Come si può definire un ricercatore?

Apprendiamo con dolore della morte del prof Paolo Gasparini, da sempre tra i più grandi amici della Fondazione Idis-Città della Scienza e membro della sua Assemblea dei Soci fondatori, scomparso nella giornata di ieri.
Questo è stato il suo ultimo articolo scritto di recente per il Centro Studi di Città della Scienza.
Ciao Paolo!

Come si può definire un ricercatore? Mi chiese all’improvviso Iunio Iervolino, ingegnere con la mentalità tipica di un ricercatore, durante un viaggio in treno. Cominciò così una lunga discussione che durò tutto il resto del viaggio, continuò ancora per qualche giorno e ritorna frequentemente nei miei pensieri.
Non è una domanda oziosa.
La figura del ricercatore scientifico, o dello scienziato, è quasi sempre percepita in modo diverso da quello che un vero ricercatore sente di essere, ed è oggetto di vari stereotipi ciascuno dei quali rappresenta solo una parte della realtà
Ricordo discussioni analoghe avute nel passato, soprattutto con Felice Ippolito, che ne aveva una visione molto pragmatica, e Giorgio Marinelli, che ne aveva una visione romantica.

Nonostante le differenze di vedute, su alcuni punti siamo tutti concordi. Al contrario di quanto ritenuto dalla gente comune, la qualità principale di uno scienziato non è l’intelligenza, ma esistono altre qualità più importanti e necessarie: prima di tutto la curiosità, poi la tenacia e l’ottimismo che consentono di perseverare lungo percorsi mentali che sembrano frequentemente contraddetti dai fatti, poi la creatività, cioè la capacità di tracciare nuovi percorsi partendo dall’esistente, e il coraggio di presentare e difendere le proprie visioni contro l’incredulità e, a volte, l’ostilità dei colleghi. Solo dopo viene l’intelligenza, necessaria per poter organizzare irrealistiche visioni su schemi razionali.
Un’altra dote importante, ma non essenziale, è l’apertura mentale, cioè la capacità sia di cogliere spunti dal lavoro degli altri, sia di confrontarsi senza remore e timori. Ho vissuto i primi anni da ricercatore in un ambiente che mi voleva convincere che non era saggio dire chiaramente il proprio pensiero. Bisogna dire e non dire affermava convinto il mio primo maestro scientifico, cancellando intere frasi nelle bozze dei lavori che avevo preparato perché sono scritte tanto bene che si capisce tutto. Ho continuato per la mia strada e, per fortuna, nella seconda metà degli anni sessanta diversi docenti con mentalità del tutto diversa sono affluiti alla Università di Napoli, non ancora Federico II. Infine, dopo sette anni dalla laurea, sono andato a lavorare alla Rice University di Houston, dove ho trovato ulteriori conferme al mio modo di vedere.

Nei miei anni alla Rice ho imparato anche che è difficile diventare un vero scienziato se non si vive in un ambiente organizzato per stimolare e valorizzare le qualità sopra menzionate. Nelle principali università americane (almeno di quei tempi ma credo anche di ora) i momenti cruciali delle giornate, oltre le lezioni, erano i seminari interni (una o due volte la settimana) nei quali a turno si presentavano i progressi dei propri lavori oppure i risultati di pubblicazioni appena uscite, i seminari all’ora di pranzo quando, mangiando un panino, si discuteva su qualche idea avveniristica presentata da qualcuno o letta in qualche rivista. Un ruolo importante era rivestito dai fugaci incontri quando si andava a prendere un caffè nella cafeteria del campus; era l’occasione per scambiarsi pillole di informazioni con colleghi di altri Dipartimenti. Insomma le Università americane erano un ambiente predisposto ad alimentare la principale caratteristica di un ricercatore: la dedizione alla propria attività.

L’attività scientifica risiede molto intensamente in cima ai pensieri di chi la vuole praticare nel solo modo che ha senso (cioè ai più alti livelli), ed essendo lontana da emozioni, concezioni ideologiche e metafisiche tende a prevalere perfino sulle responsabilità familiari e sociali. Essa richiede una concentrazione assoluta. Secondo il matematico russo Andrei Kolmogorov, il normale sviluppo psicologico di una persona ha termine nel momento in cui sboccia il talento matematico (possiamo dire scientifico). Questa teoria tende a spiegare perché gli scienziati appaiono immaturi secondo la concezione del vivere comune, stravaganti, distratti.

Ho tentato di applicare questi principi ai gruppi e agli enti che ho diretto. Diverse volte con successo. Il successo è stato sempre legato alla mia capacità di formare e selezionare personalmente coloro che mi erano vicini nella conduzione di enti o progetti, quando mi è stato consentito, farlo basandomi su questi unici criteri.
La formazione di un vero ricercatore o di uno scienziato non si ferma ai primi anni di ricerca in un gruppo, ma deve continuare per tutta la vita. Per questo è necessario, oltre lo studio individuale, anche un ambiente adatto. Per questo è essenziale la mobilità internazionale, intesa non solo come partecipazione a congressi, ma come frequenza di laboratori diversi e interazione continua con colleghi di altre università.
I progetti di ricerca e le varie iniziative finanziate dalla Unione Europea sono un eccezionale occasione perché ciò avvenga. La partecipazione a questi progetti costituisce una occasione unica per molti ricercatori. La competizione europea diventa ogni anno più aspra, il livello dell’asticella da superare sale costantemente, ma vale la pena partecipare. Anche la preparazione di un buon progetto non finanziato è una esperienza unica di collaborazione interdisciplinare, oltre che internazionale, che arricchisce professionalmente e culturalmente.
Purtroppo la partecipazione degli universitari italiani a questi progetti diventa sempre più difficile.

Negli ultimi dieci anni i governi che si sono succeduti hanno caricato i docenti e ricercatori universitari di un numero crescente di doveri didattici e soprattutto burocratici. Oberati da doveri mentalmente improduttivi, molti docenti e i ricercatori rifuggono da una qualsiasi strutturazione interna comune della ricerca e partecipano ai seminari con riluttanza, considerandoli in fondo una perdita di tempo. La burocratizzazione della ricerca è oramai tale che manca ai docenti il tempo di essere “veri ricercatori”. Ciò è vero, seppure in misura più blanda, anche per gli enti di ricerca.
La burocratizzazione della ricerca è andata di pari passo con la lottizzazione politica della ricerca. La consapevolezza che la ricerca, e quindi il management del Ministero che la sovraintende e dei vari enti di ricerca, sono in realtà una fonte di potere non indifferente è nata nei politici già nel primo decennio successivo alla seconda guerra mondiale. All’inizio questo potere veniva esercitato timidamente nelle nomine del Ministro e dei funzionari interni al Ministero, che avveniva seguendo logiche partitiche, ma scegliendo comunque funzionari di elevato livello. Negli ultimi decenni questa tendenza è degenerata al punto tale che anche alle direzioni degli enti di ricerca sono stati spesso nominati personaggi di mediocre competenza scientifica, i quali hanno portato ad una progressiva chiusura della libertà di ricerca e della creatività e ad una inversione nei valori di giudizio di un progetto: ciò che conta non è più la qualità dei risultati raggiunti, che la mia generazione era stata educata ad avere come priorità assoluta, ma il rispetto pedissequo delle norme burocratiche.

Potrei elencare diverse “bestialità burocratiche” , ma per me la più grossa, oramai presente anche nei progetti europei, è pretendere che un progetto di ricerca pluriennale segua pedissequamente le fasi previste nella formulazione iniziale del progetto. Questa visione ottusa, secondo la quale è vietato trasferire fondi da una voce all’altra, alterare le sequenze nella consegna dei prodotti, deviare dalle concezioni iniziali, non tiene conto del fatto che molto spesso nelle ricerche si fanno scoperte impreviste, ostacoli imprevedibili richiedono deviazioni, rallentamenti, una distribuzione delle energie mentali e strumentali diversa da quella immaginata inizialmente. Chiunque abbia partecipato ad un grande di progetto di ricerca sa quante volte, anche se il progetto è coronato da successo, si arriva alla fine del percorso immaginato all’inizio carichi di nuove conoscenze, ma senza quella conoscenza per la quale ci eravamo messi in cammino.
Le nostre università trasformano nel tempo grandi talenti scientifici in burocrati della ricerca. E’ questa una causa non secondaria della cosiddetta fuga dei cervelli.

Ostacolare la propensione alla ricerca dei molti talenti che ancora abbiamo in Italia significa creare un danno a tutto il tessuto sociale, impedendone la possibilità di sviluppo intellettuale e industriale e diminuendone la competitività.
E’ urgente che i “veri ricercatori” che occupano posti di responsabilità nelle Università (e per fortuna alla Federico II abbiamo un Rettore, anche Presidente della CRUI, che lo è) e negli Enti di ricerca si coalizzino dando priorità assoluta alla inversione di questa tendenza e permettendo al cavallo alato della ricerca di riprendere il volo, libero dai pesanti fardelli che lo trattengono al suolo.