media globale (Lacis et al., 2013).
 
Bibliografia

Archer D (2005). Fate of fossil fuel CO2 in geologic time. J. Geophys. Res. 110, C09S05.
GBO-4 (2014).  A mid-term assessment of progress towards the implementation of the Strategic Plan for Biodiversity 2011-2020. Secretariat of the Convention on Biological Diversity.. Montréal, 155 p. Hansen J et al. 2015). Ice melt, sea level rise and superstorms: evidence from paleoclimate data, climate modeling, and modern observations that 2 °C global warming is highly dangerous.  Atmos. Chem. Phys. Discuss., 15, 20059–20179.
Hy  D et al. (2015). Environmental limits and Swiss footprints based on Planetary Boundaries, UNEP/GRID-Geneva & University of Geneva, Geneva, Switzerland.
Lacis A A et al. (2013).  The role of long-lived greenhouse gases as principal LW control knob that governs the global surface temperature for past and future climate change. Tellus B, 65, 19734, doi:10.3402/tellusb.v65i0.19734.
Mace et al. (2014). Approaches to defining a planetary boundary for biodiversity. Global Environmental Change 28, 289–297.
Nykvist et al. (2013).  National Environmental Performance on Planetary Boundaries. A study for the Swedish Environmental Protection Agency. Report 6576. ISBN: 97891620657SEPA (2013). ISBN 978-91-620-6576-8. 120 p.
Rockstrom J et al. (2009). A safe operating space for humanity. Nature 461, 472–475.
Solomon S et al. (2010) Persistence of climate changes due to a range of greenhouse gases, Proc. Natl. Acad. Sci., 107,18354-18359, doi: 10.1073/pnas.1006282107.
Steffen W et al. (2015). Planetary boundaries: Guiding human development on a changing planet. Science, 347 Issue 6223, DOI: 10.1126/science.1259855.