In the Flesh: appunti critici sul neuroessenzialismo

Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten.
J.W. Goethe, 1773

 

Dal marzo 2013 al giugno dell’anno successivo, l’emittente inglese BBC Three ha trasmesso, sull’onda lunga della “zombie-mania” che caratterizza da almeno dieci anni le scelte dell’entertainment globale, una curiosa serie televisiva dal titolo In the Flesh, per inciso vincitrice, nel 2014, del prestigioso riconoscimento della British Academy of Film and Television Arts come migliore opera della sua categoria. La fiction, incentrata sulle vicende di Kieren Walker, un ragazzo trasformato in morto vivente e successivamente tornato alla normalità, si distingue tuttavia dalle innumerevoli produzioni di questo genere per una peculiare e significativa differenza. Lasciando fuori ogni possibile spiegazione sovrannaturale della zombie apocalypse, infatti, l’intera storia ruota intorno a un disturbo neurologico – etichettato in nosografia come Partially Decessed Syndrome (PDS), cioè sindrome da decesso parziale – che il Servizio sanitario nazionale britannico riesce a trattare efficacemente grazie ai recenti progressi della Neurofarmacologia. È certamente interessante notare come l’industria dell’intrattenimento stia incamerando nelle sue produzioni – in un contesto culturale pienamente consapevole di trovarsi nell’“Era delle Neuroscienze” – le speranze relative e gli elementi più stimolanti delle ricerche in questo ambito, come la cura per le malattie neurologiche e psichiatriche. Tuttavia c’è un altro punto, presente nel sottotesto narrativo di In the Flesh, a sollevare importanti interrogativi per l’indagine epistemologica relativa alla storia contemporanea delle scienze del cervello/mente.

La comunità medica che si relaziona al protagonista della serie, infatti, davanti alle continue crisi di coscienza di Kieren per gli atti commessi durante la “fase acuta” della sua “malattia”, gli ripete in continuazione: “Tu sei malato. Non eri tu, quando hai fatto quelle cose. Il tuo cervello aveva un altro equilibrio chimico e non sei colpevole di quello che è successo”. Questo motivo di fondo della narrazione mostra che ciò che viene incorporato dalla serie non è soltanto quell’orizzonte di promesse che le più significative ricerche neuroscientifiche portano con sé, ma è anche – e soprattutto, visto che all’atto di scremare il dato fantastico da quello reale, è proprio questo che resta – una parte degli assunti epistemologici su cui esse si basano. Nello specifico, la storia raccontata dagli autori di In the Flesh è leggibile anche attraverso una chiave di lettura scientifico-ideologica ben precisa nella Filosofia delle Neuroscienze, quella che sostiene l’identità netta tra basi neurobiologiche (il sistema nervoso centrale) e il comportamento di un individuo (con tutto il suo bagaglio di credenze e azioni, in breve la sua individualità). Questa posizione è nota con il nome di neuroessenzialismo, che oltre a essere caratteristica del modo in cui la scienza vede il cervello e la mente ai giorni nostri, sembra anche essere foriera di numerose problematiche.

Nessuno, anche solo minimamente informato sugli sviluppi delle scienze degli ultimi cinquant’anni, può negare che l’attività cerebrale è alla base di tutte le funzioni, i comportamenti e le cognizioni dei viventi dotati di un sistema nervoso centrale. È il cervello che permette l’esistenza di tutti i fenomeni e le esperienze psicofisiologiche, dai semplici riflessi alla coscienza, passando per la memoria, il linguaggio, le emozioni e l’intersoggettività. Le Neuroscienze contemporanee hanno raggiunto negli ultimi decenni, soprattutto grazie all’avvento di nuove tecnologie di imaging in vivo (tra tutte la risonanza magnetica funzionale), livelli di avanguardia nelle possibilità di comprensione e spiegazione del funzionamento del cervello e della cognizione umana e, man mano che queste conoscenze si ampliavano, il contesto sociale ne ha preso più o meno consapevolmente atto, incamerando e metabolizzando le conseguenze per la vita di tutti i giorni. Prendendo come punto di avvio l’inizio della “Decade of the Brain” (1990-2000), patrocinata negli USA dall’amministrazione di George W. Bush, e come meta (solo parziale) l’apertura nel 2013 dei due grandi progetti di Big Science neuroscientifica – la statunitense BRAIN Initiative e l’europeo Human Brain Project – la nostra società si muove in una dimensione culturale che non soltanto non può prescindere dai progressi in questo ambito, ma che si rivolge attivamente alle Neuroscienze.

Le diverse componenti del tessuto sociale chiedono alla scienza nell’era del cervello, se non proprio il disvelamento dei misteri dell’Io, almeno delle risposte concrete su problemi medici estremamente attuali (in primis quello annoso delle demenze e dei disturbi neurologici e psichiatrici). È proprio in questo contesto che il neuroessenzialismo si è imposto fino a divenire la lente mainstream attraverso cui guardare “scientificamente” all’essere umano in termini psicologici.
Non si tratta di un fatto risibile. L’adozione di una visione neuroessenzialista, che pone il soggetto e le sue azioni in un rapporto di diretta e subordinata dipendenza dal suo cervello (cioè dalla struttura e dal funzionamento elettro-chimico di questo organo), ha delle ricadute profonde sul piano filosofico, certo, ma anche sul livello sociale, politico ed economico. Ciò nonostante, all’interno del più ampio dibattito sui rapporti tra scienza e società, la discussione in merito a questo tema non gode – soprattutto in Italia – di un’attenzione e una partecipazione tanto ampia e trasversale quanto meriterebbe. O meglio: si parla molto poco di neuroessenzialismo, anche se si parla molto in un linguaggio neuroessenzialista.

Supportato da una continua affermazione da parte dei mass media e dell’editoria (ma anche, come abbiamo visto, della cultura d’intrattenimento e da una parte dell’establishment economico e politico), questo approccio, che rappresentava una posizione epistemologica più o meno diffusa nella comunità scientifica, ha successivamente conquistato l’immagine che la società occidentale ha del sistema cervello/mente: una conquista avvenuta a colpi di articoli, libri e documentari dal titolo “This is your brain on…” e variazioni sul tema.
Diventa allora importante partire dalla definizione corrente di questo concetto, per poterne ricostruire gli sviluppi e comprendere le ragioni del suo successo. Da un punto di vista storico, l’apparizione e la diffusione del termine “neuroessenzialismo” nel suo significato attuale sono databili al primo decennio del XXI secolo, più specificatamente con l’articolo fMRI in the public eye di Eric Racine, pubblicato nel 2005:

Il concetto di “neuroessenzialismo” riflette su come la ricerca condotta attraverso risonanza magnetica funzionale (fMRI) può essere descritta identificando la soggettività e l’identità personale con il cervello. In questo senso, il cervello è utilizzato implicitamente come scorciatoia per concetti più globali come la persona, l’individuo, il Sé. È questo il caso di molte espressioni in cui il cervello è usato come soggetto grammaticale. Titoli che esemplificano questo fenomeno sono: “Il cervello può bandire i ricordi indesiderati”, “Come il cervello immagazzina il linguaggio” e “Il cervello organizza le percezioni in piccoli chunk dotati di significato”. (…) Sebbene gli studi sulla mente e sul cervello siano una pietra angolare delle neuroscienze cognitive, il neuroessenzialismo rappresenta una frettolosa riduzione dell’identità al cervello [1].

L’articolo di Racine e colleghi, pur partendo da un’indagine sulle chiavi interpretative che l’opinione pubblica utilizzava per parlare della ricerca neuroscientifica, propone una definizione che coglie anche gli aspetti del neuroessenzialismo interno alla comunità scientifica. Non a caso, uno dei primissimi a riprendere il concetto sviluppato da Racine e a porlo come problematica trasversale delle Neuroscienze è stato il neurobiologo Steven Rose, denunciando, sempre nel 2005, come “al determinismo genetico si è recentemente aggiunto un determinismo neuronale – quello che Racine chiama neuroessenzialismo e io ho chiamato determinismo neurogenetico” [2]. Inoltre, proprio questo approccio al cervello/mente era già stato descritto alla fine degli anni Novanta del Novecento con il termine “neurocentrismo” [3], e proprio “neuroessenzialismo” era stata la parola chiave introdotta pochi anni prima da Adina Roskies nel dibattito etico sulle Neuroscienze:

Molti di noi credono più o meno palesemente in una sorta di “neuroessenzialismo”, cioè credono che i nostri cervelli definiscano chi siamo, anche più di quanto non facciano i geni. Dunque, investigando il cervello, investighiamo il Sé. Qual è la rappresentazione neurale da cui dipende il “Sé”? L’identità personale è un concetto basato sul cervello? Che conseguenze avranno per la nostra idea di identità eventuali alterazioni delle parti che ci definiscono? (…) I progressi in aree importanti della ricerca neuroscientifica possono cambiare il tessuto stesso del nostro modo filosofico di vedere la vita. Sebbene le neuroscienze non potranno probabilmente rispondere a domande metafisiche sul determinismo, esse possono certamente alterare la nostra percezione di esse [4].
Come neuroessenzialismo, dunque, si definisce nei primissimi anni del terzo millennio il complesso di opinioni, credenze e valori che, nella sua versione “forte”, rappresenta un comodo modello euristico per indagare il cervello/mente (eliminando di fatto qualsiasi fattore esterno alla Neurobiologia per spiegare il comportamento) ma al tempo stesso una forte virata scientifica, ideologica e sociale verso il riduzionismo determinista (contenuta nell’implicita asserzione secondo cui è il cervello, e solo quello, a definire l’individuo) [5].

Vista la situazione dalla prospettiva dell’analisi storico-epistemologica delle discipline coinvolte, non si tratta della prima volta che un approccio simile tenta di emergere come modello generale della cognizione: si pensi alla riflessologia russa di inizio Novecento o, guardando al passato più recente, ad alcune forme di ipotesi modularista in Neuropsicologia e all’avvento del modello biomedico per il trattamento dei disturbi psichiatrici e delle ricerche sulla cognizione attraverso la simulazione in silico). Tuttavia, nel caso del neuroessenzialismo parliamo di un orizzonte teorico (che abbraccia molteplici campi della ricerca, tra cui le Neuroscienze, la Psichiatria, le Scienze cognitive e quelle del comportamento) che interagisce in forme inedite con una società che ha con la scienza un rapporto diverso dal passato. Il “sistema scienza” – nonostante le difficoltà di comunicazione e alcune pretese retrograde di una parte della comunità scientifica che si vorrebbe ancora isolata nella torre d’avorio – è coinvolto oggi in una fitta e necessaria dialettica con le istituzioni politiche, gli interessi economici, i bisogni della società e l’informazione catalizzata dai nuovi media. In questo gioco continuo di azioni e retroazioni, un modello del cervello e della mente come quello neuroessenzialista può far emergere questioni complesse e delicate, con conseguenze importanti per la società e per la ricerca.

Molti di noi hanno conosciuto o conoscono, per via diretta o indiretta, qualcuno con una storia di dipendenza (da sostanze stupefacenti, alcol, gioco d’azzardo, cibo, sesso o magari semplicemente dal tabacco). La vita quotidiana ci offre la visione di una vasta gamma di dipendenze, tutte accomunate dalla ricerca compulsiva di sostanze o comportamenti che danno piacere al soggetto, a discapito delle condizioni ambientali e delle conseguenze (anche gravi, anche note) delle proprie azioni. È questo tratto a unire il videogamer patologico chiuso nella sua camera, l’alcolista piegato sul bancone del bar, l’attore che non riesce a smettere di fumare. L’unica differenza tra questi tre individui è relativa alla diversa accettazione della loro dipendenza da parte dal contesto sociale (da cui dipendono gli interventi eventualmente messi in atto per contrastarla): in media, per il primo una sprezzante compassione e il consiglio di visitare uno specialista del comportamento, per il secondo un trattamento sanitario con ricovero e terapia farmacologica, per il terzo un’ammirazione quasi complice e uno stigma sociale pressoché inesistente.

Eppure i recenti progressi delle Neuroscienze in questo ambito hanno mostrato che esiste un altro comune denominatore nei soggetti dipendenti, un comune denominatore biologico: la presenza di specifici pattern di attivazione di alcune aree cerebrali (più precisamente quelle legate alla ricompensa e al controllo volontario), accompagnati dalle modificazioni morfologiche e funzionali delle strutture coinvolte.
A partire da questo e inquadrando i dati in una visione neuroessenzialista è allora possibile pensare alla dipendenza come uno specifico disturbo neurologico, dove è il cervello a determinare l’emissione del comportamento problematico. Ma se la dipendenza è una malattia come le altre – se non siamo noi, ma è il nostro cervello a farci essere dipendenti – quali sono le conseguenze?

All’interno della comunità scientifica, non vi è accordo sulle conseguenze di un simile approccio a questi disturbi. Nel caso specifico delle dipendenze (ma questo vale, più in generale, per tutti i fenomeni attualmente collocati sotto il termine ombrello di “disagio mentale”), alcuni autori hanno sostenuto che una comprensione approfondita delle basi e dei meccanismi neurali di questi fenomeni, accompagnati da una “naturalizzazione” delle dipendenze, potrebbe ridurre lo stigma sociale oggi attribuito agli individui che esprimono comportamenti riconducibili a un quadro di addiction o di disturbo mentale [6]. La riduzione di questi comportamenti a un’alterazione del normale funzionamento elettro-chimico del sistema nervoso centrale, se da un lato può “somatizzare” tali comportamenti ascrivendoli alla classe delle “malattie” fisiologiche (con il possibile effetto di alleggerire il giudizio sociale inflitto ai soggetti portatori), può però dall’altro condurre a conseguenze molto rilevanti e problematiche. Alcuni hanno, infatti, argomentato che un simile atteggiamento potrebbe portare a un ulteriore stadio di discriminazione dei soggetti con comportamenti di dipendenza, “biologizzando” lo stigma sociale sulla base di una “oggettività scientifica”, e creare così un nuovo e pericoloso “indicatore di alterità” fondato sul dato neuroscientifico ma espresso nel sistema dei rapporti socio-culturali in cui i soggetti dipendenti agiscono (sotto forma di medicalizzazione dell’individuo, e delle discriminazioni derivanti da essa) [7]. Inoltre, uno scenario simile presenta delle conseguenze significative anche per i servizi sanitari nazionali che decidessero di incamerare il nuovo modello nelle proprie linee guida: se le dipendenze sono riconducibili a un preciso disturbo neurologico, quale futuro aspetta i servizi sociali, quelli di consulenza psicologica e di prevenzione distribuiti sui territori?

Se è possibile trattare queste “malattie” con un “magic bullet” farmacologico, qual è il destino delle strutture socio-sanitarie deputate ad affrontare i differenti aspetti dei fenomeni di dipendenza?
Le dipendenze sono fenomeni complessi e multifattoriali, che sfidano il neuroessenzialismo “forte” mostrando l’articolata sovrapposizione dei differenti livelli – biologico, individuale, sociale – che sono coinvolti nella sua definizione. Una corretta informazione (e una più ampia discussione pubblica) sull’approccio neuroessenzialista ai disturbi da addiction può certamente evitare – se effettuata in tempo – gli eventuali danni derivati da una caduta ideologica verso il riduzionismo determinista nelle scienze della vita. Tuttavia, vi è un altro punto da tenere in considerazione parlando delle problematiche del neuroessenzialismo, un punto che ben evidenzia la stretta connessione e la reciproca interdipendenza tra scienza e società e che riguarda direttamente la ricerca scientifica.

L’inedito rapporto tra comunità scientifica, poteri economico-politici, mezzi di comunicazione e società civile, infatti, subordina pesantemente l’autonomia dei ricercatori alla possibilità che i loro studi vengano adeguatamente finanziati. In una società intrisa di neuroessenzialismo a ogni livello, le istituzioni preposte al sovvenzionamento della ricerca potrebbero orientare i progetti di ricerca sulle dipendenze verso obiettivi congrui esclusivamente con questo panorama culturale, tagliando i fondi di ricerca di coloro che adottano altri approcci per lo studio di questi fenomeni. Uno scenario, questo, che ha poco a che vedere con la fantascienza e molto con la realtà: senza considerare il caso della lettera neurofuture.eu, l’ampia critica alla miopia metodologica e politica dello Human Brain Project, il panorama degli studi sulle dipendenza presenta negli Stati Uniti d’America già un simile stato di cose.

Uno scienziato ha espresso frustrazione per come il governo finanzia la ricerca privilegiando quella applicata rispetto a quella di base: “C’è una crescente tendenza a occuparsi di progettazione razionale di farmaci per trattare questi disturbi, ma la maggior parte delle cose che conosciamo riguardo a essi sono ancora relativamente frutto della serendipità”. Questo ricercatore ha menzionato come la modalità di finanziamento rappresenti la limitazione più grande: egli è convinto che gli studi che non riescono a “tradursi” in trattamenti medici vengono soppressi. Un altro scienziato ha affermato, in maniera simile, “[il governo] ti dà soldi se competi per [progetti di ricerca biomedica]. Se [i ricercatori] dicono [che vogliono studiare il] ‘contesto’, non riceveranno alcun fondo dal Congresso” [8].
Questo è forse il più grande rischio – e il più impellente argomento di discussione – riguardo all’adozione del neuroessenzialismo come unica chiave di lettura dei progressi neuroscientifici: la creazione di un loophole in cui interessi economici, politici e ideologici restringano sempre più le possibilità di azione di approcci trasversali, capaci di superare la rigidità dei modelli riduzionisti, attraversando i confini disciplinari e tenendo conto della complessità dei fenomeni studiati. Si tratta di essere in grado, come comunità scientifica e società civile congiunte, di valutare pienamente le scelte effettuate in un settore della conoscenza che ha sempre più influenza nella vita di tutti i giorni. Per certi versi, significa rifiutare proprio il tenet principale del neuroessenzialismo e assumere una prospettiva critica e responsabile nei confronti di scelte scientifiche così delicate. Perché siamo noi – e non i nostri cervelli – a poter determinare il futuro della scienza, della società e delle loro interazioni.

 

Bibliografia

[1] Racine E., Bar-Ilan O., Illes J., “fMRI in the public eye”, Nature Review Neuroscience, 2005, 6(2), pp. 159-164.
[2] Rose S., “Human Agency in the Neurocentric Age”, EMBO Reports, 2005, 6(11), pp. 1001-1005.
[3] Cfr. Nuñez R., Freeman W. (eds.), Reclaiming Cognition. The Primacy of Action, Intention and Emotion, numero speciale del Journal of Consciousness Studies, 1999, 6.
[4] Roskies A., “Neuroethics for the new millennium”, Neuron, 2002, 35, pp. 21-23.
[5] Reiner P., “The rise of neuroessentialism”, in: Illes J., Sahakian B. (eds.), The Oxford Handbook of Neuroethics, Oxford University Press, New York, 2011.
[6] Volkow N.D., Li T., “Drug addiction: the neurobiology of behavior gone awry”, Nature Reviews Neuroscience, 2004, 5, pp. 963-970. Rüsch N., Angermeyer M.C., Corrigan P.W., “Mental illness stigma: concepts, consequences, and initiatives to reduce stigma”, European Psychiatry, 2005, 20(8), pp. 529-39.
[7] Buchman D., Reiner P., “Stigma and Addiction: Being and Becoming”, American Journal of Bioethics, 2009, 9(9), pp. 18-19.
[8] Hammer R. et al., “Addiction: Current Criticism of the Brain Disease Paradigm”, AJOB Neuroscience, 2013, 4:3, pp. 27-32.

 

*Tratto dalla rivista Scienza & Società n.21/22 – “Mentecorpo. Il cervello non è una macchina