Grandi speranze

“Il nuovo secolo del cervello” è il titolo che apre il numero di maggio 2014 della rivista mensile Le Scienze. Non è la prima volta che leggiamo titoli del genere, dopo la falsa partenza del “decennio del cervello”, avviatosi una quindicina di anni fa con imponenti aspettative e risultati scientificamente molto positivi ma che pospongono nel tempo la soluzione dei grandi problemi terapeutici e sociali legati alle funzioni nervose. Speriamo allora che questa sia la volta buona…

L’attuale comunità scientifica ha raccolto la sfida e nel 2013 hanno preso avvio due grandi progetti di ricerca che vedono coinvolti ricercatori americani ed europei. Barack Obama è stato il carismatico testimone del progetto statunitense BRAIN (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies www.nih.gov/science/brain/), che punta a rivoluzionare la nostra comprensione del cervello umano, secondo i proponenti. Per realizzare questo progetto cooperano l’NIH (National Institute of Health), la Defense Advanced Research Project Agency, del Pentagono, e la Science Foundation. A fine settembre 2014 si sono poi aggiunte numerose altre istituzioni, portando una dote aggiuntiva di 300 milioni di dollari. La guida delle ricerche è affidata a una gruppo di lavoro presieduto da Cornelia Bargmann della Rockefeller University e da William Newsome dell’Università di Stanford (vedi L’Indice dei libri, luglio 2013). L’intento del progetto è quello di aiutare i ricercatori a trovare nuovi metodi per trattare, curare e perfino prevenire disordini cerebrali come l’Alzheimer, l’epilessia e i gravi traumi attraverso la definizione di fotografie dinamiche del cervello capaci di mostrare come le singole cellule cerebrali e i complessi circuiti neurali interagiscono alla “velocità del pensiero”.

Anche l’Europa è sensibile all’argomento ed ha lanciato, sempre all’inizio del 2013, un progetto Flagship (nave ammiraglia), lo Human Brain Project, HBP (www.humanbrainproject.eu), coordinato dal neuroscienziato Henry Markram dell’Università Politecnica di Losanna (Svizzera), a cui dovrebbero prendere parte numerosi enti diversi. La filosofia di questo progetto è relativamente semplice. I centri di ricerca coinvolti stanno lavorando per raccogliere in un unico supercomputer tutti i dati acquisiti sul cervello umano: una sorta di enorme database della conoscenza scientifica fin qui raggiunta sulle malattie e il funzionamento cerebrale. Il risultato finale atteso è la messa a punto di un sistema hi-tech in grado di emulare l’attività dell’organo umano. Il progetto europeo si colloca quindi più nell’ambito dei circuiti neurali e delle Neuroscienze computazionali, suggerendo che una “visione olistica del cervello permetterebbe di riclassificare queste malattie in termini biologici, invece di considerarle un semplice complesso di sintomi”. In sottotraccia, l’ipotesi di ricostruire il cervello umano in silico, vorrebbe rivelare all’umanità cosa significa essere umani. “Vaste programme” ha commentato qualche invidioso, citando il generale de Gaulle.

Tutti i big projects nella scienza sono stati oggetto di critiche sui vari fronti, dai contenuti e dagli obiettivi alla fattibilità e ai costi. Uno dei temi forti di critica rimane comunque la loro fase di lancio, dove gli esercizi di retorica si sprecano, in un’ottica di promising science. Esemplare è stato il caso, sempre citato, del genoma umano dove i proponenti parlavano del DNA come di un santo Graal immanente, mentre i critici radicali parlavano di miopia, falsi obiettivi, costi inutili. A posteriori, il progetto genoma ha aperto scenari del tutto inattesi alla scienza, oltre a produrre imponenti ricadute economiche, almeno per gli USA che ci avevano creduto (e investito). Un rapporto economico pubblicato nel giugno del 2013 sostiene infatti che lo Human Genome Project, condotto dal 1988 al 2003, avrebbe prodotto per l’economia USA ben 178 dollari per ogni singolo dollaro speso (http://battelle.org/docs/default-document-library/economic_impact_of_the_human_genome_project.pdf)! In questo caso potremmo allora dire che la debolezza concettuale dei paladini è stata soverchiata e riscattata dalla forza dei risultati inattesi, mentre la coerenza concettuale dei critici, quasi sempre su posizioni radicali, ha mostrato la corda di una significativa debolezza di prospettive e di un notevole conservatorismo.

Tornando ai progetti sul cervello, anche qui le perplessità non mancano, anzi…
A distanza di pochi mesi dal finanziamento, l’HBP ha annunciato quale sarà il piano per la seconda fase dell’ambizioso progetto: una riduzione drastica del ruolo delle Neuroscienze cognitive e di quelle sperimentali. Questa riformulazione (e semplificazione) del progetto ha suscitato forti reazioni negative nella comunità scientifica europea. Lo scorso 7 luglio 2014, oltre settecento ricercatori di Neuroscienze europei hanno firmato una lettera aperta indirizzata alla Commissione Europea, denunciando una mancata coerenza con gli obiettivi annunciati in principio dallo HBP (www.neurofuture.eu). Se il risultato che ci si può aspettare è un’enorme banca dati che racchiude tutte le informazioni raccolte sull’encefalo umano, si è ben lungi dall’aver realizzato un modello che emuli l’attività del cervello umano. È chiaro che l’impresa di realizzare un cervello in silico è una sfida molto ardua, che richiede innanzitutto un’attenta valutazione di tutto ciò che è utile per la completa comprensione dell’encefalo. La mancanza di alcuni tasselli fondamentali all’interno della struttura dei progetti stessi potrebbe rendere l’impresa piuttosto inverosimile. Fra i tanti commenti critici, molti si focalizzano sulla forte semplificazione nel trattare sia i livelli alti dell’encefalo, sia quelli base. Per quanto riguarda i livelli “alti” dell’encefalo, si possono intendere le funzioni cognitive più complesse del cervello e il loro intreccio con le emozioni, nel costruire la mente. Le due tendenze storiche di pensiero filosofico che interpretano la questione mente-cervello possono essere grossolanamente rinviate a due visioni opposte: una visione unitaria versus una dualista. La prima nega una distinzione tra cervello (corpo) e mente, cercando delle soluzioni che integrino la mente nei processi naturali e nelle strutture fisiologiche dell’organismo. La seconda distingue invece cervello (corpo) e anima come due entità ontologicamente diverse e separabili. Devono allora i grandi progetti definire la loro filosofia, oltre che i loro risultati attesi e verificabili?! Per quanto riguarda invece i livelli base, ovvero quelli “biologici” del cervello, i progetti di Big Science, e in maggior misura lo HBP, sono privi di alcuni tasselli fondamentali per capire la struttura e la funzione del sistema nervoso a livello neurobiologico. Fra questi tasselli mancanti, ne saltano all’occhio almeno due: una prospettiva evolutiva e una disattenzione verso i processi di sviluppo e plasticità dei tessuti nervosi.

 

La prospettiva evolutiva

L’analisi comparata dell’organizzazione dei tessuti nervosi in organismi diversi e una prospettiva evolutiva corretta possono di fatto contribuire in maniera considerevole alla elucidazione di quei principi generali dei circuiti neurali che stanno alla base del trattamento dell’informazione, come alla comprensione delle relazioni tra geni, struttura e funzioni, che non emergono dagli studi di specie prese singolarmente. Si potrebbero per esempio identificare quali sono le caratteristiche neurali che si possono generalizzare tra le specie e quali invece quelle che non sembrano essere ampiamente conservate, permettendo di estrapolare quali sono i principi generali dell’organizzazione del sistema nervoso, incluso quello umano. Per fare un esempio fra i tanti, il confronto dei Central Pattern Generator (CPG) di diverse specie, sia di vertebrati che di invertebrati, ha permesso di capire quali gruppi di neuroni sono in grado di attivarsi seguendo dei pattern ritmici, grazie alle interazioni tra proprietà della membrana e connettività sinaptica (Marder & Bucher 2001). Per citare un altro esempio, alcune regioni del cervello e numerose vie nervose sono sorprendentemente conservate in tutti i vertebrati (Shanahan, Bingman, Shimizu, Wild & Güntürkün 2013) e, forse, nella maggior parte degli animali (Farries 2013; Strausfeld & Hirth 2013). La ricerca comparativa può di conseguenza, sulla base di ciò che viene estrapolato dall’analisi di altre specie, aiutare a predire quali principi neurobiologici si possono osservare nell’essere umano. Inoltre, un approccio comparativo-evolutivo che si focalizzi sulla variazione, piuttosto che sulla conservazione, può anch’esso guidare alla scoperta di principi generali sui meccanismi di adattamento all’ambiente. Alcuni studi suggeriscono che il cervello umano possieda tratti unici a livello dell’organizzazione dendritica o dei quadri di espressione molecolare (Bianchi et al. 2013; Konopka et al. 2012). Questo non implica ovviamente che l’uomo sia unico nel mondo animale, ma propone alcune singolarità importanti per capire il processo dell’ominazione. Un altro esempio riguarda uno studio sull’evoluzione dell’espressione genica, mediante sequenziamento dell’RNA messaggero, tra dieci diverse specie (mammiferi e non) e tra diversi organi (cervello, cervelletto, cuore, reni, fegato, testicoli). Da questa ricerca è emerso che l’unico organismo con moduli di espressione genica specifici per il cervello (in particolare, nella corteccia prefrontale) è l’uomo. Gli altri primati invece condividono tra loro gli stessi moduli di espressione cervello-specifici. L’analisi di Gene Ontology sui geni appartenenti a questi quattro moduli rivela che la maggior parte di essi sono coinvolti nell’isolamento dell’assone, che riflette la grande proporzione di assoni coperti da mielina nella corteccia prefrontale umana rispetto agli altri primati, suggerendo un aumento della connettività della corteccia prefrontale con le altre aree corticali (Brawand et al. 2011).

L’analisi comparativa deve ovviamente prevedere una valutazione adeguata delle specie da esaminare per la creazione di banche dati sulle connessioni globali (connettomi) e le espressioni di trascritti in RNA (trascrittomi) del sistema nervoso. Queste non devono solamente rappresentare le tradizionali “specie modello” delle Neuroscienze (Caenorhabditis elegans, Drosophila melanogaster, Danio rerio, Mus musculus, Calithrix jacchus, Homo altre specie di riferimento, che i ricercatori devono considerare secondo diversi criteri, come per esempio la loro posizione filogenetica.
È interessante rilevare che il progetto americano BRAIN si pone come obiettivo ultimo quello di capire il funzionamento del cervello umano, ma una buona parte del progetto si focalizzerà proprio sullo studio di specie non-umane, nelle quali risulta essere più semplice lo sviluppo e l’attuazione di nuove tecnologie, e nelle quali la ricerca può essere portata avanti con un maggior riduzionismo.
Lo HBP si propone invece di andare ad analizzare la mappa neuronale solamente di un’altra specie oltre che dell’uomo, quella del topo (Mus musculus; Striedter et al. 2014), minimizzando drasticamente la possibilità di comprendere il posto del cervello umano nella natura e le sue basi profonde.

 

Sviluppo e plasticità

Una critica forte che è stata avanzata allo HBP è la totale assenza di interesse per i meccanismi di sviluppo del sistema nervoso, per il raffinamento dei suoi circuiti, per la genesi dei comportamenti. Sono assenti interi nuovi campi del sapere, come l’EvoDevo, che studia i rapporti fra sviluppo ed evoluzione in ampia chiave comparativa, la genetica del comportamento, la ricerca dei fattori che determinano le anomalie strutturali e/o funzionali delle malattie a base neurologica. Una dimensione troppo riduzionistica finisce con l’ignorare quella che è la proprietà saliente del tessuto nervoso: comunicare e interagire con l’ambiente interno ed esterno.

In questo campo, un grande “buco” dei progetti di Big Science (BRAIN & HBP) riguarda la presa in esame della più recente svolta della Biologia e del dibattito natura-ambiente: l’Epigenetica. Con il termine Epigenetica, coniato già nel 1942 da un grande uomo di cultura e scienza, Conrad Waddington (1905-1975), si intendono i tratti fenotipici che sono ereditabili, senza cambiamenti nella sequenza del DNA. Le modificazioni epigenetiche del DNA comprendono: metilazioni, modificazioni istoniche, riorganizzazione della cromatina, RNA non codificanti, ecc. Queste modificazioni del genoma indotte dall’ambiente vanno a interessare non la sequenza del DNA, ma la regolazione dell’espressione genica. Il nostro cervello è altamente ricettivo all’ambiente che lo circonda e si modifica e adatta incessantemente, costantemente, nel corso di tutta la vita. Ecco come nutrizione, variazioni ambientali, interazioni sociali, agiscono in concerto plagiando il sistema nervoso per generare quella diversità ed eterogeneità propria degli esseri viventi. Le modificazioni epigenetiche giocano un ruolo chiave non solo nello sviluppo del sistema nervoso e nella sua funzione, ma anche nelle più alte funzioni cerebrali, come l’apprendimento e la memoria (Lubin 2012).

Il campo dell’“Epigenetica comportamentale” esplora per esempio la relazione tra comportamento e alterazioni epigenetiche in specifiche aree cerebrali (Miller 2010), cercando di collegare alcuni fattori chiave come esperienze nelle prime fasi della vita, interazioni sociali, abusi, con alcune caratteristiche comportamentali nella vita adulta. Per esempio, uno studio sui ratti ha rivelato come il grado di cure materne che ricevono i cuccioli determina in che modo il cervello di questi risponde a eventi stressanti nel corso della vita adulta. A seconda del grado di cure materne si verificano modificazioni epigenetiche, in particolare differente metilazione, a livello del promotore genico del gene del recettore dei glucocorticoidi nell’ippocampo: ratti che ricevono scarse cure materne saranno più sensibili allo stress nella vita adulta (Weaver et al. 2004).

I meccanismi epigenetici possono alterare la funzione dell’espressione genica in risposta all’ambiente sia nel tessuto nervoso che nei tessuti somatici (Szyf 2012). Se questi stessi meccanismi avvengono anche a livello della linea germinale, allora possono verificarsi dei cambiamenti epigenetici nella cellula uovo e nello spermatozoo in risposta all’esposizione ambientale che di conseguenza possono essere trasmessi alle generazioni future tramite la linea germinale. Questo evento sorprendente è stato riscontrato in uno studio di due ricercatori americani, Dias e Ressler, del Dipartimento di Psichiatria e Scienze Comportamentali dell’Università di Medicina in Atlanta, Georgia (USA). Essi hanno osservato che associando uno stimolo olfattivo (i.e. acetofenone) con uno shock elettrico nei topi, si verifica una demetilazione (quindi un’aumentata espressione) del gene che codifica per il recettore olfattivo deputato al riconoscimento di questo odore e un aumento del numero dei neuroni olfattivi specifici. L’aspetto singolare risulta essere che l’“atteggiamento” di paura che i topi mostrano quando sono stimolati con lo specifico odore si tramanda da un individuo ai suoi discendenti, al massimo per una o due generazioni successive. Questo comportamento specifico nelle generazioni successive viene affiancato, come si osserva nei genitori, da modifiche nel loro sistema nervoso (in particolare un aumentato numero di neuroni olfattivi deputati al riconoscimento dell’odore in questione).

I due ricercatori americani hanno trovato che il tramite di questo passaggio di informazioni risulta essere proprio la linea germinale, nella quale il gene del recettore olfattivo specifico per l’acetofenone risulta essere demetilato come nel sistema nervoso (Dias e Ressler 2014). Questo significherebbe che le esperienze dei genitori potrebbero influenzare direttamente la struttura del sistema nervoso dei loro figli, e magari anche quella dei nipoti. Inoltre, diversi studi epidemiologici nell’uomo e un crescente numero di studi in modelli animali, suggeriscono una trasmissione germinale non-genetica tra le generazioni in seguito all’esposizione ai pesticidi e all’esperienza, come la deprivazione metabolica, l’incremento dell’assunzione di grasso, la depressione, l’uso di cocaina e la paura (Grossniklaus et al. 2013).
Si parla in questo senso di un’eredità epigenetica transgenerazionale, che potrebbe essere la ragione che spiega come fanno gli organismi ad adattarsi così velocemente a un ambiente dinamico. Questa tipologia di eredità potrebbe spiegare anche come fa il nostro cervello a essere plastico e mutevole in risposta a repentine variazioni ambientali che lo circondano, senza dover “attendere” i lunghi tempi della selezione naturale dettata da mutazioni genetiche casuali.

Alla luce di queste considerazioni, sembrerebbe che i progetti che auspicano la completa comprensione del sistema nervoso umano e la sua rappresentazione informatica si siano dimenticati di una caratteristica chiave, essenziale, che rende unico il cervello rispetto agli altri organi, e cioè la plasticità. Il cervello umano è un organo altamente dinamico e in continuo cambiamento e la sua rappresentazione informatica deve poter includere questa sua plasticità. Se immaginassimo di immortalare l’encefalo, con i suoi cento miliardi di neuroni e connessioni molte volte più numerose, avremmo allora una mappa dettagliata di tutto ciò che costituisce il cervello. Ma questo fotogramma rappresenterebbe solo una minima parte della totalità di quest’organo. Come una fotografia rappresenta solo un istante di un momento di vita, ma non riproduce la vita stessa. Allo stesso modo una mappa, seppur dettagliata, del cervello non costituirebbe la totalità di esso, perché non terrebbe conto dei continui mutamenti che avvengono al suo interno. È un po’ il dilemma paradossale dei “cartografi dell’impero”, che da Borges in poi fa riflettere gli epistemologi, visto in chiave dinamica.

 

Bibliografia

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Konopka G., Friedrich T., Davis-Turak J., Winden K., Oldham M.C., Gao F., … Geschwind D.H., “Human-specific transcriptional networks in the brain”, Neuron, 2012, 75(4), pp. 601-17.
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Striedter G.F., Belgard T.G., Chen C.-C., Davis F.P., Finlay B.L., Güntürkün O., … Wilczynski W., “NSF workshop report: discovering general principles of nervous system organization by comparing brain maps across species”, Brain Behavior and Evolution, 2014, 83(1), pp. 1-8.
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*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.21/22 – “Mentecorpo. Il cervello non è una macchina