Il web-documentary

Tratto da: “Il web-documentary come nuova frontiera della comunicazione della scienza: stato attuale e prospettive

 

Introduzione
Cos’è un web-documentary? Una risposta standardizzata e generalmente accettata a questa domanda, per il momento, non esiste. La prima parte di questo capitolo ha l’obiettivo di affrontare la questione, senza la pretesa di trovare una risposta univoca o definitiva, considerando che si tratta di un genere emergente, ancora in via di definizione e alla ricerca di una propria forma. Nella seconda parte del capitolo, dopo una breve panoramica della diffusione del web-documentary nel mondo, riflettiamo sulle potenzialità di questo nuovo genere per la comunicazione della scienza.
Cominciamo col dire che un web-documentary, o documentario interattivo, è un nuovo genere di documentario nato intorno ai primi anni Duemila, che differisce dal documentario tradizionale per forma, modalità di fruizione e rapporto tra autore e fruitore.

Dal punto di vista formale, se il documentario tradizionale è un audiovisivo pensato per cinema o televisione, il web-doc è un prodotto multimediale destinato a una fruizione su internet, i cui contenuti vengono presentati sotto forma di diversi media – testo, audio, video, infografiche, immagini, animazioni, e così via – collegati in una struttura ipertestuale. In questo senso la parola “documentary”, può forse risultare fuorviante, perché tendiamo ad associarla istintivamente a un prodotto video.
Questa modalità di offerta dei contenuti influisce necessariamente sia sulla struttura narrativa del documentario che sulla sua fruizione da parte dello spettatore/utente, che sono due aspetti strettamente correlati. Se un documentario tradizionale è caratterizzato da una narrazione “lineare” – in cui si parte da un inizio e si arriva a una fine secondo un percorso stabilito dall’autore – la narrazione in un web-doc è “non lineare” proprio perché l’utente è chiamato a fruirlo in modo “attivo”. Nel primo caso lo spettatore assiste in modo “passivo” (guardando, con una partecipazione al più cognitiva), senza poter influire sulla storia; nel secondo caso esplora i vari contenuti secondo un proprio percorso basato su interessi personali e con i propri tempi, come accade su qualsiasi sito internet, e la sua partecipazione è, in qualche modo, “fisica”, nel senso che si traduce in azioni come muovere il mouse, cliccare, muoversi in uno spazio virtuale, parlare.

In questo momento il genere web-documentary è oggetto di un dibattito che vede coinvolti sia accademici che film-maker, che si confrontano su questo terreno comune su siti internet di settore e nell’ambito di convegni sull’argomento (come quelli del sito i-docs, che si svolgono ormai con cadenza biennale a Bristol, in Inghilterra). A testimoniare il fermento culturale intorno a questo tema è anche la serie di interventi al riguardo che, proprio dal 2014, l’Open Documentary Lab del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha iniziato a ospitare nel suo Research Forum, uno spazio in cui i ricercatori sono liberi di esprimere opinioni e testare nuove teorie, in uno spirito di collaborazione di comunità, anche con gli studenti, volto a favorire lo sviluppo del campo di volta in volta oggetto del dibattito. Le prime lezioni, a cura del ricercatore spagnolo Arnau Gifreu Castells ripercorrono, in parallelo, l’evoluzione storica dei due elementi di cui il genere web-doc, potremmo dire, rappresenta l’unione: il documentario e internet. Con il supporto, tra gli altri, dell’Open Documentary Lab e di i-docs ha anche preso forma un web-doc collaborativo e a basso costo progettato per provare a spiegare cosa sia un web-doc, dal titolo Come/In/Doc, realizzato nel 2014.
Di seguito riprendiamo alcune delle riflessioni del sito del MIT, per poi cercare una possibile definizione originale – per lo meno, funzionale a questo lavoro di ricerca – di questa nuova forma di comunicazione.

 

Sviluppo del genere web-doc: ipertesto, multimedialità, storytelling
Il genere web-doc nasce dalla convergenza di tre elementi fondamentali: la struttura ipertestuale, la multimedialità e lo storytelling. I primi due sono strettamente legati allo sviluppo delle tecnologie che hanno portato alla nascita di internet, mentre il terzo, la narrazione, è l’elemento che accomuna il web-doc al documentario tradizionale.

Ipertesto
La struttura di un web-documentary è basata sul concetto di ipertesto, un documento digitale interattivo i cui contenuti sono distribuiti in un network e fruibili in modo non lineare.
Tre sono i componenti fondamentali di un ipertesto: i nodi, i link, e le ancore. I nodi sono le unità semantiche del network: ogni nodo esprime una singola idea, o concetto. I link sono i collegamenti interattivi che connettono fra loro i diversi nodi e consentono all’utente di muoversi da uno all’altro. Le ancore, infine, sono gli elementi del nodo sorgente – per esempio una parola, una frase, una parte di immagine, un simbolo – da cui si diramano i link che conducono ad altri nodi.
Il concetto di ipertesto si può far risalire già allo scienziato statunitense Vannevar Bush, tra i responsabili del Progetto Manhattan durante la Seconda Guerra Mondiale. In suo articolo del 1945 intitolato As we may think, Bush aveva teorizzato un calcolatore analogico dotato di un sistema di archiviazione – una sorta di enciclopedia – chiamato memex (dalla contrazione di “memory” ed “expansion”), la cui struttura di accesso ai documenti non era lineare, ma funzionava per associazione. In sostanza, si trattava di un apparecchio futuribile con il quale gli studiosi avrebbero potuto raccogliere e organizzare i vari testi che usavano per lavoro, ed è considerato l’antenato del personal computer.
Il termine “ipertesto” fu usato per la prima volta nel 1970 da Ted Nelson nell’articolo No more teacher’s dirty looks, per riferirsi a un sistema in cui testo, voce, immagini e video sono in grado di interagire con i lettori. Se già negli anni Sessanta, Nelson ed Engelbart avevano sviluppato un programma che era in grado di realizzarlo concretamente, il suo uso si consolidò solo verso la metà anni Ottanta, quando i personal computer iniziarono a operare con piccoli sistemi ipertestuali.

I primi ipertesti erano oggetti chiusi, off-line, che si trovavano su supporti hardware con uno spazio limitato e non prevedevano l’accesso dell’utente a contenuti esterni (per esempio, gli ipertesti su cd-rom diffusi negli anni Novanta, o quelli che tuttora si trovano tra gli exhibit interattivi dei musei scientifici). Con la diffusione di internet, che è un sistema basato per sua natura su una struttura ipertestuale, l’ipertesto – il sito internet – è diventato un oggetto aperto, che consente all’utente di accedere a contenuti esterni (altri siti).

Multimedialità
Con lo sviluppo di internet e delle tecnologie digitali, per indicare un ipertesto i cui nodi sono contenuti multimediali – testo, immagini, animazioni, video, audio, e così via – invece che solo testuali, è nato il termine “ipermedia”, di cui lo stesso World Wide Web potrebbe essere considerato un esempio.
La combinazione di queste risorse ha il potere di aumentare in modo significativo l’attenzione, l’apprendimento e la comprensione dell’utente, rispetto all’uso del solo testo, perché più si avvicina al nostro modo naturale di comunicare: nel corso di una conversazione, per esempio, parliamo e ascoltiamo (componente sonora), guardiamo l’interlocutore (componente visiva), gesticoliamo e ci muoviamo (animazione), e talvolta scriviamo (componente testuale). Per questo l’uso del multimediale può offrire un’esperienza immersiva nel fruire una storia.

Storytelling

Una struttura a ipertesto consente di sviluppare lo storytelling su più livelli. George Landow, nel suo Hyper/Text/theory, porta avanti un parallelo tra ipertesto e letteratura che si presta molto a una riflessione sul web-documentary, perchè introduce con forza l’elemento della narrazione. Se finora la letteratura è stata soggetta ai vincoli del mezzo su cui viene prodotta – la carta stampata – dice Landow, l’introduzione dell’ipertesto consente di superare la rigida linearità alla base della letteratura tradizionale (per quanto esperimenti di non linearità siano stati portati avanti anche sulla carta, per esempio con i libri-game degli anni Ottanta). L’ipertesto offre infatti molti modi alternativi per cercare informazioni, attraverso una struttura a rami, singoli o multipli, che possono avere più o meno riferimenti tra loro, in un continuum di informazione che si può considerare virtualmente infinito.
Anche Geoffrey Nunberg, nel suo libro The future of book, scriveva che “Il link elettronico, il fattore che definisce questa nuova tecnologia dell’informazione, produce una lettura multilineare o multisequenziale”.
La fruizione non-lineare, interattiva da parte dell’utente, che può controllare il proprio percorso scegliendo tra diverse possibilità lasciandosi guidare dai propri interessi, asseconda, in qualche modo, la natura associativa della mente umana. Secondo Arnau Gifreu Castells l’ordine di lettura viene controllato in modo simile a come il nostro cervello formula i pensieri, secondo una libera associazione di idee.
Dal punto di vista dell’autore, l’ipertesto assume significato in base a come si sceglie di legare tra loro i vari nodi[6]. Anche se non c’è un ordine di navigazione prestabilito, ci sono molti criteri che influenzano il lettore nello scegliere un percorso piuttosto che un altro, e i dispositivi per la navigazione possono comunque fornire un punto di partenza e un aiuto nell’orientamento tra i singoli nodi.

 

Implicazioni “politiche” e collaborazione
Oltre alla ricchezza data dalla multilinearità e dalla presenza di contenuti multimediali, c’è un altro valore aggiunto che il web-doc eredita dall’ipertesto: il ruolo centrale dell’utente. Con l’idea di ipertesto nasce anche quella della collaborazione e dell’autorialità condivisa.
Già Landow, infatti, vent’anni fa sosteneva non solo che l’ipertesto viene ri-creato a ogni lettura nei diversi percorsi degli utenti, ma che questi ultimi possono anche aggiungere nuovi “lexias” (è la parola con cui Roland Barthes intendeva “blocchi di significato”). Lo stesso Ted Nelson trascorse molti anni a sviluppare Xanadu, un tipo di libreria universale completa che consentiva alle persone di relazionarsi e collaborare a distanza usando testi, immagini e suono (in pratica fu la prima realizzazione del memex di Bush), in una struttura aperta e modificabile. Nelson fu il primo a sviluppare concetti come quello della “storia” di un documento modificato da molti autori, e si pose il problema di come garantire i loro diritti in questa situazione di autorialità decentralizzata.

L’utente di un ipertesto o di un web-doc, quindi, non solo ha il potere – e la necessità, se vuole progredire – di scegliersi un proprio percorso, ma può anche arricchirlo di propri contenuti. In questo senso la demarcazione tra autore e utente diventa labile, anche se è necessario che l’autore assuma un ruolo di guida nel fornire all’utente linee guida e meccanismi senza conoscere i quali non potrebbe progredire nella storia.
Oggi che siamo nell’era del web 2.0 – il cosiddetto “social web”, in cui i siti sono diventati punti di incontro tra gli utenti, i social network consentono scambi e la maggior parte delle tecnologie interattive-piattaforme sono collaborative – lo sviluppo collettivo di progetti on line è già una realtà (un esempio su tutti, l’enciclopedia collettiva on line Wikipedia). Questo processo è anche favorito dalla diffusione di tablet e smartphone capaci di supportare applicazioni di realtà aumentata, che rendono sempre più semplice scattare foto, registrare video e audio, o creare animazioni (un po’ come accadde negli anni Settanta-Ottanta, quando la tecnologia per produrre video divenne accessibile a tutti, sia come costi che come leggerezza, portatilità e facilità di utilizzo). A dimostrare che la tecnologia, favorendo nuove forme di espressione, può produrre nuove tendenze culturali.

 

Verso una definizione di web-doc
Fin qui abbiamo detto che il web-documentary deriva dalla contaminazione tra “ipermedia” – che a sua volta è unione di ipertesto e multimedialità – e storytelling, che è l’elemento che distingue un web-doc da un sito qualsiasi. Potremmo, a questo punto, definirlo come un sito la cui fruizione sia guidata, almeno in parte, da una storia ancorata alla realtà, di cui l’utente possa scegliere di esplorare diversi piani paralleli e che possa fruire attraverso contenuti multimediali di vario genere. Rispetto al documentario tradizionale, viene ridefinito il ruolo dell’utente, che può muoversi su percorsi narrativi seguendo il proprio interesse e aggiungere anche propri contributi. Allo stesso tempo si distingue dal documentario tradizionale perché se questo, una volta realizzato, è immodificabile, il web-doc è qualcosa di dinamico, adattabile, che può continuare a evolversi proprio grazie alla partecipazione degli utenti.

Tuttavia, se guardiamo qualche esempio di web-doc, questa definizione è ancora troppo ampia per permetterci di identificare un web-doc nella giungla dei prodotti digitali multimediali disponibili in rete, i cui confini come genere sono labili e indefiniti (la situazione è complessa anche a livello di vocabolario: si parla di “web-documentary”, “interactive documentary”, “web-reportage”, “giornalismo digitale”). Sandra Gaudenzi aggiunge che il web-doc, con le sue risorse, consente di interagire e giocare con la realtà e, per estensione, rappresentarla, attraverso diverse tecniche e metodi.
Ribas restringe ancora il campo, dicendo che il web-doc è un’applicazione ipermediale “con un obiettivo specifico, e perciò costrizioni-vincoli strutturali e di navigazione scelti consapevolmente da un autore con l’intenzione di raggiungere gli obiettivi di applicazione secondo il meccanismo dei media interattivi”.
Noi aggiungeremmo che un web-doc si distingue anche per un’impronta autoriale di fondo, un taglio, che si manifesta nel modo in cui le parti di contenuto sono state assemblate e collegate, sia dal punto di vista “logico”/semantico, sia dal punto di vista della modalità di fruizione, cioè delle modalità di interazione e navigazione. E, infine, nella presenza di un messaggio/filosofia di fondo (i due casi di studio di web-doc considerati in questa ricerca hanno entrambi un’impronta autoriale ben definita).

Aggiungeremmo anche che la struttura di un web-doc dovrebbe essere autoconsistente, e che possibilmente i singoli nodi dovrebbero essere fruibili indipendentemente dagli altri contenuti (in modo da poter essere anche condivisi sui social network singolarmente).
Dal punto di vista della forma, aggiungeremmo che l’aspetto grafico-visivo deve essere molto curato, come accade per un prodotto artistico come il documentario tradizionale; e che, per quanto le soluzioni grafiche e la struttura possano essere le più varie, i contenuti multimediali (soprattutto video/animazioni, ma anche foto e audio) devono prevalere rispetto al testo.
Non escluderemmo dalla nostra definizione di web-doc, comunque, quei prodotti che non contengono video. Forse l’approccio di Arnau Gifreu Castells portato avanti sul Research Forum del MIT, a questo stadio di definizione, ci sembra troppo restrittivo, nel momento in cui dà per scontato che un web-doc debba contenere parti di documentario video, seppur parcellizzato.

 

Questioni aperte
La comparsa di questo nuovo prodotto di comunicazione pone alcune questioni che non siamo ancora in grado di affrontare.
Per esempio, l’apertura di un web-doc – come di qualsiasi altri sito – all’apporto degli utenti (che siano commenti testuali, fotografie, audio, video o altro) pone un problema fondamentale all’autore del progetto: quello dell’opportunità o meno di un filtro, sia sulla qualità che in merito al contenuto di questi contributi (in particolare nel caso si trattino temi “sensibili”). Per quanto si vedano esempi di progetti virtuosi, come Wikipedia – il cui filtro si basa su un controllo delle informazioni reciproco da parte degli utenti, in una sorta di autogestione collettiva – nella maggior parte degli spazi in rete questo problema non è stato ancora superato, e le modalità di moderazione anche dei semplici commenti sulle testate giornalistiche restano ancora un rompicapo per gli editori. Questo non toglie che, potenzialmente, l’apporto di contributi da parte degli utenti possa costituire un grande valore aggiunto per un web-doc.

Altri interrogativi riguardano le modalità di fruizione di una storia attraverso una struttura ipertestuale.
L’assiduo uso di internet ci sta abituando alla non-linearità, e anche nel cinema e nella letteratura contemporanea sta diventando sempre più frequente l’uso del finale sospeso. Ma siamo sicuri che, quando seguiamo una storia, ci sentiamo a nostro agio con la non-linearità, o con l’assenza di un inizio e una fine ben definiti? Può appassionarci una storia in cui siamo noi a dover decidere, per stanchezza o per logica, come terminare il nostro percorso all’interno di un network di informazioni concepito come potenzialmente infinito? Non lo possiamo ancora sapere: saranno soprattutto le nuove generazioni a stabilire quali siano le modalità più di successo con cui raccontare una storia.
Inoltre, la struttura ramificata di un ipertesto prevede che l’utente non acceda necessariamente a tutti i contenuti a disposizione. La percezione di essersi persi contenuti importanti potrebbe forse creare disagio? Per risolvere questo dubbio, però, c’è una soluzione: basterebbe una mappa concettuale, una rappresentazione grafica della struttura ipertestuale che aiuti l’utente a trovare i contenuti che lo interessano di più.

 

Diffusione attuale, mercato
Nonostante le prime sperimentazioni di web-doc siano comparse già a fine anni Novanta, questo tipo di prodotto si è diffuso molto più di recente, a partire dagli anni 2007-2009, soprattutto in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia, per poi diventare, a partire dal 2010, prodotto di massa. Il genere web-doc ha anche cominciato a venire accolto in diversi festival del documentario, come l’International Documentary Film Festival di Amsterdam, il News and Documentary Emmy Award e l’International Digital Emmy Award for non-fiction, l’IDFA DocLab Award for Digital Storytelling, il Webby Award, il New York Film Festival, il France 24-FRI International Web Documentary Award, il Canadian Screen Award.
Tra gli esempi di successo, possiamo citare – oltre a Prison Valley di Arte tv del 2010, dotato di una fascia sottopancia per lo scambio di impressioni tra gli spettatori (anche via Facebook e Twitter) – Voyage au baut du charbon di Samuel Bollendorff, in cui l’utente è chiamato a intraprendere in prima persona, compiendo determinate scelte e percorsi (come in un videogioco), un viaggio alla scoperta della vita dei minatori cinesi; The Challenge della Honkytonk Films, che presenta una modalità di navigazione simile, dove l’utente è un giornalista freelance che indaga sulla lunga battaglia legale tra ecuadoriani indigeni e il gigante del petrolio Chevron; The iron curtain diaries: 1989-2009, prodotto, tra gli altri, da Peace Reporter, che raccoglie testimonianze lungo quella che un tempo era la Cortina di Ferro; La Zone di Le Monde (2011), che ritorna nell’area contaminata di Chernobyl 26 anni dopo, o Thanatorama (2007), che esplora l’industria e la cultura del post-mortem, in cui l’utente deve immaginare di essere morto e scegliere cosa fare del suo corpo. Un’attenzione particolare merita il progetto Highrise di Katerina Cizek, del National Film Board of Canada (2009), che esplora la vita “in verticale” nelle periferie urbane di tutto il mondo. Un caso di web-doc collettivo in continua evoluzione, che utilizza anche contributi degli utenti: nato nel 2009, si è arricchito nel tempo di diversi progetti, come Out my window (2010), One millionth tower (2011) e A short history of highrise (2013), realizzato in partnership con il New York Times; nel 2014 si è aggiunto come partner anche l’OpenDocLab del MIT.

Anche solo leggendo questi titoli si può intuire come, finora, il web-doc si sia connotato soprattutto come un genere di denuncia sociale, con una vocazione “civile” e di impegno.
Le modalità con cui il web-doc si è diffuso come prodotto di comunicazione sono state diverse per ogni paese. Riportiamo di seguito il caso della Francia, dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, tra i paesi in cui il genere web-doc è più diffuso, per poi passare alla situazione italiana.

 

Francia
In Francia la nascita del web-doc come genere è stata sancita da tutta l’industria culturale – tv, editoria, produzione indipendente e istituzioni – e il termine web-doc è diventato familiare al largo pubblico. Diverse televisioni, come la franco-tedesca Arte tv, hanno cominciato a produrre documentari interattivi on line, e sembra si sia consolidata la prassi di co-produrre web-doc con produttori indipendenti, per poi trasporre in documentario lineare i contenuti di maggior successo (come accaduto anche per Prison Valley di Arte tv). Le Monde ha iniziato a co-produrre web-doc accessibili a tutti a scopo promozionale, aumentando così il numero di abbonati web (le impressioni su web-doc registrate sul sito di questa testata si contano a milioni). È frequente la triangolazione tv/produttore indipendente/testata giornalistica (oltre a Le Monde, Libération e Rue89) e sono nati siti dediti alla recensione di web-doc, come webdocu.fr, che assume il punto di vista del produttore indipendente. Il formato web-doc narrativo (con inizio e “fine”) sembra prevalere su quello “a cassetti”, e sempre più spesso viene stimolata la partecipazione on line degli utenti, sia attraverso discussioni su social network che con lo user generated content (è il caso di Maria, Génération 700 di Arte). Il web-doc si è anche guadagnato uno spazio nella comunicazione istituzionale per trattare temi come lavoro, sanità, educazione, difesa, e nelle strategie di comunicazione delle ONG. È proprio in Francia che la Honkytonk, una delle società leader fra i produttori indipendenti di web-doc, ha sviluppato Klynt, un programma di montaggio interattivo per creare web-doc di facile utilizzo, che non necessita il ricorso a linguaggi informatici.

 

Regno Unito
Nel Regno Unito la produzione di web-doc si è concentrata soprattutto su temi sociali come i minori a rischio, l’ambiente, la sanità, e il genere web-doc viene usato anche a scopo educativo nella comunicazione pubblica. Un dato caratterizzante della visione britannica è la fiducia nel futuro delle app per smartphone come possibile veicolo dei web-doc, tanto che sono apparse le prime app di realtà aumentata che, azionate quando ci si trova fisicamente nel territorio oggetto del documentario, aiutano a scorgere aspetti nascosti della realtà fisica. La scuola CrossoverLab, in collaborazione con lo Sheffield International Documentary Festival, ha anche lanciato workshop multidisciplinari per connettere produttori e autori con agenzie web. Diverse sperimentazioni sono state portate avanti anche nella redazione web del Guardian (tra le più recenti, un web-doc sulla Prima Guerra Mondiale, di cui si può anche scaricare l’audio, e Martin Luther King: the speech, del 2013, sul leader della lotta per i diritti civili degli afro-americani).

 

Stati Uniti
Negli Stati Uniti uno dei siti che ospita molti contenuti multimediali sperimentali (anche se non vengono chiamati “web-doc”) è quello della National Aeronautics and Space Administration (NASA). Dal 2009 il New York Times, seguito dal Washington Post, ha introdotto forme di reportage multimediali (per esempio, il reportage di un anno dall’Afghanistan A Year at war, girato da una troupe della testata in un distaccamento militare). Un’altra realtà interessante è News21.com, che riunisce diverse scuole di giornalismo e ha realizzato diversi web-doc. Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama, inoltre, ha commissionato un web-doc sulla fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon di BP nel Golfo del Messico per riportare i risultati della commissione nazionale d’inchiesta.

 

La situazione italiana
In Italia il web-doc è arrivato tardi – i primi esempi sono comparsi nel 2010 – e non si è ancora diffuso. Alcune testate giornalistiche come La Stampa, La Repubblica (soprattutto a cura del giornalista Riccardo Staglianò), Wired, Nòva del Sole 24 Ore hanno cominciato a ospitarne sui propri siti, ma sono per lo più prodotti a basso costo. Anche il sito del Corriere sta portando avanti delle sperimentazioni multimediali, ma si tratta, più che di web-doc, di “articoli aumentati”, dove comunque il testo scritto prevale rispetto ai contributi multimediali (l’esempio più alto di questo genere, finora, rimane di certo Snowfall del New York Times). È nato anche un sito italiano di recensione di web-doc (www.trancemedia.eu), che assume il punto di vista del produttore indipendente.

Uno degli esempi più recenti degni di nota, che riguarda la comunicazione della scienza, è il web-documentary Seedversity della giornalista Elisabetta Tola, pubblicato sul sito di Wired a ottobre 2014 e realizzato grazie a “The innovation in Development Reporting Grant Programme” dello European Journalism Center (EJC), col supporto della Bill e Melinda Gates Foundation. Questo web-doc, che unisce argomenti scientifici e impegno civile – nella migliore “tradizione” dei web-doc di successo – fa parte di un progetto sull’agrobiodiversità crossmediale più ampio, che si è declinato in diverse forme multimediali: oltre al web-doc, è nato un blog in cui veniva raccontata la sua realizzazione, corredato di foto e video, attraverso un viaggio in diverse parti del mondo, e sono stati realizzati diversi audio-reportage per la trasmissione radiofonica Radio3 Scienza. È un caso interessante anche per questo, perché è un esempio di progetto multi-piattaforma, in cui, diversificando il prodotto, si riesce a pubblicare molto più materiale raccolto rispetto a quello che confluisce nel documentario vero e proprio.

Ci sono tutti i presupposti perché il web-doc si diffonda presto anche nel mercato italiano come genere a sé, con modalità ancora da definire. La tecnologia, in questo senso, è matura: la disponibilità di un programma di produzione come Klynt, adeguato anche per chi non ha grandi capacità tecnico-informatiche, rende la produzione di un web-doc relativamente semplice, per quanto siano richieste competenze multidisciplinari.
Allo stesso tempo, dal punto di vista della fruizione, la diffusione crescente di dispositivi come smartphone e tablet è una realtà, e la presenza nelle scuole della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM) potrebbe favorire la produzione di progetti educational. In prospettiva, anche la tv connessa a internet, sebbene ancora poco diffusa, potrebbe diventare un supporto ideale per fruire di un prodotto come il web-doc.
Dal punto di vista della produzione è più difficile fare previsioni: poiché si tratta di un genere nuovo, trovare finanziamenti potrebbe rivelarsi non facile e probabilmente converrebbe proporre progetti a basso budget. In questo senso si potrebbe ricorrere anche a campagne di crowdfunding e puntare su una promozione virale via internet, in particolare attraverso i social network.

 

Il web-doc e la comunicazione della scienza
Nell’ambito della comunicazione della scienza sembra che il web-doc non si sia ancora diffuso, tanto che non è stato semplice individuare i due casi di studio considerati in questa ricerca, Becoming Human e Profiles from the Arctic. A parte questi, alcuni web-doc degni di nota in questo ambito sono, per esempio, Sound Ecology, sull’inquinamento acustico, realizzato nel 2013 dall’Office National de Film in collaborazione con Arte, e Waterlife, del National Film Board of Canada, un lavoro ricco e sfaccettato sui Grandi Laghi dell’America settentrionale, con musiche di Philip Glass.
Tuttavia potrebbe essere un’opportunità da non farsi sfuggire, perché il genere si presta particolarmente a questo settore della comunicazione per diverse ragioni – in particolare l’elemento dell’apertura ai contributi degli utenti e quello del gioco – e sotto diversi punti di vista. Di seguito proponiamo alcuni spunti di riflessione, che poi verranno in parte approfonditi nel seguito della monografia.

Un primo spunto di riflessione riguarda la possibile apertura del genere web-doc ai contributi degli utenti. Oggi che il cosiddetto modello di comunicazione della scienza “top-down” (o deficit model) è stato superato a favore di un modello in cui la produzione di sapere scientifico può avvenire anche da parte dei “non esperti”, il web-doc offre l’opportunità di favorire concretamente questa visione, accogliendo opinioni e contributi degli utenti, sotto forma di dati, fotografie, racconti di realtà, filmati. Un prodotto come il web-doc potrebbe promuovere progetti scientifici collettivi di citizen science, che prevedano l’apporto del cosiddetto user generated content, anche grazie all’uso di smartphone e tablet. Di progetti di questo tipo ne esistono già diversi: il primo in assoluto, Galaxy Zoo, lanciato nel 2007, mirava a classificare più di un milione di galassie grazie agli occhi di migliaia di cittadini; tra i progetti italiani più recenti, invece, possiamo citare SeismoCloud, nato da una collaborazione tra Sapienza e Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e lanciato alla scorsa Maker Faire di Roma, che prevede un “monitoraggio diffuso” dei terremoti grazie a una app e – per i più volenterosi – un sismografo realizzato con la scheda open source Arduino.

Forse più complicato, ma possibile, potrebbe essere usare un web-doc come spazio di negoziazione su temi scientifici controversi o “sensibili”, come gli OGM, l’omeopatia, l’uso di cellule staminali embrionali, la sperimentazione animale, ma anche l’ambiente. Trasparenza, correttezza scientifica e un lavoro di moderazione da parte di un autore autorevole potrebbe contribuire ad allentare le tensioni ed evitare che i toni si esasperino, favorendo l’empowerment – ovvero un processo di crescita, di presa di coscienza, che porti alla responsabilizzazione e all’autodeterminazione – dei cittadini. Per un web-doc con questo scopo si potrebbero tenere presenti le indicazioni di Bill Nichols a proposito della struttura ideale di un documentario tradizionale, che “prevede l’individuazione di un tema o un problema e la presentazione del suo background, seguita da un esame della sua attuale estensione o complessità, includendo diversi punti di vista o prospettive. Fino a una sezione conclusiva in cui viene introdotta una soluzione o un possibile percorso verso una soluzione”. Sembrerebbe stia parlando di un saggio argomentativo, ma nel caso del web-doc non sarebbe necessario leggerlo in modo consequenziale e la soluzione si potrebbe cercare attraverso l’apertura al dialogo con gli utenti.

Una sfida ulteriore su cui si potrebbe testare il genere web-doc è la comunicazione della scienza da parte dei ricercatori stessi, che oggi sarebbe opportuno dedicassero una piccola parte del loro tempo anche a diffondere i risultati delle loro ricerche. Il web-doc potrebbe essere uno strumento per favorire la comunicazione tra ricercatori di discipline diverse; tra ricercatori e imprenditori, per favorire il trasferimento tecnologico; o tra ricercatori e cittadini, per incrementare il livello di cittadinanza scientifica e rendere loro conto della ricerca finanziata coi soldi pubblici. Se i ricercatori si prestassero a raccontare le proprie ricerche in modo personale attraverso un web-doc –  con il racconto della loro vita di laboratorio, ma anche di qualche curiosità sulla loro vita al di fuori, e degli aspetti della ricerca che li appassionano – e a rispondere a eventuali domande da parte dei cittadini, si riuscirebbe a dare anche un volto umano a temi che talvolta rischiano di lasciare il cittadino indifferente.

La natura “aggiornabile” del web-doc si potrebbe prestare a seguire ricerche scientifiche anche nel corso del loro svolgersi (in particolare per quelle materie accademiche in cui l’open access – cioè la pubblicazione dei risultati su riviste gratuite – sta prendendo piede). Diversi gruppi di ricerca che collaborano potrebbero realizzarne uno condiviso e usarlo come luogo virtuale per fissare alcune tappe intermedie dei loro studi – raccogliendo dati, grafici, video (dello svolgimento di esperimenti, di conferenze, o da siti di centri di ricerca), foto, audio (telefonate registrate o conferenze), presentazioni power point e così via – e spiegare i concetti non comuni alle diverse discipline, per poi fissare i risultati più “definitivi” sul formato più tradizionale dell’articolo su una rivista peer reviewed. In questo modo si potrebbero anche rendere espliciti gli errori e i fallimenti del lavoro di ricerca (per esempio, ipotesi sbagliate), che difficilmente confluiscono in una pubblicazione. Diverse riviste accademiche hanno cominciato a rendersi conto che anche per la comunicazione tra ricercatori non ci si può più limitare al vecchio formato del paper scientifico, che risale a un tempo in cui la carta era l’unico supporto di pubblicazione, e hanno introdotto, per esempio, la possibilità di inserire accanto all’articolo tradizionale anche delle audioslide. La comunicazione accademica della scienza, inoltre, sta diventando sempre più “social”: alcune riviste usano Twitter e Facebook, e sono nati social network ad hoc per ricercatori, come Research Gate.

Certo sarebbe una sfida, e perché diventi possibile che i ricercatori realizzino web-doc, sarebbe importante che a livello tecnologico diventasse sempre più semplice realizzarli. Ma questa è di certo la direzione verso la quale si sta andando.
Anche riviste on line che trattano temi scientifici potrebbero ricorrere al genere web-doc per raccontare l’attualità della ricerca, trovando un proprio formato standard di web-doc con una struttura definita, e magari scovando storie sul territorio. Oggi assistiamo a una tendenza all’omologazione dell’informazione – anche scientifica – sulle riviste generaliste, dovuta all’uso delle stesse fonti – le agenzie di stampa internazionali – da parte dei giornalisti; in questo modo molte realtà scientifiche vengono lasciate fuori dal circuito dell’informazione. Se gli scienziati e le università o i centri di ricerca stessi realizzassero web-doc sul loro lavoro, favorirebbero la diffusione dei risultati delle loro ricerche anche su questo tipo di riviste.

Un altro ambito della comunicazione della scienza a cui il genere web-doc si presta particolarmente è quello della didattica, come complemento ai libri di testo cartacei. In Italia il Decreto Ministeriale 27 settembre 2013 n.781 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca stabilisce che dall’anno scolastico 2014/2015 i libri scolastici debbano o essere interamente digitali o almeno contenere anche parti in formato digitale. E l’elemento del gioco e del divertimento che può offrire un web-doc, con la possibilità di interagire con i contenuti e di seguire percorsi dettati dai propri interessi, è adatto a favorire l’apprendimento informale (che è una modalità di apprendimento prevista dalle linee guida europee, anche per gli adulti). Le lavagne interattive multimediali, inoltre, potrebbero essere un supporto adatto per fruire un web-doc anche all’interno di un’aula scolastica.

Nell’ambito educational è importante non farsi sfuggire che c’è un bacino di spunti e di idee da cui attingere nei musei scientifici di tutto il mondo: i contenuti multimediali degli exhibit interattivi che si trovano nei science centres (per esempio, il Science Museum di Londra, o l’Exploratorium di San Francisco). La differenza con il vero e proprio web-doc è che si tratta di prodotti chiusi, vincolati a un hardware specifico situato nel museo, che consentono quindi sì l’interattività, ma solo per i visitatori. Il valore aggiunto del web-doc sta soprattutto nella sua apertura, resa possibile dalla rete.