In fuga per la libertà

In questo momento 60 milioni di persone vivono forzatamente lontano dalle loro case e dai loro affetti a causa di una guerra o della discriminazione politica.

In cerca di nuove terre promesse
Cosa cerca chi fugge da un conflitto o da una persecuzione legata ai suoi credo? Cerca, ovviamente, la pace. Il corso della storia ci ha insegnato che la pace ha una natura instabile: non esiste alcun luogo sulla terra dove la pace sia stata permanente. Dove finisce un conflitto se ne accende un altro, nuove povertà generano nuove disuguaglianze e dunque nuove discriminazioni, i totalitarismi non si sono estinti. Per questo le persone si muovono continuamente cercando una sicurezza politica e di ideali che di volta in volta riguarda da vicino popolazioni diverse alla ricerca di una stabilità non più possibile in patria.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale in Europa si è cercato di fissare un principio di pace e accoglienza che fosse origine e obiettivo di quella che – attraverso numerosi aggiustamenti e avanzamenti – è diventata l’Unione Europea.
Nel manifesto di Ventotene, infatti, “gli uomini sono cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi”. Quel documento scritto nel ’41 gettava le basi per una istituzione nuova, internazionalista e aspirava a una piena collaborazione tra Stati. Non prevedeva, però, un ragionamento in tema di accoglienza e di riconoscimento dei diritti alla libertà di chi, provenendo da Paesi terzi politicamente instabili, cercasse libertà altrove. Fu con la Convenzione di Dublino del 1990 (ed entrata in vigore nel 1997) che la Comunità europea definì le responsabilità dei singoli Paesi di rispondere alle domande dei richiedenti asilo. La massicce ondate migratorie che negli ultimi vent’anni hanno riguardato i confini europei hanno, però, costretto l’istituzione a rivedere gli accordi e a trovare soluzioni che non soltanto garantissero la sicurezza dei membri, ma che rispettassero soprattutto i diritti universali e inviolabili di ciascun essere umano. L’emergenza del 2015 fece “saltare” gli accordi con Governi che scelsero di chiudere a nuove domande di asilo politico, o con i rimandi tra Stati su chi dovesse avere l’ultima parola sul singolo caso.
È anche per questo che in questi mesi è nuovamente in agenda la modifica al regolamento di Dublino. La volontà è stata espressa dalla Commissione europea sul tema delle responsabilità dei Paesi europei sui richiedenti asilo e segna un punto a favore delle aree Ue bagnate dal Mediterraneo che da tempo avevano chiesto alle istituzioni di Bruxelles una diversa ridistribuzione dell’accoglienza dei migranti in attesa dello status di rifugiato. Andando oltre la carta di Dublino. L’iniziativa sarà riproposta nel dibattito europeo e potrebbe costringere alcuni paesi dell’Europa settentrionale ad accogliere più richiedenti asilo in quanto potrebbe non essere più possibile “rispedire” questi profughi nel primo paese in cui sono approdati. Questo passaggio rinfuocherebbe l’annoso dibattito sulle “quote” e sulle procedure per suddividere più equamente i rifugiati fra i 28 membri dell’Unione.
I tempi della politica, però, non coincidono con l’urgenza umanitaria. Nel mezzo ci sono moltissime vite in bilico. Sessanta milioni, per dirla con le cifre dell’ultimo rapporto diffuso dall’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr).

Una “popolazione”che ha origine nei luoghi di conflitto, di ingiustizie e di intolleranza e che scappa per sopravvivere. Una “popolazione” che chiede di essere riconosciuta ai quattro angoli del pianeta, che bussa ai confini delle Nazioni vicine o intraprende viaggi più lunghi verso “Americhe” più lontane, in grado di proteggere i diritti umani di chiunque.
Lo status di rifugiato trova definizione nel primo articolo della Convenzione di Ginevra del 1951 ed è colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi”.
Se tutti questi uomini potessero essere parte di una nazione, questa sarebbe la 24ima più popolosa del pianeta e i dati di questo 2016 fanno intuire che questi 60 milioni di persone sono destinati ad aumentare.
L’Agenzia delle Nazioni Unite chiarisce come a innestare l’esodo di tante persone siano principalmente le guerre. Negli ultimi cinque anni, sono scoppiati o si sono riattivati almeno 15 conflitti: otto in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nordest della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e ancora Burundi); tre in Medio oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, e diverse aree di Birmania e Pakistan). Solo poche di queste crisi possono dirsi risolte e la maggior parte di esse continua a generare nuove partenze forzate.

 

Un biglietto di sola andata, prego

Certamente l’Europa non è l’unica destinazione – né necessariamente la più desiderabile – per chi decide di partire. E allora dove vanno queste persone (che sempre secondo i dati dell’Unhcr sono circa 42 mila ogni giorno a lasciar tutto)?
La classifica dei paesi ospitanti inserisce al primo posto la Turchia (che ospita 1,59 milioni di persone), seguita dal Pakistan (1,51 milioni) e dal Libano (1,15 milioni), dall’Iran, dall’Etiopia e dalla Giordania. Se, invece si ordinasse la percentuale di accoglienza in base al rapporto tra rifugiati e cittadini, il primato della mano tesa andrebbe al Libano: 232 rifugiati ogni mille abitanti, quasi uno su quattro. In Europa, però, “i migranti forzati hanno raggiunto quota 6,7 milioni contro i 4,4 del 2013”: il 51% in più, sempre secondo l’Unhcr. Su 1,7 milioni di richiedenti asilo nel mondo nel 2014, 173mila lo hanno fatto in Germania.
Il conflitto in Siria è la causa che sta spingendo fuori dal Paese la maggior quota di richiedenti asilo: circa il 50% dei profughi nel mondo, infatti, è di origine siriana.

migranti in italia
La parabola di chi abbandona il proprio Paese per cercare una nuova terra non è uguale per tutti. La situazione geopolitica di provenienza e le leggi dei Paesi di approdo o di transito comportano il riconoscimento di uno status piuttosto che un altro a questi migranti. Convenzioni e trattati internazionali hanno cercato di fare ordine e per l’Italia è la Carta di Roma a contenere il glossario di riferimento per chi scrive e tratta i temi della migrazione.

Apolide: Persona che nessuno Stato considera come suo cittadino (Convenzione di New York, 1954).
Clandestino: E’ un termine che ha una forte connotazione negativa, rimanda alla segretezza, al nascondersi, all’essere fuori dalla legalità. Non è un termine giuridico ma è utilizzato dai mezzi di comunicazione e da molti politici per definire, e stigmatizzare, i migranti irregolarmente presenti sul territorio o anche coloro che, in fuga da guerre e persecuzioni, sono senza documenti o con documenti falsi. Quindi i richiedenti asilo e i rifugiati. In altri paesi i “clandestini” sono chiamati “sans papiers” (in Francia), “non-documented migrant workers” (definizione suggerita dalle Nazioni Unite), definizioni che rimandano ai documenti in possesso della persona, non alla sua essenza.
Extracomunitario: Persona non in possesso della cittadinanza di uno dei Paesi dell’Unione Europea. Quindi, contrariamente all’accezione corrente, sono extracomunitari anche gli Svizzeri e gli Statunitensi.
Migrante: Termine generico che indica chi sceglie di lasciare il proprio Paese per stabilirsi, temporaneamente o permanentemente, in un altro Stato. Tale decisione ha carattere volontario, anche se spesso dipende da ragioni economiche, avviene cioè quando una persona cerca in un altro paese un lavoro e migliori condizioni per vivere o sopravvivere.
Profugo: Termine generico che indica chi lascia il proprio paese a causa di eventi esterni (guerre, invasioni, rivolte, catastrofi naturali).
Regolari/Irregolari: I migranti non sono regolari o irregolari, ma sono migranti regolarmente o irregolarmente presenti sul territorio. Gli immigrati regolarmente presenti sono coloro che risiedono in uno Stato con un permesso di soggiorno rilasciato dall’autorità competente. I migranti irregolarmente presenti hanno, nella maggior parte dei casi, permessi di soggiorno e visti scaduti e non rinnovati. Contrariamente al rifugiato, l’immigrato regolare può far ritorno a casa in condizioni di sicurezza. Il migrante irregolare è invece colui che: ha fatto ingresso eludendo i controlli di frontiera; è entrato regolarmente nel paese di destinazione, ad esempio con un visto turistico, e vi è rimasto dopo la scadenza del visto d’ingresso (diventando un cosiddetto overstayer); oppure non ha lasciato il territorio del paese di destinazione a seguito di un provvedimento di allontanamento.
Richiedente asilo: Colui che è fuori dal proprio paese e presenta, in un altro Stato, domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, o per ottenere altre forme di protezione internazionale. Fino al momento della decisione finale delle autorità competenti, il richiedente asilo ha diritto di soggiorno nel paese competente per l’esame della sua domanda, anche se è arrivato senza documento e in modo irregolare.
Rifugiato: A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare nel proprio paese d’origine se non a scapito della propria sicurezza e incolumità. Dal punto di vista giuridico – amministrativo, un rifugiato è una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato (Convenzione di Ginevra, 1951).
Sfollato: Si parla genericamente di sfollato come di chi fugge a causa di catastrofi naturali o guerre e viene accolto temporaneamente sul territorio di un paese estero, con un soggiorno per “protezione umanitaria”. Il termine è anche usato come traduzione dall’inglese: “Internally Displaced Person” (IDP), colui che abbandona la propria dimora per gli stessi motivi del rifugiato, ma non oltrepassa un confine internazionale.
Vittima della tratta: una persona che non ha mai acconsentito a essere condotta in un altro paese o, se lo ha fatto, ciò è stato reso nullo dalle azioni coercitive e/o ingannevoli dei trafficanti o dai maltrattamenti praticati o minacciati ai danni della vittima. Scopo della tratta è ottenere il controllo su di un’altra persona ai fini dello sfruttamento (prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro forzato, schiavitù o pratiche analoghe, asservimento o prelievo degli organi).

 

Le donne migranti

Una popolazione che cerca rifugio, non può tenere conto della sua componente femminile. Sono quasi il 50% del totale le donne e le bambine che vivono la situazione di migrante forzato. L’origine geografica e la cultura di appartenenza delle donne migranti hanno permesso nel tempo alle istituzioni che si occupano di aiutare in particolare le richiedenti asilo di delineare un profilo che ben inquadra il loro mondo: «Vivono una condizione di sofferenza nella sofferenza, esposte a violenze e ad abusi in misura maggiore» sintetizza il Fondo per la popolazione delle Nazioni unite (Unfpa). «Sperimentano l’esclusione e la marginalizzazione che le donne migranti vivono in quanto donne. Allo stesso tempo sono forti della loro grande presenza nel lavoro domestico e di cura; la loro capacità di risparmio e di invio delle rimesse; l’abilità di agire come agenti sia della tradizione sia del cambiamento».

Per questo le Ong hanno imparato a coinvolgere i gruppi femminili per sviluppare progetti di cooperazione con i Paesi di provenienza. Un fenomeno interessante, ad esempio, è la costruzione di reti organizzate di migranti per il trasferimento di competenze e risorse. Alcuni esempi europei:
1) In Germania alcuni gruppi organizzati sono attivi per la lotta al traffico degli esseri umani e al razzismo; per il divieto dei matrimoni forzati nell’immigrazione turca.
2) In Francia alcune associazioni operano per migliorare l’integrazione nella società di accoglienza e la qualità della vita nelle comunità di origine. Le donne migranti mettono in campo idee, conoscenze, competenze, relazioni fertili allo sviluppo del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza di genere.
3) In Belgio le donne congolesi hanno contribuito a incrementare la rappresentanza femminile nelle prime elezioni libere della Repubblica Democratica del Congo.

Il legame con la terra d’origine è un filo rosa. Le donne naturalmente fanno conoscere la propria cultura di provenienza ai figli e sono attive con azioni di sostegno in collaborazione con la cooperazione internazionale. Le donne diventano un riferimento anche economico che sempre più le vede protagoniste di importanti programmi di collaborazione. Questo perché, è stato riconosciuto, oltretutto amministrano meglio il denaro.
Se è vero che in generale le rimesse dei migranti – cioè le risorse e i fondi trasferiti fra soggetti privati verso i Paesi di provenienza – stanno assumendo, a livello mondiale, volumi e dimensioni convincenti per lo sviluppo, il contributo delle donne è ancora più determinante.
Le donne mandano a casa una parte maggiore, in proporzione rispetto agli uomini, dei loro guadagni. Lo fanno in modo regolare e costante. Le ricerche Unfpa, inoltre, rivelano che il 56% delle rimesse femminili è usata per le necessità quotidiane, l’assistenza sanitaria o l’istruzione. Questo modello riflette le priorità di spesa delle donne migranti in tutto il mondo.

 

I bambini

È forse una vigliacca illusione credere che i bambini avranno il tempo e la volontà per superare i traumi e il dolore di un’infanzia strappata. Sono 30 milioni i minori nel mondo che vivono nel costante rischio di abusi e abbandoni, che cercano di sfuggire alle violenze e allo sfruttamento o che diventano vittime di tratta o “reclute” militari forzate. La vulnerabilità di questi individui è violata e in moltissime di queste situazioni la famiglia di origine è assente o essa stessa preda di soprusi. Tanti bambini hanno visto i loro genitori morire e per loro non sempre la giustizia fornisce risposte adeguate. La convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata nel 1989 dalle Nazioni Unite riconosce all’articolo 22 che «Gli Stati parti adottano misure adeguate affinché́ il fanciullo il quale cerca di ottenere lo statuto di rifugiato, oppure è considerato come rifugiato ai sensi delle regole e delle procedure del diritto internazionale o nazionale applicabile, solo o accompagnato dal padre o dalla madre o da ogni altra persona, possa beneficiare della protezione e della assistenza umanitaria necessarie per consentirgli di usufruire dei diritti che gli sono riconosciuti».

Un articolo di ardua applicazione, soprattutto perché è assai difficile definire l’età precisa dei minori che presentano domande d’asilo. Difficoltà che si affianca all’ulteriore complessità di far riconoscere la propria storia da parte dei più piccoli che giungono in un Paese terzo non accompagnati. Il ricongiungimento famigliare è il primo obiettivo, ma quando è impossibile riallacciarsi alla famiglia, allora i percorsi sono diversi. La legge italiana in materia di assistenza e protezione dei minori stranieri prevede che non possano essere espulsi, tranne che per motivi di ordine pubblico e sicurezza. Le commissioni territoriali devono svolgere l’audizione per il riconoscimento dell’asilo entro 30 giorni dalla presentazione della domanda e decidere nei successivi tre giorni. Tempistica non sempre rispettata. Un bambino nato in territorio italiano da genitori stranieri, invece, risiede legalmente e ininterrottamente dalla nascita fino al raggiungimento della maggiore età, da quel momento dovrà mostrare altra documentazione per giustificare la sua presenza nel Paese e richiedere la cittadinanza italiana. La tutela dei minori sfollati o vittime di tratta e reclutamento forzato è resa ulteriormente difficile dalle autorità locali delle “zone calde” che chiudendo le frontiere non vedono di buon occhio l’intervento umanitario internazionale. Per questo, dunque, occorre anche lavorare ai fianchi.

La cultura è la prima “arma” di cui questi bambini e ragazzi chiedono per potersi difendere e diventare adulti responsabili, coraggiosi, in grado di cambiare il mondo. Il diritto all’istruzione è negato nei Paesi dove persistono conflitti armati e dove perdurano altre emergenze. Secondo i dati di Save the Children, sono 3,5 milioni i bambini rifugiati a cui è negato l’accesso all’istruzione. Condizione che danneggia non soltanto la crescita personale e le possibilità future, ma anche limita l’intera condizione famigliare e impedisce lo sviluppo delle comunità in cui vivono. In particolar modo sono le bambine a rimanerne escluse, soprattutto nei Paesi dove tuttora vige la consuetudine e il credo a destinarle spose in età infantile e adolescenziale. Le più coraggiose cercano di scappare in cerca di libertà, autonomia e… un libro. Le loro vittorie, in particolare, hanno il sapore della riscossa.

Le azioni dell’Unicef, l’agenzia Onu che opera per i diritti dei minori, e delle diverse organizzazioni che difendono gli stessi principi nel mondo battono più strade: adoperandosi contro lo sfruttamento del lavoro minorile e dei matrimoni forzati, contro la malnutrizione e per una campagna di vaccini, per aumentare la scolarizzazione nei Paesi a basso tasso di istruzione.

 

Contraddizioni

Come si comportano i Paesi, soprattutto europei, di fronte alle “ondate” di migranti che chiedono un luogo più sicuro per vivere? Le risposte sono contrastanti e sembrano far emergere un distacco tra le opinioni delle persone e le azioni dei decisori politici.
Nell’ultimo rapporto di Human Rights Watch (Hrw) sui diritti umani in Europa si sottolinea l’allarmante diffusione verso l’islamofobia e una stigmatizzazione dei rifugiati soprattutto in Francia, a seguito degli attentati dello scorso 13 novembre. Perquisizioni amministrative e poteri speciali alle prefetture per reprimere qualsiasi minaccia alla pubblica sicurezza hanno ridotto notevolmente i diritti di circolazione, espressione e associazione delle persone straniere.
Altri partiti xenofobi in Austria, Italia, Ungheria, Olanda, Polonia puntano sulla necessità di limitare i flussi migratori per ridurre la possibilità di infiltrazioni jihadiste, innestando un clima di paura generalizzata nei confronti del migrante. Ma la gente comune, che ne pensa invece?

Un’accurata ricerca dell’agenzia Globscan ha rilevato che le politiche sui rifugiati non riflettono gli orientamenti dell’opinione pubblica. Un sondaggio che ha coinvolto 27 mila persone da 27 Paesi ha dato evidenza che le persone sono disposte ad accogliere un rifugiato ben oltre le strategie nazionali, ospitando positivamente un immigrato nella propria città, in quartiere o in casa. La Cina, la Germania e il Regno unito sono i Paesi da cui sono pervenute le risposte più incoraggianti, circa il 50% degli intervistati qui è favorevole all’accoglienza e una media del 66% dei rispondenti ritiene che si possa fare di più di quanto i governi attualmente compiono in materia di accoglienza. L’indagine è stata condotta per Amnesty International e ha lo scopo di accompagnare la richiesta che la Ong sta facendo alle Nazioni: reinsediare un milione e 200 mila rifugiati entro la fine del 2017.

amnesty international

 

Saranno famosi

Lo status di rifugiato può precludere una vita di soddisfazioni o di vittorie? Le storie di alcuni rifugiati famosi possono essere un contributo alla riflessione. Là dove sappiamo accogliere chi fugge per motivi politici o di libertà negata, possiamo restituire una seconda vita di realizzazione personale e per l’umanità. Qualche esempio…

Sigmund Freud, austriaco, dopo aver vissuto per poco tempo in Germania, con lo scoppio della seconda guerra mondiale trovò rifugio con la famiglia a Londra dove ottenne lo status di rifugiato politico.
Anche Albert Einstein, in quanto ebreo fu costretto a scappare dalla Germania del Terzo Reich. Prima in Belgio, poi Inghilterra e Usa. Alcuni suoi famigliari furono uccisi ma lui lavorò per aiutare altri rifugiati.
Nadia Comanenci nel 1989 fuggì dalla Romania del regime di Ceasescu per andare in America, lasciando il suo Paese e tutti gli affetti, arrivò negli Usa spinta dal terrore e dalla pressione su di lei e le altre ginnaste.
pulitzerKim Phúcera la bambina della famosa foto che vinse il Pulitzer scattata durante i bombardamenti in Vietnam. Oggi la donna vive in Canada come rifugiata politica, ha famiglia ma è tuttora in cura per rimuovere quel trauma di bambina.

Più recentemente, Edward Snowden ottenne per un anno lo status di rifugiato politico dalla Russia perché ricercato dalle autorità statunitensi per il Datagate.