I colori della dignità

Articolo originale: Los colores de la dignidad, Antropológica Mente, Investigación y Ciencia

 

Il concetto di razza in antropologia ha generato più problemi che soluzioni, mescolando questioni scientifiche e sociali, distanze genetiche e fattori morali. Iniziamo col chiarire dove si sovrappongono biologia e cultura e dove, invece, hanno davvero poco da condividere.

La percezione della diversità è qualcosa di atavico che nasce con il concetto stesso di “gruppo sociale”, ma la misurazione e lo studio di questa diversità è invece un qualcosa molto più recente, e proprio di questa disciplina che chiamiamo antropologia, un campo dedicato a investigare la storia naturale del genere umano. Quantificare e classificare è stato da sempre l’obiettivo basico delle scienze naturali, soprattutto dopo quelle epoche di esplorazioni e di scoperte che ci hanno portato a curiosare attentamente in ogni angolo di questo pianeta. La diversità umana non poteva passare inosservata, e fu così che la nostra cultura occidentale iniziò un lungo (e sofferto) cammino di interpretazione di questa variabilità, mescolando con scarso successo e con molta confusione ragioni scientifiche, culturali, morali, legali, economiche e religiose.

Opinioni, speculazioni e pregiudizi si mischiarono senza troppe regole né cautele, nel tentativo da parte di alcuni di riconoscere diritti e difendere la dignità, e di altri di difendere privilegi e mantenere la popolazione in una condizione di violenza tribale più facile da manipolare. Senza contare che la confusione come sempre risultò utile per nascondere e addirittura giustificare disturbi sociopatici e abusi incondizionati. La persecuzione dell’”altro” ha rappresentato sempre una buona scusa per scaricare le tensioni e l’aggressività di un gruppo, e quanto più “altro” quanto meglio si adatta al ruolo di capro espiatorio. Nel secolo sedicesimo le Leggi di Burgos dichiarano che gli indigeni hanno un’anima, e dopo molti anni arriveranno effettivamente ad avere addirittura dei diritti. Però nel mentre molta acqua è passata sotto i ponti, portando con sé una quantità impressionante di morti e perseguitati nel nome delle differenze razziali. E, nonostante i successi che abbiamo ottenuto in questo ultimo secolo, il problema è ancora molto lontano dall’avere una soluzione accettabile.

Gli antropologi si sentono un po’ colpevoli per aver fatto parte di questo processo, come “specialisti della diversità umana” che misuravano e quantificavano differenze anatomiche, distanze genetiche e capacità cognitive, fornendo informazioni a quelli che poi le utilizzavano illecitamente per vendere le loro aberrazioni morali. In qualche caso gli antropologi sono stati effettivamente parte attiva del processo di persecuzione, ma in generale si sono ritrovati semplicemente con una patata bollente tra le mani, non sapendo bene come maneggiarla. Il concetto di “razza” per se stesso non comporta nessun giudizio di valore, riferendosi semplicemente a gruppi zoologici (inclusi quelli umani) che condividono una certa omogeneità biologica dovuta a un processo storico e demografico in comune, condiviso durante un certo tempo. Non c’è nessuna connessione diretta tra questa omogeneità e il riconoscimento di valori specifici, e men che meno di concetti etici o morali. L’interpretazione della differenza biologica in termini di differenza sociale è qualcosa che ha attecchito solo per demagogia: si cercava una scusa qualunque per perseguitare un estraneo e approfittare delle sue risorse, e si utilizzò la risposta emozionale della paura e del rifiuto che si generano in tutte le tribù verso qualcosa o qualcuno che non si conosce.

Sia come sia, gli antropologi iniziarono a sentirsi a disagio decade dopo decade, cercando di affrontare la variabilità umana senza  calpestare terreni scivolosi o nervi sensibili. Una possibile chiave per risolvere la difficile situazione venne fornita dall’antropologia molecolare, dato che le tecniche permettevano analisi sempre più accurate riuscendo a quantificare sempre meglio la struttura della variabilità umana. Quanto più aumentavano gli studi, quanto più sfumavano le differenze tra i gruppi geografici. Quando la sovrapposizione fu palese, si dichiarò semplicemente che le razze non esistevano, e via il dente via il dolore. Ma nonostante quelle frontiere sfumate tra i gruppi umani, la loro omogeneità interna restava, generando raggruppamenti e affinità negli studi sulla variazione delle popolazioni moderne. Stiamo certamente molto lontani da quel povero schema tricromatico (bianco-nero-giallo) che ha dominato i concetti razziali durante secoli, ma quelle “omogeneità” rimangono comunque nel registro geografico. Niente di strano, perché c’è da aspettarsi che gruppi che hanno condiviso più storia condividano anche più geni e più biologia. Anche le frontiere sfumate non sono una sorpresa, perché se non fossero tali dovremmo parlare di specie, e non di razze. Il concetto zoologico di razza è una definizione basata su “un certo grado” di somiglianza, e non esiste una forma oggettiva di stabilire un confine netto o una soglia convenzionale tra la distinzione e la sua assenza. Alla fine, è solo una nomenclatura per identificare gruppi che hanno condiviso un cammino biologico in funzione del loro passato storico e geografico, risultando essere più affini tra di loro che con altre popolazioni lontane.

Ma le parole sono gli strumenti più potenti del nostro pensiero, e di fatto rappresentano, determinano, e modellano la nostra forma di pensare e di vedere le cose. E fu così che termini come “razza” o “diversità umana” iniziarono a essere utilizzati con molta moderazione, come se eliminando la parola si eliminasse la questione. Iniziarono a fiorire sinonimi e tabù, e ai dogmi razziali si aggiunsero dogmi anti-razziali. La questione antropologica è ancora aperta: esistono le razze umane? Il dibattito va avanti, tra misure antropometriche, frequenze genetiche, un pó di paura, e molta demagogia.

Ma siamo sicuri che questo sia realmente il problema? La dignità e il diritto dipendono da fattori biologici? Razza e razzismo non hanno poi nemmeno troppo bisogno l’uno dell’altro. Ci sono molte situazioni dove si riconosce l’esistenza di “gruppi umani”, ma non per questo vengono perseguitati, e allo stesso tempo c’è molta gente che non considera le frequenze geniche al momento di scatenare la loro aggressività e giustificare le loro debolezze. Theodosius Dobzhansky, uno dei padri della genetica moderna, scrisse nel 1973 un libro illuminante che si intitolava “Diversità genetica e uguaglianza umana”, ricordando che i due concetti non hanno nessuna relazione necessaria. Negli stessi anni uno striscione femminista ricordava che l’uguaglianza è un diritto, la diversità è un valore. Le differenze sono state utilizzate come pretesto per  portare avanti persecuzioni e stermini, e si ha la sensazione che la società umana, per fuggire da quegli eccessi, non stia trovando una soluzione migliore che negarle. Ma negando le differenze si perde una ricchezza, e una opportunità. Negando le differenze si nega il loro diritto di esistere. Senza contare che negare le differenze, qualora ci fossero, può risultare un errore fatale di gestione, perché quando poi i gruppi si incontrano e si scoprono differenti non sono preparati per integrare la loro diversità.

Difendere i diritti umani in funzione della negazione delle razze biologiche genera inoltre due pericoli davvero seri. Primo, si associa un concetto morale (la dignità) a una evidenza scientifica. La scienza è, per sua stessa natura, mutabile e capricciosa. Non sappiamo dove si dirige, ne che sorprese ci potrà dare domani. Se ancoriamo un valore morale a una prospettiva scientifica, che facciamo poi se quella prospettiva cambia? La dignità umana non può e non deve essere soggetta alle instabili evidenze della scienza. Il razzismo deve essere strettamente interpretato come un problema sociale e culturale, e non come un problema scientifico.

Secondo, la associazione tra dignità umana e uguaglianza biologica prepara una trappola enorme: assume che bisogna rispettare solo quelli che sono sufficientemente uguali a te stesso, che fanno parte della tua famiglia, della tua tribù. Associare i diritti e la dignità al concetto (e alle prove) di uguaglianza è una perversione morale, di una superficialità incredibile. Bisogna riconoscere dignità e diritti a tutti, esitano o non esistano le razze. E lo stesso vale per qualsiasi forma di vita che presumibilmente abbia una complessità biologica sufficiente per poter essere cosciente della sua propria esistenza: non ho bisogno di sapere quanti geni condividiamo con uno scimpanzé per decidere poi se torturarlo e sterminarlo. Paradossalmente, una posizione che difende rispetto e diritto solo nel nome del grado di parentela è tanto razzista (o specista) come le alternative a cui pretende contrapporsi.

L’arcobaleno sfoggia tutti i suoi colori, segreto intimo della sua bellezza. Il fascino deriva da come tutti questi colori si mischiano sfumando uno nell’altro, ma anche dalla possibilità di differenziarli, e apprezzare il loro contrasto. I loro confini sono indefiniti, ma sono sempre distinguibili, ognuno con le sue proprietà fisiche e con il suo valore emozionale. Senza diversità, non c’è bellezza.