Il rischio Vesuvio

Non è certo per un problema di copyright. Proprio no. Ma ci tengo a dire che forse il primo a dire e scrivere che il problema del sovraffollamento dell’area vesuviana e della opportunità di ridurre il rischio riducendone la vulnerabilità, sono stato io. Tanto che avendone illustrato i contenuti in un seminario alla Facoltà di Architetture, indirettamente suggerii il progetto Vesuvia. Cioè quel progetto con il quale l’assessorato regionale all’Urbanistica – assessore Marco Di Lello – tendeva ad incentivare l’abbandono spontaneo dell’area vesuviana tramite anche la concessione di un “bonus”.

Questa non è una mia interpretazione, ma me lo ha detto Francesco Escalona citato da Attilio Belli nel suo ottimo Case sul Vesuvio, ecco perché mai nessuno le ha fermate  sul “Corriere del Mezzogiorno” del 21 maggio 2016.
Comunque non è importante stabilire primogeniture. È importante invece che, pur prospettando soluzioni non perfettamente uguali, siamo d’accordo che il problema non è il Vesuvio, ma la vulnerabilità dell’area soggetta al rischio di una esplosione. E che questa vulnerabilità dipende dalla quantità di gente che vi risiede.
Quando in un’intervista di una ventina di anni fa proprio sul “Corriere del Mezzogiorno” dissi le cose che esporrò più avanti, la cosa destò interesse e preoccupazione. Preoccupazione soprattutto nel Beneventano per timore che, proponendo quello che proponevo, intendessi incentivare una sorta di neo-colonialismo napoletano.

In realtà la mia idea di soluzione era ed è questa.

 

Il contesto geografico urbanistico

Si tratta di un vasto territorio complessivamente esposto al rischio vulcanico; tanto più in considerazione del fatto che cinquanta anni di scempi e di rapporti suicidi con il territorio hanno enormemente aumentato quella esposizione: della popolazione notevolmente accresciuta nel periodo e del patrimonio edilizio altrettanto follemente accresciuto, con una densità di abitanti per chilometro quadrato che, al lordo dell’area non urbanizzabile occupata dal Vesuvio, supera le 4.000 persone e che raddoppia lungo la fascia costiera.

Tutto ciò mostra come si sia andata continuamente diluendo nella memoria anche l’ultima eruzione del 1944. E dimostrano anche la necessità di lavorare per garantire un futuro sicuro alla “gente” che deve essere protetta: innanzitutto da se stessa.
Infatti il “grande delinquente” di cui scriveva Fucini, non é solo il vulcano é anche l’uomo la cui devastante insipienza é stata ed é di forza non inferiore a quella del vulcano riuscendo, in tal modo, ad agire da amplificatore delle cause di rischio.
Per questi motivi – ritenevo e ritengo – sono indifferibili interventi che restituiscano vivibilità e fruibilità dell’ambiente ai residenti stabili e occasionali; e restituiscano il massimo di sicurezza possibile al territorio sul quale vivono e operano. In poche parole, interventi capaci di migliorare in termini concreti la qualità della vita dei cittadini.

 

Gli scenari possibili

Vi sono due possibili scenari nei quali muoversi: quello dell’emergenza e quello della programmazione. La realizzazione del primo o del secondo dipende, evidentemente, dal Vesuvio: se il rischio di cui é causa il vulcano dovesse materializzarsi nel breve periodo lo scenario sarebbe necessariamente quello dell’emergenza; se il vulcano continuasse ancora a lungo il suo sonno, allora si avrebbe a disposizione il tempo per la programmazione economica e la pianificazione territoriale, ma bisogna metterlo tutto a frutto e da subito. Sono, invece, trascorsi venti anni da quando me ne occupavo in questi termini.

Era il 1995 era stato appena istituito il Parco nazionale del Vesuvio e ne fui nominato presidente. In quello stesso anno fu varato il primo piano di emergenza dalla Protezione Civile. Da presidente del Parco andavo in giro a parlarne, spesso insieme con Lucia Civetta allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, spiegando perché sarebbe stato necessario intervenire sulla vulnerabilità dell’area.
Ma ricordando anche che il verificarsi del primo scenario può fare perno solo su uno strumento di salvezza della popolazione che non è altrimenti identificabile se non nell’evacuazione della popolazione sottoposta a rischio.
Tuttavia, come quasi unanimemente sostengono le previsioni dei vulcanologi, è verosimile che il secondo scenario sia quello più realistico.
Allora: bisogna essere pronti a fronteggiare l’eventuale emergenza, ma bisogna  operare per fronteggiarla nel modo più soft possibile.

Certamente l’ ipotesi di evacuazione degli abitanti è molto allarmante dato il gran numero di persone esposte. Pertanto la speranza è che il materializzarsi del rischio avvenga in un futuro adeguatamente lontano. Adeguatamente nel senso di poter lavorare perché la popolazione non debba essere evacuata sotto la pressione dell’emergenza, ma alleggerisca “spontaneamente” il territorio a rischio del suo carico sproporzionato. Affinché questo avvenga occorre innanzitutto che la popolazione residente non continui a crescere.
Malgrado la forte esposizione  al  rischio, qui come altrove, le aree vulcaniche  sono sempre state e sono più o meno densamente  popolate.
«Ecco il Vesuvio, che ieri ancora era verde delle ombre di pampini: qui celebre uva spremuta dal torchio aveva colmato i tini. Questa giogaia Bacco amò più dei colli di Nisa: su questo monte ieri ancora i Satiri eseguirono il girotondo. Qui c’era la città di Venere, a lei più gradita di Sparta; qui c’era la città che ripeteva nel nome la gloria di Ercole. Tutto giace sommerso dalle fiamme e dall’oscura cenere: gli dei avrebbero voluto che un tale scempio non fosse stato loro permesso». Così scriveva Marziale (Ep. IV, 44). Ma quello scempio fu permesso e il 79 d.C. il Vesuvio sommerse, insieme con le persone e le case, un florida economia e una fertile agricoltura.

Attualmente gli abitanti dell’area vesuviana[1] sono circa 550.000 (erano 582.520  nel 1991), per circa il 60% concentrati nella stretta fascia costiera da Portici a Torre Annunziata. Questo dato non dice molto se non è associato anche alla lettura non solo della dinamica demografica  che ha interessato  la zona negli ultimi cinquanta anni, ma, ancor più, della dinamica del numero delle abitazioni occupate e delle stanze nello stesso periodo.
Ebbene:
Nel 1951 risiedevano nell’area 353.172 persone (1.430 ab/kmq) che avevano a disposizione  140. 267  stanze con una densità di 2,50 abitanti per stanza.
Nel 1961 la popolazione era salita a 414.179 residenti, la densità a 1.670 ab/kmq, le stanze a 221.590  con una densità di 1,86 ab/stanza.
Nel 1971 i residenti  erano 500.768, la densità di 2.024 ab/kmq, le stanze  364.272 con una densità di 1,37 ab/stanza.
Nel 1981 i residenti erano diventati 571.149 con una densità di 2.325 ab/kmq, le stanze 527.674 con una densità di 1,08 ab/stanza.
Nel 1991 la popolazione ammontava  a 582.520 abitanti con una densità di 2.365 ab/kmq; le stanze erano salite sino a 651.684 con una densità di 0,89 ab/stanza.
Insomma in 40 anni (1951-1991) la popolazione  residente  nell’area è cresciuta di  229.348  abitanti  e le stanze sono aumentate  di 511.417 unità.  Un dato che la dice lunga  sul modo in cui quel territorio a rischio è stato urbanizzato  e reso sempre più vulnerabile.
Nei 15 anni successivi la popolazione residente ha registrato una complessiva riduzione di circa 40.000 unità concentrata soprattutto nei comuni prevalentemente costieri: S. Giorgio a Cremano (- 9.451), Portici (- 10.075), Ercolano (- 6.534), Torre del Greco (-11.106), Torre Annunziata (- 4.155), Boscotrecase (-657), San Giuseppe Vesuviano (-3.184), Trecase (-416); in altri è leggermente  aumentata: Boscoreale (+ 71), Massa di Somma (+ 410), Ottaviano (+ 576), Pollena Trocchia ( +1.110), S. Sebastiano al Vesuvio (+ 365), S. Anastasia (+ 172), Somma Vesuviana (+ 3.759), Terzigno (+ 2.178), Cercola (+ 1.671), Pompei (+ 574).

È una tendenza interessante perché in qualche modo anticipa e, per altri versi, asseconda la risposta istituzionale che mira alla salvaguardia della popolazione dal rischio di un’eruzione del Vesuvio, tramite un piano di evacuazione per il breve periodo e tramite il progressivo alleggerimento del carico di popolazione nel medio lungo periodo.

Affinché questo avvenga, come dicevo, occorre innanzitutto che la popolazione non continui a crescere. Ma é assolutamente impossibile impedirglielo con metodi coercitivi. Vi é invece la possibilità di farlo con “incentivi” economici e urbanistici oltre che con “disincentivi” legislativi. È quanto con provvedimenti del 2003 si propone di realizzare la Regione Campania.
Ma sarebbe ancor più importante realizzare un piano di assetto del territorio della regione col proposito di riequilibrare il tradizionale squilibrio demografico ed economico esistente tra costa e interno.
È noto che lo sviluppo in Campania é stato costosissimo e insostenibile: in termini di uso e abuso del territorio, in termini di distruzione di risorse, in termini di benefici incomparabilmente bassi se confrontati con i costi occulti o manifesti che siano. Tanto più lo é stato lungo la costa, ancor più – quando c’è stato – lo è stato nella fascia costiera vesuviana che dagli anni Novanta vive anche un lungo periodo di crisi economica dovuta alla progressiva chiusura degli stabilimenti industriali e di molte attività tradizionali nell’area.

Nella esigua pianura costiera campana (15% della superficie regionale) è concentrato il 60% della popolazione, l’agricoltura più ricca, il turismo più maturo, i maggiori episodi  industriali, la quasi totalità delle industrie a rischio censite in Campania, la maggiore percentuale delle reti ferroviarie e autostradali che attraversano la regione. Tanto da far definire quest’area “congestionata” e, ad una riflessione successiva, da far coniare per quest’area l’espressione di “congestione senza sviluppo”. Ciò perché si è visto che, malgrado la concentrazione di attività debordata in congestione, non si é riusciti a dare a tutti una dimora, agevole accesso ai servizi, un posto di lavoro, né un’adeguata remunerazione del capitale investito nelle suddette attività. In più l’ambiente che ha ospitato questo fenomeno ha pagato l’elevatissimo prezzo del progressivo scadimento della qualità dell’aria, dell’acqua, del suolo, dell’udito dei cittadini. Come se non bastasse, il territorio in cui tutto ciò è avvenuto è anche da annoverare tra le aree più rischiose d’Italia, avendo al suo interno due aree vulcaniche (Campi Flegrei e Vesuvio) a consistente rischio e un’area ad elevato rischio di crisi ambientale, riconosciuta dal Ministero dell’ambiente nell’intera provincia di Napoli.

La distruzione di risorse e, quindi la insostenibilità di questo sviluppo, é evidente. E consiste non solo negli elevati costi pagati dalla collettività nel suo complesso, ma anche nel progressivo scadimento delle risorse naturali esistenti nella restante più ampia parte della superficie regionale che, emarginata dallo “sviluppo” di pianura costiera, ha progressivamente perso residenti e, abbandonata a se stessa, si é costantemente depauperata ed é diventata più facilmente preda dell’erosione, delle alluvioni e di tutti quei fenomeni naturali nel manifestarsi dei quali l’uomo può agire come soggetto amplificatore del rischio.
Dunque: “Congestione costiera e desertificazione interna”. Questo é lo slogan che coniato a metà degli anni Sessanta, é rimasto di sconcertante attualità oltre  cinquant’anni  anni dopo.

 

Il riequilibrio del territorio

È  possibile intervenire sulla congestione e sulla desertificazione ristabilendo un equilibrio? Non é solo possibile, ma è anche la soluzione a molti problemi e sta in quello che si può definire il ridisegno della geografia delle residenze.
Questo ridisegno alleggerendo la fascia costiera, la decongestionerebbe di abitanti e nello stesso tempo rivitalizzerebbe le aree demograficamente più deboli. Esso, tuttavia, per essere realizzato efficacemente, nei fatti e non solo su una carta geografica, deve essere preceduto dal ridisegno della geografia delle occasioni di lavoro e dei servizi. È  realistico immaginare che questo ridisegno possa essere l’obiettivo di un piano di riassetto del territorio della regione basato anche sulla creazione di incentivi reali che diano innanzitutto a chi vive nelle aree interne la consistente opportunità di restare promuovendole a “guardiani” del loro ambiente. Ciò significherebbe costituire anche un importante presidio a vantaggio di zone che rischiano di essere perdute e “desertificate”. Ma realizzare tutto ciò significa anche attirare popolazione e, cioé ottenere l’altro risultato strettamente collegato con la realizzazione di questa strategia che é quello di disinnescare progressivamente il rischio vulcanico nell’area vesuviana.

Con il doppio risultato di riequilibrare in modo anche economicamente più “corretto” l’uso del territorio rivitalizzando le aree più interne e di ridurre la vulnerabilità in quelle nelle quali del territorio si è fatto abuso. È giusto ricordare che le aree interne – il Beneventano e l’Avellinese in particolare – sono anche “sorgenti sismiche”, ma va anche aggiunto che contrariamente a quanto avviene nelle aree vulcaniche nel mentre i fenomeni sono in atto, nelle aree sismiche è realisticamente realizzabile la convivenza col rischio.
Insomma, in conclusione e tirando le fila di questo discorso: circa 550.000 persone, tendenzialmente in calo ma sempre troppe, vivono in comuni fortemente esposti al rischio di una esplosione del Vesuvio; se il fenomeno dovesse verificarsi nel breve periodo non esiste alternativa alla evacuazione della popolazione, secondo le linee indicate dal Piano della Protezione Civile, nei comuni con essi “gemellati”.

Bisogna, però, avere ben presente che è assolutamente imprevedibile non solo quanto tempo durerà l’eventuale eruzione, ma soprattutto quale sarà il suo impatto distruttivo sul territorio. È cioè, imprevedibile quando gli evacuati potrebbero rientrare nei luoghi d’origine e quanto più o meno irreversibilmente trasformati potrebbero trovarli. La storia ci ricorda che dieci anni dopo la eruzione del 79 d. C. i dintorni del Vesuvio erano ancora una landa desolata. “La città di Pompei era stata unita a Nola. Gli abitanti di Ercolano sopravvissuti all’eruzione si trasferirono in un quartiere di Napoli e fu concesso loro di chiamare questo quartiere con il nome della loro città distrutta. Stabia fu la prima città ad essere ricostruita, ed in breve tempo assunse il ruolo commerciale che aveva avuto Pompei. Dopo circa quaranta anni venne riaperta la strada che congiungeva Stabia a Nocera. Ma doveva passare ancora qualche secolo perché gli uomini tornassero ad abitare le terre sotto le quali erano sepolte Pompei ed Ercolano.”[2]

Perciò se lo stato di quiescenza del Vesuvio durerà ancora a lungo, è importante approfittarne per cercare e trovare all’interno della Campania luoghi non provvisori e d’emergenza, ma destinazioni definitive  per una parte numericamente rilevante della popolazione vesuviana esposta al rischio.
Certo, come ha scritto Roberto Almagià nella sua monumentale opera sulle frane in Italia (Studi geografici sulle frane in Italia 1910) non è facile lo sradicamento. “per quanto la carità del natio loco – in alcuni casi mirabilmente tenace – renda restii gli abitanti ad abbandonare il loro paese, anche quando questo, sbranato dalle frane, appaia inesorabilmente   condannato a rovina, tuttavia a lungo andare la necessità si impone. Talora un nuovo paese sorge in località più sicura, ma il più vicino possibile all’antico, magari su un altro fianco della stessa collina”. Vale anche per il Vesuvio, con la sostanziale differenza che “la località più sicura” è più distante di “un altro fianco della stessa collina”.

 

Note

[1] Intendo per area Vesuviana l’insieme dei 18 comuni compresi nell’area a rischio vulcanico così come individuati dal primo piano della Protezione civile: quindi 5 comuni in  più (Cercola, Pompei, Portici, San Giorgio a Cremano, Torre Annunziata) di quelli i cui territori si trovano nel Parco Nazionale del Vesuvio (Boscoreale, Boscotrecase, Ercolano, Massa di Somma, Ottaviano, Pollena Trocchia, San Giuseppe Vesuviano, San Sebastiano al Vesuvio, S. Anastasia, Somma Vesuviana, Terzigno Torre del Greco, Trecase).
[2] Paolo Gasparini,  L’esposizione al rischio vulcanico e sismico in U. Leone (a cura di), L’ambiente in Campania, CUEN, Napoli 2001