Giordano Bruno e la Luna

La Terra è della stessa specie della Luna

«La Terra è della stessa specie della Luna». Tutta la cosmologia di Giordano Bruno, può essere racchiusa in questa frase scritta e pubblicata dal filosofo nolano nel 1591, nove anni prima di morire sul rogo in Campo de’ Fiori a Roma per disposizione del Tribunale della Santa Inquisizione.
Ascolta la Luna e lei ti dirà com’è fatta la Terra e come son fatti gli infiniti mondi che popolano l’universo infinito.

Siamo alla fine del XVI secolo. È passato quasi mezzo secolo da quando il polacco Mikolaj Kopernik, più noto in Italia come Niccolò Copernico, ha scritto il suo De revolutionibus orbium caelestium, pubblicato per la prima volta a Norimberga nel 1543. L’astronomo di Toruń ha proposto un modello astronomico in cui è la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa. Facendo questo non ha solo sfidato la cosmologia dominante, fondata sul paradigma di Aristotele e Tolomeo, con la Terra immobile al centro dell’universo. Ha sfidato anche la teologia dominante in Europa, che sulla  centralità cosmica del pianeta che lo ospita fonda la specificità dell’uomo. Si tratta di due sfide pericolose. Come ben sa Andrea Osiander, sacerdote e matematico. Che, nel tentativo di scongiurare uno scontro in punta di teologia in un’epoca segnata dal conflitto religioso, di sua iniziativa e in maniera anonima scrive una prefazione al  De revolutionibus in cui sostiene che il modello eliocentrico di Copernico non deve essere considerato una descrizione dell’universo così com’è effettivamente, ma un mero strumento matematico utile a spiegare i fenomeni osservati.

Io non dubito affatto che alcuni uomini eruditi, essendosi ormai diffusa la notizia della novità delle ipotesi di quest’opera che rende la Terra mobile e pone immobile il Sole al centro dell’Universo, siano fortemente indignati e pensino che non si debbano turbare le discipline liberali, ben fondate ormai da lungo tempo. Se tuttavia essi volessero esaminare in modo accurato la cosa, essi troverebbero che l’autore di quest’opera non ha fatto niente che meriti biasimo. È compito dell’astronomo infatti comporre, mediante un’osservazione diligente ed abile, la storia dei movimenti celesti e quindi di cercarne le cause ovvero, poiché in nessun modo è possibile cogliere quelle vere, di immaginare ed inventare delle ipotesi qualsiasi sulla cui base questi movimenti, sia riguardo al futuro sia al passato, possano essere calcolati con esattezza conformemente ai princípi della geometria. E questi due compiti l’autore di quest’opera li ha assolti egregiamente. Poiché infatti non è necessario che queste ipotesi siano vere e neppure verosimili, ma basta questo soltanto: che esse offrano dei calcoli conformi all’osservazione.

Il tentativo di Osiander non sortisce l’effetto desiderato. Il libro che Copernico sfoglia fresco di stampa sul letto di morte scatena le rabies theologorum. Ma, a dispetto delle collere dei teologici e dei risentimenti degli aristotelici che dominano le università europee, il seme gettato dal canonico di Toruń inizia a germogliare. Tanto che intorno agli anni ’80 del XVI secolo è in atto in tutta Europa un importante processo che Miguel A Granada definisce di distruzione e dissoluzione del cosmo ereditato dalla tradizione cosmologica e astronomica di Platone, Aristotele e Tolomeo. E uno dei principali protagonisti di questo processo, Giordano Bruno, chiama la Luna – l’astro narrante – a raccontare il cambio di paradigma.

Bruno, in realtà, non si limita ad aderire alla nuova visione copernicana del mondo, ma va, per via furiosamente speculativa, ben oltre Copernico. Il nolano parla (e scrive) di un universo infinito. Di infiniti mondi.
Addirittura di infiniti mondi abitati.
E chiede proprio alla Luna – a chi altri se no? – di riflettere questa nuova e rivoluzionaria visione della realtà cosmica.
Per dimostrare la centralità della narrazione selenica nella radicale proposta del filosofo nolano – la Terra è come la Luna e la Luna è come la Terra – potremmo semplicemente far parlare i testi. E citare altri passi dei suoi scritti. Come questo tratto dal De infinito, universo e mondi scritto a Londra nel 1584:

Ecco, dunque, quali son gli mondi, e quale è il cielo. Il cielo è quale lo veggiamo circa questo globo, il quale non meno che gli altri è astro luminoso ed eccellente. Gli mondi son quali con lucida e risplendente faccia ne si mostrano distinti, ed a certi intervalli seposti gli uni da gli altri; dove in nessuna parte l’uno è più vicino a l’altro che esser possa la luna a questa terra, queste terre a questo sole: a fin che l’un contrario non destrugga ma alimente l’altro, ed un simile non impedisca ma doni spacio a l’altro. Cossì, a raggione a raggione, a misura a misura, a tempi a tempi, questo freddissimo globo, or da questo or da quel verso, ora con questa ora con quella faccia si scalda al sole; e con certa vicissitudine or cede, or si fa cedere alla vicina terra, che chiamiamo Luna, facendosi or l’una or l’altra o più lontana dal sole, o più vicina a quello: per il che antictona terra è chiamata dal Timeo ed altri pitagorici. Or questi sono gli mondi abitati e colti tutti da gli animali suoi, oltre che essi son gli principalissimi e più divini animali dell’universo; e ciascun d’essi non è meno composto di quattro elementi che questo in cui ne ritroviamo; benché in altri predomine una qualità attiva, in altri altra; onde altri son sensibili per l’acqui, altri son sensibili per il foco.

O come quest’altro, tratto dal verbale dell’interrogatorio svoltosi a Venezia il 2 giugno 1592 a opera dell’Inquisitore:

Ed in questi libri particolarmente si può veder l’intenzion mia e quel che ho tenuto; la qual insomma è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potentia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia, che possendo produr, oltra questo mondo un’altro et altri infiniti, producesse un mondo finito. Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a questo della terra ; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile alla quale è la Luna, altri pianeti et altre stelle, le qual sono infinite ; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali constituiscono poi la università infinita in uno spatio infinito ; et questo se chiama universo infinito, nel quale sono mondi innumerabili.

Conviene, tuttavia, ricordare brevemente chi è Giordano Bruno. E quale ruolo hanno la sua filosofia naturale e la sua filosofia tout court nella letteratura e nella scienza italiana.

 

  1. Giordano Bruno

Nel mese di gennaio o forse di febbraio dell’anno 1548 il soldato Giovanni Bruno e donna Fraulissa Savolino portano a battesimo a Nola, a dodici miglia da Napoli, un bambino appena nato cui danno nome Filippo. Il pargolo vive in una casa modesta nella contrada di San Giovanni del Cesco, ai piedi dell’«amenissimo monte Cicala» in prossimità di un castello in rovina da cui può ammirare il Vesuvio.  Crescendo, Filippo impara a leggere e a scrivere, grazie agli insegnamenti di un prete, Giandomenico de Iannello, mentre studia la grammatica alla scuola di Bartolo di Aloia. È portato per gli studi. E così a 14 anni si trasferisce a Napoli, presso l’università allora ospitata nel cortile del convento di San Domenico. Nel 1565 diventa frate domenicano, nel medesimo convento di san Domenico Maggiore, assumendo il nome di Giordano. Diventa sacerdote nel 1573 e si laurea in teologia due anni dopo.

In tutto questo periodo napoletano non si occupa in maniera specifica di filosofia naturale. Studia tuttavia non solo le materie del trivio (grammatica, retorica e dialettica), ma anche quelle del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica). I suoi insegnanti più influenti sono un averroista sarnese, Gian Vincenzo Colle, e, per quanto riguarda la logica, il neoplatonico Teofilo da Vairano. Una lettura di un testo di Pietro Ravennate lo stimola, inoltre, a frequentare la mnemotecnica: l’arte di imparare a memoria.

Filippo, ora divenuto Giordano, è spirito irrequieto. Studia la filosofia. Si specializza nella tecnica della memorizzazione. Legge libri proibiti. Ostenta disprezzo per la vita – non sempre esemplare e non sempre nutrita di cultura – dei suoi confratelli. Elabora un pensiero teologico, per esempio sulla natura della Trinità, che è in aperto contrasto con l’ortodossia. E ne discute apertamente. In breve, nel febbraio 1576 è costretto a lasciare Napoli e a fuggire via, tacciato d’eresia.

Inizia così, a 28 anni, la sua «peregrinazione europea». Intanto ha fatto in tempo e rimuginare la filosofia naturale non solo di Aristotele e Tommaso, ma anche a frequentare il pensiero critico di due animatori degli ambienti culturali napoletani, Bernardino Telesio e Giambattista Della Porta, che esprimono entrambi, sia pure in modo diverso, il nuovo spirito dei tempi e una forte attenzione all’esperienza sensibile.

Non possiamo seguirla troppo da vicino. Ma la vicenda di Bruno è davvero di grande intensità. In diciassette anni – quelli che intervengono tra la fuga da Napoli (febbraio 1576) e il ritorno a Roma, prigioniero del Tribunale del Sant’Uffizio (febbraio 1593) – l’«omiciattolo italiano da nome certamente più lungo del suo corpo», come lo descrive uno dei suoi più acerrimi nemici, George Abbot, e certamente «omo piccolo, scarmo, con un pocco di barba nera», come lo descrive Giovan Battista Ciotti, perennemente insoddisfatto, spesso frustrato e rancoroso, caratteriale, ma amante delle donne e dei piaceri  della vita, si reca in successione a Roma, Genova, Noli, Savona, Torino, Venezia, Padova, Brescia, Bergamo, Chambéry (nella Savoia), Ginevra, Lione, Tolosa, Parigi, Londra, Oxford, Magonza, Würzburg, Marburgo, Wittenberg, Praga, Tubinga, Helmstedt, Magdeburgo, Francoforte, Zurigo, ancora Francoforte, Venezia e Padova, dove accetta l’infausta ospitalità dell’aristocratico Giovanni Mocenigo. In questi diciassette anni Giordano Bruno si trasforma da irrequieto frate napoletano in filosofo naturale europeo. Assumendo uno dei caratteri – quello di intellettuale transnazionale – che sarà ritenuto fondativo della rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Già questa affermazione ci consente di assumere posizione intorno a uno dei nodi più controversi dell’interpretazione del pensiero del nolano: è Bruno uomo dell’era prescientifica o appartiene a pieno titolo all’era nuova della scienza?
La Luna ci aiuterà a sciogliere anche questo nodo. Intanto diciamo che è all’estero che Giordano Bruno rende pubblica la sua filosofia naturale – che è parte certo non irrilevante della sua filosofia tout court – utilizzando, in aggiunta, tutti i mezzi che gli mette a disposizione la sua indubbia capacità letteraria. Perché in Bruno, ancora una volta, letteratura, filosofia e scienza si incontrano. Ed è un incontro felice.
Inizia a pubblicare in Francia, tra il 1581 e il 1583, sia in latino che in volgare, sia saggi come il De umbris idearum o l’Ars memoriae, sia opere letterarie, come il Candelaio, una commedia davvero sferzante, a tratti blasfema.

In Inghilterra in soli due anni, tra il 1583 e il 1585, manda alle stampe alcune tra le sue opere maggiori. In particolare i suoi sei Dialoghi italiani, sia i tre “dialoghi morali” – Spaccio de la bestia trionfante; Cabala del cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico; Eroici furori – sia i tre dialoghi che più ci interessano in questa sede, quelli “cosmologici”: La cena de le ceneri; De la causa, principio et uno; De infinito, universo e mondi. Cui vanno aggiunti l’Ars reminiscendi, l’Explicatio triginta silligorum, il Sigillus sigillorum. Basta scorrere questo elenco e questi titoli per intendere, come rileva Michele Ciliberto, quanto il periodo inglese sia con ogni probabilità «il più intensamente creativo di tutta la vita di Bruno». Tanta produttività deriva anche dall’umanissima ambizione di ottenere una cattedra.  E infatti i dialoghi londinesi sono delle vere e proprie «lezioni», con un confronto serrato tra il maestro e un discepolo. Ma le motivazioni poco importano. Il dato è che a Londra in meno di due anni Giordano Bruno scrive i capolavori di una «nova filosofia». È in questo periodo di lucido ed eroico furore che la «musa nolana» inizia a evocare la Luna perché racconti la sua cosmologia. È in questo periodo che il filosofo chiede all’«astro narrante» (la Luna) di farsi testimone dell’infinito, universo e mondi, che lui va proponendo, suscitando gravissimi scandali.

Se c’è una contraddizione, in Bruno, è questo bisogno di raccontare. Questa voglia incontenibile di narrare tutto a tutti mediante ogni strumento letterario. Lui, che si dice portatore di un sapere segreto e iniziatico, inaccessibile ai più. Lui che distingue nettamente il campo della legge dal campo della verità:  il primo riguarda la religione storica e i molti che non si sanno governare; mentre la verità riguarda solo i filosofi. Lui che è ammiratore di Ermete Trismegisto ed è convinto che «la verità è conosciuta da pochi, et le cose pregiate son possedute da pochissimi». Proprio lui, che annovera se stesso tra i pochissimi che possono conoscere le cose pregiate, fa di tutto per comunicare a tutti la sua nuova visione del mondo.

Negli anni a venire continuerà a pubblicare con inusitata frequenza e verve. Ma è solo in Germania, a Francoforte, che tra il giugno 1590 e il febbraio 1591, toccherà di nuovo le vette londinesi e darà alle stampe i tre capolavori della sua produzione filosofica, i Poemi francofortesi: il De minimo, il De monade e il De innumerabilibus, immenso et infigurabili.
Il pensiero che Giordano Bruno divulga con questi scritti e che, poi, ripropone ai giudici dell’Inquisizione tra il 23 maggio 1592 e il 17 febbraio 1600 è piuttosto complesso. Ma vale la pena ripercorrerlo, sia pure brevemente e per grandi temi, perché la sua cosmologia ne è parte organica. Cosicché la sua filosofia naturale sarebbe difficile da comprendere fuori dalla sua filosofia generale. E viceversa.

Tutto, in Bruno, nasce da una percezione – da un’analisi – di decadenza universale. Come sostiene Michele Miele, il nolano, fuggito in fretta e furia da Napoli e ormai girovago in un continente dilaniato dai grandi conflitti religiosi e dai nuovi appetiti nazionali, è convinto che l’umanità, nei decenni finali del XVI secolo – il «secolo infelice» – si trovi in un periodo inusitato di tenebre. Nella coda di un lungo ciclo che partito altissimo ai tempi di Aristotele sta ora toccando il fondo, con una crisi di civiltà che coinvolge non solo il potere temporale ma anche i valori religiosi. Una decadenza, appunto, che attanaglia la «misera e infelice Europa […] peggio che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno». Un’era buia che, però, prelude a una renovatio universale perché «questo mondo non [può] durar così, perché non v’[è] se non l’ignoranza, e niuna religione che [sia] buona».

Il frate domenicano è convinto che in questa crisi che avvolge il continente la religione cristiana non sia la soluzione, ma costituisca il problema. La decadenza è, in primo luogo, la decadenza del ciclo ebraico-cristiano. Ed è anche convinto che tocca a pochi intellettuali iniziati – che in particolare tocchi a lui, Mercurio inviato dagli idei – dipanare le tenebre e indicare la via della salvezza. Una nuova religione, nuovi valori che siano in realtà portatori di antiche verità e di antica sapienza. Da (ri)affermare per via razionale, attraverso il dubbio e la tolleranza. Attraverso la filosofia. E attraverso la scienza.

Per questo vuole insegnare. O, almeno, è per questo che inserisce la sua umana ambizione di assurgere in cattedra in un quadro più generale, vagamente messianico. «Sapeva e sentiva che aveva delle cose da dire, da comunicare e che, soprattutto, era un suo compito comunicarle», scrive Ciliberto.
Bruno si sente come un «angelo della luce» che per dipanare le tenebre e avviare la renovatio deve muoversi, con coerenza, lungo due direttrici: restituire all’universo il suo vero volto  (il che implica l’elaborazione di una solida filosofia naturale) e indicare all’uomo il cammino verso la luce (il che implica l’elaborazione di una conseguente filosofia morale, di una rinnovata ricerca teologica e anche di un progetto politico).

È per restituire all’universo il suo vero volto che, a Londra, scrive i suoi “dialoghi cosmologici” e, poi, per assolvere al secondo compito, indicare all’uomo il cammino verso la luce, che in quel medesimo grumo di mesi trascorsi nella capitale inglese scrive i “dialoghi morali”.

 

  1. Piccolo glossario della cosmologia di Giordano Bruno

Non è nel nostro intento – non è nelle nostre capacità – addentrarci nel pensiero organico e complesso del nolano. Ci limiteremo a tratteggiare la sua cosmologia. Per brevi voci, come in un glossario. Ben sapendo, lo ripetiamo, che essa, la cosmologia, è parte integrante della filosofia e della teologia di Bruno. Non per questa intima connessione interdisciplinare il nolano va considerato uno degli ultimi epigoni della stagione prescientifica: tutti i grandi pionieri della nuova scienza – a iniziare da Galileo – avranno una profonda visione filosofica e teologica.
Giordano Bruno non è uno scienziato. È un filosofo. Ma è l’unico filosofo copernicano realista del secolo XVI. Tutti gli altri copernicani realisti di quel secolo – Rheticus, Digges, Maestlin, Rothmann, Keplero e il giovane Galileo – sono matematici e astronomi.
E sebbene la struttura dell’universo che propone vada ben oltre quella di Copernico e dei suoi calcoli, la filosofia cosmologica del nolano non manca affatto di solide fondamenta scientifiche. Vedremo, al contrario, che Giordano Bruno utilizza – spesso al meglio – il sapere fisico, astronomico e matematico del suo tempo.

L’universo. È in sé una realtà inaccessibile all’uomo, perché creata da Dio e posta fuori dal tempo. L’universo è il tutto, infinito e omogeneo. Vivo. Come Dio. Ma non è Dio. L’universo è prodotto da Dio. E c’è una differenza tra il creatore e il suo prodotto.
Dio infatti è atto e potenza insieme: è tutto ciò che è e tutto ciò che può essere,  sostiene nel De la causa, principio et uno, uno dei “dialoghi italiani” pubblicato a Londra nel 1584. L’universo è l’effetto infinito di quella causa infinita, scrive nella Cena delle Ceneri pubblicata sempre a Londra e sempre nel 1584. L’universo è tutto ciò che è, ma non è tutto ciò che può essere. Atto e potenza, nell’universo, non sono «assolutamente la medesima cosa». Perché a differenza di Dio, nell’universo «nessuna parte sua è tutto quello che può essere». L’universo, pertanto, non è Dio. L’universo è un’ombra di  Dio. Ma è un’ombra viva e vitale. In cui tutto cambia, ma dove nulla si corrompe.
Si avverte in questa visione cosmica l’influenza del pensiero platonico e, in particolare, delle frequentazioni con gli scritti di Nicola da Cusa. Ma non soffermiamoci più di tanto sugli ispiratori di Bruno. Continuiamo il discorso.
Dio è presente nell’universo, sia direttamente – ma in maniera inesplicabile – sia in maniera indiretta, tramite la sua ombra: l’universo infinito. Dio non è conoscibile dall’uomo: si può solo credere in Dio, con un atto di fede. L’universo, invece, può essere conosciuto mediante la ragione. La natura cosmica infatti è una e omogenea. E questi caratteri consentono di conoscerla, ripensarla e influenzarla nel suo insieme. In questo senso hanno un grande ruolo sia la filosofia naturale, sia la mnemotecnica, sia la magia.

L’anima mundi. Componenti sostanziali dell’universo infinito prodotto da Dio sono da un lato l’anima mundi, la cui facoltà principale è l’intelletto universale, e dall’altro lato la materia prima (costituita da atomi), che è sia il substrato dell’anima del mondo sia la componente di tutte le forme accidentali della natura.
L’anima mundi è il principio unificante dell’intero universo. Il collante che tiene connesse tutte le parti del cosmo e le rende un unico organismo vivente. Un organismo evolutivo. Che si modifica continuamente nel tempo. Mai uguale a se stesso.

La Vita-materia. L’anima mundi anima, per l’appunto, il suo substrato: la materia, che ha a sua volta una natura divina. La Vita-materia è il principio generativo della «nova filosofia». Perché tutto nell’universo viene dalla materia ed evolve per la materia. E poiché la materia «esplica lo che tiene implicato, deve essere chiamata cosa divina e ottima parente, genetrice e madre di cose naturali, anzi la natura tutta in sustanza». La materia è costituita da atomi, la minima entità finita dell’universo infinito.
L’ipotesi atomica della materia non è affatto in opposizione a quella di infinità dell’universo universo, spiega nel De minimo, in polemica il geometra salernitano Fabrizio Mordente, definito idiota triumphans perché incapace, a detta di Bruno, di comprendere la non divisibilità dell’infinito.
In ogni caso la materia è principio infinito di vita infinita. L’universo è, infatti, una realtà viva in ogni sua parte – «la vita penetra tutto» – ed è evolutiva. L’universo è Vita-materia infinita. Perché, sostiene Bruno, la materia contiene «nel proprio seno l’avvio di tutte le forme, sicché da esso tutte le produce e le emette; […] fuori dal grembo della materia, invero, non esiste alcuna forma, e tutte si celano in esso e da esso a suo tempo tutte rampollano». Mediante la ridistribuzione incessante degli atomi, tutto nell’universo cambia continuamente secondo un ritmo binario e in maniera irreversibile, perché nulla torna a essere ciò che era in precedenza.

Bruno è convinto che tanto la visione aristotelica del mondo quanto quella giudaico-cristiana siano incapaci di cogliere la verità: il divino che è nella natura. Una verità colta, invece, dagli antichi Egizi, dall’ermetismo e dalla cabala ebraica, malgrado la loro visione magica del mondo.

L’uomo. L’uomo non ha alcuna specificità. È parte come la altre della Vita-materia cosmica. L’uomo è costituito degli stessi atomi materiali di cui è costituito il resto del mondo. L’uomo non è neppure il solo a possedere un’anima. Anche la mosca, come tutti gli altri esseri dell’universo, ne ha una. E l’anima umana è del tutto analoga a quella della mosca e a quella di tutti gli altri esseri che popolano il cosmo. L’uomo non è il solo neppure a possedere un intelletto, anche gli animali lo hanno. Nell’ottica di Bruno l’uomo è, per dirla con Michele Ciliberto, accidente finito tra infiniti accidenti finiti che si producono nella Vita-materia infinita. Se c’è una peculiarità umana, questa va cercata nella sua mano. Grazie alla mano l’uomo ha acquisito una notevole capacità di intervenire sulla natura. Ma questo non modifica in nulla la realtà, che vuole l’uomo parte integrante e niente affatto speciale della Vita-materia. L’immortalità dell’anima umana non ha senso. Né ha senso una giustizia che si realizza nell’aldilà.
L’uomo è sì un accidente, ma unico e irripetibile. Come ogni altro essere nell’universo.

Copernicano e oltre. Con questa visione d’insieme, Bruno può essere definito a giusto titolo un ultracopernicano. Perché non si limita a spostare la residenza umana dal centro del cosmo. Rimuove l’uomo stesso dal centro dell’universo e da ogni progetto cosmico. L’uomo è un granello – uno degli infiniti granelli – di un universo infinito. Se Copernico ha rimosso l’uomo dal centro fisico dell’universo, Bruno lo rimuove dal centro di ogni progetto cosmico. Così, per via puramente filosofica, Bruno anticipa di un paio di secoli la visione del posto dell’uomo nella natura proposta da Charles Darwin con la teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale del più adatto.

L’infinito, universo … L’infinito è dunque il cuore del pensiero cosmologico (e quindi morale e quindi teologico e quindi politico) di Bruno. Lui è un filosofo naturale anche perché è convinto che all’infinito si arriva attraverso la ragione, non attraverso i sensi. Nessuno in quel momento può dimostrare con esperienze sensibili che l’universo è infinito. Lo può solo immaginare, col massimo rigore logico possibile: «Se il mondo è finito e fuori dal mondo non c’è nulla, vi domando: dov’è il mondo, dov’è l’universo?». Così come oggi nessuno può dimostrare che la realtà ultima della materia è una stringa. Lo si può solo immaginare, col massimo rigore matematico possibile.

… e mondi. L’universo è infinito. E quindi popolato da infiniti mondi. Come ribadisce il 2 giugno 1592 nel terzo costituto, ovvero nel terzo interrogatorio che subisce a Venezia da parte dell’Inquisitore:
Sì che io ho dechiarato infiniti mondi particulari simili a questo della terra; la quale con Pittagora intendo uno astro, simile alla quale è la luna, altri pianeti et altre stelle, le qual sono infinite; et che tutti questi corpi sono mondi et senza numero, li quali constituiscono poi la università infinita in uno spatio infinito; et questo se chiama universo infinito, nel quale sono mondi innumerabili.

Questa idea di un’infinità di mondi popolati è tra quelle che entrano in conflitto immediato e aperto con la dottrina della Chiesa cattolica e anche delle Chiese protestanti, non solo perché nega l’Incarnazione (o, almeno, l’unicità dell’Incarnazione). Ma anche perché nega il concetto di persona, restituendo l’uomo a un processo di continua trasformazione che prevede la metempsicosi e la trasmigrazione delle anime.

Mago o scienziato? Nell’interpretare il pensiero di Bruno nella sua interezza e complessità alcuni, come Frances Yates, sono giunti alla conclusione che il filosofo nolano è un “mago ermetico”. In realtà l’ermetismo e il neoplatonismo spiegano  molto del pensiero bruniano. Ma Bruno non è un mero “mago ermetico”. È un filosofo, che attraverso il ragionamento filosofico, scopre la magia come utile strumento di indagine che gli consente di esplicare meglio il concetto di Vita-materia infinita.
Ma Bruno è anche scienziato. Anche se non è un mero “scienziato”. Bruno è (anche) scienziato non perché nell’indagare l’universo o l’uomo mette insieme, come proporrà Galileo, certe dimostrazioni e sensate esperienze, ma perché, sempre per via logica e filosofica, scopre la cosmologia – con l’universo immenso, la pluralità dei mondi – e cerca di fondarla ontologicamente. Come fanno i filosofi naturali. Consideriamo, a mo’ di esempio, proprio la tesi dell’universo infinito. È, senza dubbio, una tesi metafisica. Ma, sostiene Bruno, in un universo infinito il centro è ovunque: e questa è una deduzione fisica e matematica.

Il fatto è che nel Cinquecento e, ancora, nel Seicento non è poi così netta la differenza tra filosofi naturali, matematici e scienziati. Vale la pena ricordare che in questi secoli non esiste la professione di scienziato. Non esiste neppure la parola scienziato. E che tutti gli uomini protagonisti della rivoluzione scientifica – perché una rivoluzione scientifica c’è  – sono chi più chi meno filosofi naturali, matematici, scienziati (nel significato odierno della parola), astrologi e maghi allo stesso tempo.
Niccolò Copernico si definisce filosofo nel suo De Revolutionibus. Francis Bacon sarà un filosofo araldo della rivoluzione scientifica senza essere scienziato. Galileo stesso chiede di essere ammesso alla corte dei Medici a Firenze come filosofo prima ancora che come matematico. Keplero è astrologo, oltre che astronomo di corte a Praga. E Newton spenderà più tempo a occuparsi di alchimia che di fisica.

Cosicché possiamo affermare che Bruno non è un “residuo” premoderno,  estraneo alle correnti fondamentali della modernità che appartengono, invece, ai “veri” scienziati o ai portatori di un “vero pensiero scientifico”, come Copernico, Keplero, Galileo, Bacone e Newton. Bruno partecipa come molti altri, con le sue contraddizioni e i suoi limiti, alla affermazione complessa e tortuosa della modernità, come portatore di “nova filosofia”, non meno di Copernico, Keplero, Galileo, Bacone o Newton. E in questo senso è “anche” se non protagonista, certo precursore della rivoluzione scientifica. In questo senso è anche scienziato.
E la Luna ne è testimone.

 

  1. In una cena a Londra il giorno delle Ceneri, la Luna racconta de l’infinito, universo e mondi

Torniamo, dunque, a Oxford, nell’estate 1583 quando Giordano Bruno, nel tentativo di acquisire una cattedra, svolge una serie di seminari in cui spiega e senza infingimenti sostiene la teoria copernicana: la Terra si muove e gira intorno al Sole. Sebbene il nolano abbia già suscitato scandali numerosi e gravissimi, è la prima volta che in maniera esplicita manifesta in pubblico la sua adesione al copernicanesimo. È il primo filosofo in tutta Europa a farlo. Ed è un’imprudenza.  Non sappiamo quanto calcolata.
Copernico, come abbiamo detto, ha già suscitato collere e rabbie tra aristotelici e teologi. E né gli uni né gli altri mancano a Oxford. In breve, la pubblica difesa della teoria copernicana procura a Bruno clamorose inimicizie anche nella cittadina inglese. Prima fra tutte quelle acidissime del giovane George Abbot, futuro arcivescovo di Canterbury: «Quando quell’omiciattolo italiano […] con un nome certamente più lungo del suo corpo […] visitò nel 1583 la nostra Università […] intraprese il tentativo, fra moltissime altre cose, di far stare in piedi l’opinione di Copernico, per cui la Terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre, in verità, era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo».

Con queste reazioni, è facile immaginare come ogni velleità di salire in cattedra in una delle due università inglesi sfumi rapidamente, per quel minuscolo napoletano giunto in Inghilterra dalla Francia da qualche mese appena . «Respinto da Oxford, Bruno rientra a Londra – scrive Giovanni Aquilecchia – seguendo si direbbe la traccia già segnata dalla corrente scientifica inglese, la quale, con l’affermarsi di un indirizzo aristotelico-umanistico nelle due università [Oxford e Cambridge, nda] aveva trovato nella capitale l’ambiente più adatto al proprio sviluppo, grazie al patronato esercitato dall’aristocrazia cortigiana».
Dunque Giordano Bruno segue la sorte che tocca a molti filosofi naturali: si imbatte nelle reazioni alla «filosofia nova» da parte degli aristotelici che dominano le università, in Inghilterra come nella gran parte d’Europa. E Bruno, come molti membri delle correnti scientifiche del tempo, deve trovare fuori dalle università lo spazio di espressione e di ricerca che non trova negli atenei. A Londra, proprio come a Parigi o a Madrid, alcuni di questi spazi si trovano presso gli aristocratici di corte.

Tra i nobili che, nella capitale inglese, frequentano la corte di Elisabetta si avverte, già prima che arrivi Bruno, una certa attenzione per Copernico. In realtà la filosofia naturale, a Londra come in molte altre città d’Europa, è in fermento. Si stanno sviluppando nuove ricerche sulla natura. Si stanno creando le prime comunità di filosofi della natura attenti alle esperienze sensibili. E alla comunicazione.
Il gruppo di scienziati londinesi che gode del favore della regina Elisabetta non si limita ad approfondire lo studio delle scienze naturali, ma si impegna nella comunicazione del sapere a vantaggio delle nuove classi borghesi che forniscono i tecnici su cui poggia il crescente espansionismo economico e politico inglese. La comunicazione al grande pubblico è resa possibile dal progressivo abbandono del latino (la lingua usata dagli aristotelici nelle università) e dal crescente uso del volgare (inglese) sia nelle opere scritte che nell’insegnamento.

Dunque, nell’autunno 1583 il filosofo nolano ritorna a Londra, accolto nei circoli aristocratici e scientifici attenti alla «filosofia nova» e impegnati a comunicarla, attraverso opere in volgare.
È in questo contesto che Giordano Bruno decide di scrivere un libro – in volgare – per difendere ancora una volta pubblicamente quel copernicanesimo così vituperato a Oxford.

Nasce in questo modo La cena delle ceneri, la prima opera dialogica in volgare (italiano) a noi giunta. Figlia, dunque, di un progetto culturale e ideologico che Bruno condivide con gli ambienti scientifici londinesi e che comprende sia il ripudio del latino a favore della lingua volgare sia la ricerca di nuovi canoni stilistici.
La cena delle ceneri, il primo dei tre “dialoghi cosmologici” che Bruno pubblica in pochi mesi a Londra, è dedicata al suo protettore, l’ambasciatore di Francia nella capitale inglese, ed è, per l’appunto, un dialogo brillante. Anzi, come anticipa Bruno non senza ironia, è «descritta in cinque dialoghi, per quattro interlocutori, con tre considerazioni, circa doi suggetti» e dedicata «all’unico refugio de le Muse», Michel di Castelnuovo (il nome italianizzato dell’ambasciatore, Michel de Castelnau).

I quattro interlocutori sono Teofilo filosofo (Bruno stesso), Smitho, Prudenzio pedante (aristotelico e appunto pedante) e Frulla, uomo arguto ma non troppo colto. La figura centrale dei dialoghi che si svolgono a tavola in periodo di quaresima è, senza dubbio, Niccolò Copernico. Cui Bruno riserva lodi sperticate, difendendolo dagli attacchi di tutti i denigratori o anche, più semplicemente, di tutti i conservatori.
Copernico, spiega Bruno, è uomo di immenso ingegno. Non inferiore ad alcuno dei grandi astronomi che lo hanno preceduto. Anzi: è «uomo che quanto al giudizio naturale è stato molto superiore a Tolomeo, Ipparco, Eudoxo, e tutti gli altri ch’han caminato appo i vestigi di questi» perché si è «liberato da alcuni presupposti falsi de la comone e volgar filosofia, non voglio dir cecità».

La presa di posizione di Bruno non poteva essere più netta. Copernico è l’uomo della svolta. Ha compiuto una rivoluzione che costituisce un passo decisivo verso la descrizione della realtà cosmica, liberandola da presupposti così falsi da poter essere definiti vera e propria cecità.
E sbaglia non solo chi lo attacca direttamente, riproponendo i falsi presupposti – la cecità – del sistema aristotelico-tolemaico. Ma anche chi – come quell’«asino ignorante e presuntuoso» (Andrea Osiander) che ha scritto la premessa al De revolutionibus – vorrebbe farci intendere che il moto della terra è stato proposto da Copernico «per la comodità de le supposizioni», ovvero come mera ipotesi matematica. Non è così. «L’astronomo polacco non solo fa ufficio di matematico che suppone, ma anche de fisico che dimostra il moto de la terra». Quella di Copernico non è una mera ipotesi matematica. È la descrizione, per via matematica, della effettiva realtà fisica. La Terra gira davvero intorno al Sole, non viceversa.

Tutto ciò, sostiene Bruno, non è affatto in contrasto con la Bibbia, come teme quell’«asino ignorante e presuntuoso» di Osiander: perché nelle Sacre Scritture non va cercata la verità scientifica intorno al mondo, ma la verità morale e di fede.
Dice Teofilo, la voce di Bruno:
Nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azzioni morali.  Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti agli occhii, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità per la quale non profitterebbero i volgari per ritrarse dal male et appigliarse al bene: ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi; e parla al volgo di maniera che secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch’è principale

Questo argomento – sia detto per inciso – sarà ripreso dal cardinale napoletano Cesare Baronio e poi da Galileo Galilei, che di lì a trent’anni, nella famosa Lettera a Cristina di Lorena, spiegherà che intento dello Spirito Santo nell’ispirare la Bibbia è «d’insegnarci come si vadia in cielo e non come vadia il cielo».

In ogni caso, specifica Bruno, la fisica non si basa «sull’autoritate»,  neppure «sull’autoritate» delle Scritture, ma «su altri proprii e più saldi principii».
In Gran Bretagna già molti astronomi e matematici si sono espressi a favore di Copernico. Nessuno lo ha fatto con la veemenza che il filosofo Giordano Bruno mostra nella Cena delle ceneri.
Tuttavia la lode per Copernico per quanto forte, aperta e chiara, non è acritica. Bruno plaude a Copernico per andare oltre Copernico. Il polacco, sostiene, si è allontanato sì dalla «comone e volgar filosofia […] Ma però non se n’è molto allontanato», perché «più studioso de la matematica che de la natura». Copernico con i suoi giusti conti, col suo «più matematico che natural discorso» ha rappresentato sì la realtà del sistema solare. Ha dimostrato che la Terra è mobile, che il nostro pianeta è un globo che effettua due diversi movimenti, uno intorno al proprio asse e l’altro introno al Sole. Ma non ha saputo alzare lo sguardo e:

non ha possuto profondar e penetrar sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici da inconvenienti e vani principii onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficultà, e venesse a liberar e sé et altri da tante vane inquisizioni, e fermar la contemplazione ne le cose costante e certe
Copernico non ha saputo andare oltre la Terra, la Luna, il Sole e l’angusto spazio delle stelle fisse.
E qui conviene proporre subito due considerazioni. Una epistemologica e una cosmologica. Fin dalle prime battute intrecciate a cena dai quattro interlocutori nei cinque dialoghi, Giordano Bruno mostra di aver chiaro che una cosa sono le dimostrazioni matematiche, un’altra la fisica e la filosofia naturale. La matematica è uno strumento potente per conoscere la natura e Copernico l’ha bene usata. Ma la matematica da sola non è sufficiente per cogliere la verità intorno alla natura. La fisica non si dimostra sulla carta, neppure con le esatte dimostrazioni dei numeri.

 

Altro è giocare con la geometria, altro è verificare con la natura.

Non è solo un’affermazione di principio. La verità è che nel proporre la sua cosmologia Giordano Bruno applica spesso un metodo che o sa di sperimentale o ne riconosce il valore, proponendo almeno in un paio di occasioni – il principio di inerzia e il principio di relatività del moto – l’uso di esperimenti da tutti facilmente ripetibili. D’altra parte proprio nella Cena delle ceneri affida al filosofo della natura il compito di «cercare» e di «osservare».
La seconda considerazione è cosmologica. Bruno, sviluppando il pensiero di Nicola da Cusa, va oltre l’universo finito di Copernico e indica una realtà fisica ben più ampia del sistema solare, costituita com’è da un universo infinito e da infiniti mondi. È qui che Bruno cessa di tessere le lodi dell’astronomo polacco e rivendica a se stesso il ruolo di leader della rivoluzione, di sole che appare nel cielo dopo l’«aurora copernicana» e dipana definitivamente le tenebre che avvolgono la verità fisica. Il polacco va lodato per «quel tanto che ha fatto con esser ordinato de gli dèi come un’aurora, che dovea precedere l’uscita di questo sole de l’antiqua vera filosofia». Ma Niccolò Copernico da Toruń è, appunto, solo l’aurora. Il sole pieno e splendente della verità è lui, Giordano Bruno da Nola.

Non si tratta di un’inelegante concessione al proprio narcisismo (che pure esiste e non è piccola cosa). È che Bruno, giustamente dal suo punto di vista, considera l’idea di un universo infinito la vera e rivoluzionaria novità della moderna cosmologia. E quell’idea è sua. In effetti la novità, anche rispetto al canonico di Toruń, è tale che molti parlano di una nuova fisica proposta dal nolano. La fisica di Giordano Bruno.
Il primo assunto di questa fisica è, come abbiamo detto, il concetto di infinito. L’universo sostiene Bruno non ha limiti. È appunto infinito, nello spazio e nel tempo.

È infinito nello spazio e quindi popolato da un’infinità di stelle e di pianeti. E quindi policentrico: non uno, ma mille e mille e infiniti soli, ciascuno con un suo sistema planetario che risponde al modello di Copernico.
È infinito nel tempo. L’universo è eterno. Non è mai stato creato, nel tempo, e non avrà mai fine, nel tempo. L’universo semplicemente è. Ma non è eternamente uguale a se stesso. È, nel suo continuo mutare. È, nel continuo cambiamento delle disposizioni dei suoi infiniti atomi.

Il secondo assunto della fisica di Bruno è la mediocrità: una sorta di principio copernicano perfetto che rende ogni e qualsiasi punto e oggetto cosmico del tutto analogo a ogni altro punto e oggetto.
L’universo è infatti omogeneo nella sua composizione materiale – è sostanzialmente uguale in ogni sua  direzione – e simmetrico nella sua determinazione legale: risponde ovunque alle medesime leggi. L’omogeneità cosmica, come sostiene Hilary Gatti, è davvero uno dei concetti fondamentali del pensiero di Bruno. Quello che più lo distingue dagli ermetici. L’universo di Bruno è omogeneo ma niente affatto piatto: anzi, è persino caotico nella sua incessante evoluzione. Tutto cambia e non c’è ritorno. Neppure nell’infinità del tempo. Neppure nell’eternità. Ovviamente qui, nel cortile di casa, vanno spazzate  via tutte le vecchie proposizioni dell’universo aristotelico-tolemaico. Non  esistono stelle fisse. Non ci sono orbite perfettamente circolari. Non c’è rotazione delle sfere cristalline.

La poesia che introduce i dialoghi recita:
Quali ali sicure a l’aria porgo, né temo intoppo di cristallo o vetro; ma fendo i cieli e all’infinito m’ergo.

Tutti i corpi celesti procedono per inerzia e il moto è relativo l’uno all’altro. Non c’è immutabilità: le comete vengono dall’esterno del sistema solare e lo attraversano per intero, non sono un fenomeno sublunare.
Già, la Luna. È lei – lo ripetiamo – il testimone primo evocato anche nella Cena delle Ceneri per dar conto del principio di mediocrità – del principio copernicano perfetto che vige nell’universo e che fa della Terra un oggetto cosmico come gli altri.

Non perché le sia concesso un ruolo particolare. Ma, al contrario, perché viene evocata, fin dal primo dialogo, come pietra (è il caso di dirlo) di paragone per restituire la Terra alla omogeneità e alla mediocrità cosmica:
Sappiamo che si noi fussimo ne la luna, o in altre stelle: non sarreimo in loco molto dissimile a questo, et forse in peggiore: come possono esser altri corpi cossí buoni, et anco megliori per se stessi, et per la maggior felicità de propri animali.
Atteso, dice subito dopo:
che non più la luna è cielo a noi, che noi a la luna.
Lo stesso concetto che riprenderà sette anni dopo, nel De innumerabilibus, immenso et in figurabili, quando scriverà che: la Terra è della stessa specie della Luna.

Cosa intenda dire è chiaro. L’una e l’altra, la Luna e la Terra, sono due tra gli infiniti mondi che popolano l’universo infinito. Nessuno è al centro dell’universo. Non certo la Terra. Non certo la Luna. E neppure il Sole, intorno a cui la Luna e la Terra e gli altri pianeti conosciuti ruotano, secondo il modello di Copernico.
Naturalmente, nell’universo di Bruno la Luna cessa di essere la più bassa delle sfere concentriche. Semplicemente, non esistono più le sfere dei pianeti, delle stelle fisse, del cristallino. Ed è come un senso di liberazione.

Non è più imprigionata la nostra ragione co i ceppi de fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo che non è ch’un cielo, un’eterea reggione immensa …
Un’«eterea reggione immensa» ove, soprattutto, non c’è differenza fisica tra il mondo sopra la Luna, che Aristotele voleva incorruttibile, e il mondo sotto la Luna, che Aristotele constata corruttibile. L’universo è uno e risponde ovunque alle medesime leggi. L’universo è infinito. E nella sua infinità si perde ogni differenza tra materia terrestre e materia celeste. Non c’è soluzione alcuna di continuità, lì all’altezza della Luna.

E questo è, a ben vedere, il principio di mediocrità di isotropia e di sostanziale omogeneità su cui si regge la moderna cosmologia scientifica e l’intera costruzione della fisica. Così siamo promossi a scoprire l’infinito effetto dell’infinita causa.

 

  1. Luna e Terra, pianeti gemelli

La cena delle ceneri ci offre, dunque, una visione dell’universo e della fisica affatto nuova. Dopo aver letto quei cinque dialoghi è giusto chiedersi, con Wolfgang Wildgen: «Si tratta allora di scienza della natura o piuttosto soltanto di letteratura»?

La domanda ha un grande interessante ancora oggi. Tuttavia con Giordano Bruno diventa prepotente. Anche se, a giudizio di molti, è una domanda che si rivolta contro il nolano. Che proprio con La cena delle ceneri avrebbe dimostrato di saper fare buona letteratura ma modesta filosofia naturale. Perché nei suoi dialoghi avrebbe, per così dire, fatto parlare male la Luna, dimostrando di non aver compreso il modello copernicano.
Ma è così? La Luna dei dialoghi londinesi parla male il linguaggio copernicano? Beh, forse le cose non stanno in questo modo. La Luna di Giordano Bruno parla bene. Forse propone il miglior discorso possibile alla luce delle conoscenze del suo tempo. Incluse le conoscenze matematiche e astronomiche contenute nel modello eliocentrico di Niccolò Copernicano. Vediamo perché (con l’aiuto di Wildgen).

Alcuni rimproverano al nolano di aver fatto parlar male la Luna e, quindi, di dimostrarsi un mediocre filosofo naturale perché, a loro dire, avrebbe compreso male proprio il rapporto che il satellite naturale ha con la Terra. E, soprattutto, perché avrebbe compreso male il rapporto che hanno tra loro gli altri due pianeti inferiori, Venere e Mercurio.
Tutto nasce dal fatto che nel quarto dialogo della cena, Teofilo, il filosofo cui Bruno lascia rappresentare il proprio pensiero, sostiene:

Or se volete veramente sapere dove è la terra secondo il senso del Copernico: leggete le sue paroli. Lessero et ritrovarno che dicea la terra e la luna essere contenute come nel medesimo epiciclo.
Cosa significa? Beh, significa che Giordano Bruno recepisce e fa propria l’idea di Copernico secondo cui la Terra e la Luna ruotano insieme intorno al Sole. È una rivoluzione – una delle principali rivoluzioni – rispetto al modello aristotelico-tolemaico, dove la Luna, con la prima sfera, ha un movimento suo proprio intorno al centro dell’universo, del tutto autonomo rispetto a ogni altro oggetto celeste. Copernico nega, per così dire, l’indipendenza della Luna. E riduce il nostro «astro narrante» da pianeta qual era – anzi, da “prima stella” come direbbe Dante – a satellite naturale della Terra, con cui ruota intorno al Sole.

Se prima con Aristotele e Tolomeo il moto lunare era uno e uno solo – intorno al centro dell’universo – ora, con Copernico, è duplice: intorno alla Terra e, con la Terra, intorno al nuovo centro dell’universo, il Sole.
Bruno, dunque, fa propria questa nuova collocazione della Luna nel cosmo proposta da Copernico. Ma, ancora una volta, va oltre Copernico. Sostiene infatti che non c’è alcuna gerarchia di valore astronomico. La Terra e Luna sono sullo stesso piano e formano un sistema astronomico binario.
La Luna non è ridotta a satellite naturale della Terra. È un pianeta gemello della Terra. Nulla di speciale, sia chiaro. Perché il sistema binario Luna-Terra ha innumerevoli analoghi nell’universo. Per trovarne uno simile non occorre andare molto lontano, assicura Bruno. Basta osservare  quello formato da Mercurio e da Venere.
Bruno si dice, infatti, convinto che i due pianeti ruotino l’uno intorno all’altro e, insieme, intorno al Sole. Proprio come fanno la Luna e la Terra. Una convinzione che riaffermerà qualche anno dopo, quando, nel 1591, tornerà sull’argomento al termine del terzo libro del De immenso. Aggiungendo una novità per certi versi clamorosa. Venere e Mercurio non solo ruotano l’uno intorno all’altro come la Terra e la Luna, ma si trovano sul medesimo deferente, in punti diametralmente opposti, al sistema Luna-Terra. I quattro pianeti sono collegati tra loro e i due sistemi binari formano a loro volta un sistema unico.

Oggi sappiamo che tutto questo non è vero. Che Bruno si sbaglia. Venere e Mercurio ruotano intorno al Sole in maniera sostanzialmente indipendente l’uno dall’altro.  E in maniera indipendente dal sistema Luna-Terra.
Tuttavia quella del Nolano non è una fuga letteraria o una congettura filosofica che nulla ha che vedere con le scienze fisiche. Non è un errore che lo espunge, ipso facto, dal novero dei costruttori dell’astronomia scientifica. Al contrario. È un’ipotesi all’altezza del filosofo naturale, perché interpreta in maniera realistica ed economica tutto quanto si sa, tra il 1584 e il 1591, intorno ai due pianeti. E quello che si sa è che sia Venere sia Mercurio possono essere osservati solo all’alba o al tramonto e vicini al Sole: nessuno dei due risulta visibile tra la Terra e il Sole. Nessuno infatti li ha mai potuti osservare muoversi tra la stella e il nostro pianeta (saranno osservati in questa inequivocabile posizione solo a partire nel 1610). Certo, oggi sappiamo che la mancata osservazione è causata della luce accecante del Sole. Ma nel 1584 e nel 1591 non c’è alcuna evidenza di ciò.

Tenendo conto, inoltre, delle elongazioni appaiate delle loro orbite e della enorme difficoltà per tutti gli astronomi del Cinquecento di calcolare i temi di rivoluzione dei due pianeti, possiamo dunque dar ragione e Wolfgang Wildgen e sostenere che quello di Bruno non è un errore astronomico ma un’interpretazione realistica ed economica dei fatti osservati.
Un’ipotesi scientifica.
Verosimile almeno quanto quella di Copernico. La verità è che alla fine del XVI secolo non ci sono prove inoppugnabili per sostenere che il modello di Copernico è quello reale e il modello di Bruno è da scartare. D’altra parte in quegli anni molti noti astronomi si cimentano nella descrizione delle orbite di Venere e di Mercurio. I modelli in campo sono svariati. Per esempio il tedesco Paul Wittich ne propone uno in cui Venere e Mercurio ruotano sì in maniera indipendente intorno al Sole, ma il Sole ruota intorno al sistema Terra-Luna. E ancora nel 1588 altri famosi astronomi, come Christopher Rothmann e Reymers Baer (detto Ursus, per la ferocia con cui cerca di schiacciare i suoi avversari), ne propongono di simili.

Bruno non fa altro che inserirsi con cognizione di causa in questo dibattito scientifico, rifiutando il pregiudizio geocentrico che ancora permea i vari modelli post-copernicani e restituendo al Sole la centralità nel suo sistema planetario. Il suo modello è altrettanto plausibile e persino più coerente rispetto a quello di Wittich o di Rothmann o di Ursus. Ma per aver commesso l’errore di proporre un plausibile sistema binario Mercurio-Venere (ribadendo la verità del modello eliocentrico), a Bruno, rileva Wolfgang Wildgen, viene tuttora negato il diritto di collocarsi tra i precursori della moderna ricerca scientifica.
Ma questo sì è un errore. Perché Bruno, interpretando in maniera realistica i fatti noti, si dimostra all’altezza della migliore filosofia naturale del tempo.
Qualità che conferma quando chiede alla Luna di falsificare qualche  luogo comune e di raccontare, geometria alla mano, che non è affatto vero che:

la grandezza del sole, de la luna, et d’altre stelle è tanta, quanta a’ nostri sensi appare
E così, con abili dimostrazioni, geometriche per l’appunto, la Luna consente a Teofilo filosofo (Bruno) di sostenere che: non c’è nessuna correlazione tra la grandezza apparente di un oggetto nel cosmo e la sua grandezza reale; non esiste una relazione diretta tra la luminosità di un corpo e la sua distanza da noi; non c’è proporzione lineare tra la luminosità e il calore di un oggetto cosmico.
E, ancora: che noi vediamo parti più scure e parti più luminose della Luna, le terre e le acque, e non sul Sole o sugli altri pianeti perché l’astro narrante è abbastanza vicino alla Terra. Se la Luna fosse più lontana, ci apparirebbe non solo più piccola, ma la definizione di dettaglio sparirebbe e noi la vedremmo come un punto con luminosità omogenea.
Con queste dimostrazioni Giordano Bruno da Nola dimostra, a sua volta, di sapersi muoversi nel “suo” universo infinito con una sensibilità relativistica davvero notevole.

 

  1. Bruno, filosofo-poeta

«Io Zuane Mocenigo dinunzio…». Passano otto anni dopo la pubblicazione della Cena delle ceneri e Giordano Bruno si ritrova in un carcere, a Venezia, a dover rispondere di quanto ha scritto, compreso di quanto ha scritto sull’universo infinito e la pluralità dei mondi. Dall’Inghilterra era tornato in Francia, già nell’ottobre 1985. Si era poi trasferito in Germania. Girovagando e scrivendo. Scrivendo e girovagando. Con invidiabile continuità e qualche punta. La maggiore delle quali appartiene, come abbiamo detto, al periodo francofortese. Siamo nel mese di luglio 1591.

Francoforte è alla fine del Cinquecento proprio come è oggi: una delle grandi città europee del libro. E, alla fine del Cinquecento proprio come succede oggi, si tiene in città la più grande fiera continentale del libro, cui partecipano editori e autori d’ogni parte d’Europa. Nell’anno 1591 giungono a Francoforte due librai – Giacomo Brittano e Giambattista Ciotti – che operano a Venezia, l’altra grande città del libro. I due conoscono Giordano Bruno e lo incontrano. Ciotti gli consegna una lettera di Giovanni Mocenigo, un aristocratico della Serenissima. Mocenigo dice di aver letto il De minimo e di voler conoscere i segreti della mnemotecnica e di tutti gli altri posseduti dal filosofo nolano. Che ne direbbe messer Bruno di venire a Venezia, a casa sua, per insegnarglieli?

Chissà perché, il nolano accetta. E in agosto è già a Venezia. In realtà si muove tra la città e Padova – dove ancora una volta chiede alla locale università, e ancora una volta non ottiene, una cattedra in matematica – prima di entrare in casa Mocenigo. Siamo alla fine di marzo dell’anno 1592. Il 21 maggio l’aristocratico ordina ai suoi servi di tener sequestrato in casa il filosofo, che gli ha annunciato di voler tornare in Germania, e due giorni dopo lo denunzia per iscritto al tribunale dell’Inquisizione: ho sentito da questo signore – dice – parole blasfeme. Ha disprezzato la religione, messo in dubbio l’esistenza della Trinità, blaterato di universi infiniti e di infiniti mondi. Abitati.
Il 23 maggio 1592 Giordano Bruno è tradotto in stato di arresto nelle carceri veneziane di san Domenico a Castello. Nel febbraio 1593 passa nelle carceri romane del palazzo del Sant’Uffizio. Il 24 marzo 1597 la Congregazione invita Bruno ad abbandonare la «inconsistente» teoria della pluralità dei mondi e ordina che per ottenere il risultato si passi a pratiche più rigorose: insomma, alla tortura. Il 12 gennaio 1599 viene richiesto di abiurare. Il 17 febbraio 1600 sale sul rogo con la «lingua in giova» e muore, arso vivo, in Campo de’ Fiori.
Chi era, dunque, il Nolano?

Un filosofo-poeta. Ma anche uno scienziato-letterato. Ma, forse, dovremmo dire che era un’espressione – una delle espressioni più significative – di quel ménage à trois tra scienza, filosofia e letteratura che attraversa la storia della letteratura italiana.
Che sia un filosofo e uno scienziato (come si può essere uomini di scienza alla fine del Cinquecento) lo abbiamo dimostrato. Che sia anche un poeta e un letterato lo abbiamo solo accennato. In realtà poeta e letterato lo è nel senso pieno del termine. Perché usa la poesia e la prosa. Scrive in versi, elabora dialoghi, propone commedie, pubblica saggi. In volgare e in latino. Con grande versatilità. E sofisticazione. Prendiamo a esempio, ancora una volta, La Cena delle ceneri. Possiamo rintracciarvi sette diversi livelli di lettura, peraltro indicati dallo stesso Bruno: uno storico, tre diversi livelli topografici – geografico, razionale (o ratiozinale, come egli stesso spiega), morale – un livello metafisico, un livello matematico e, infine, un livello che attiene alla filosofia della natura. Il tutto gestito con una sapienza manieristica molto ricercata.

La cena delle ceneri è scritta in volgare. Probabilmente per mostrare che è in sintonia, come abbiamo detto, con i circoli scientifici londinesi che a loro volta hanno scelto il volgare per comunicare al grande pubblico. Ma l’importante, come sottolinea Michele Ciliberto, non è solo perché, ma come scrive, in volgare e in latino. La sua lingua è una miscela di piani e livelli linguistici oltre che semantici diversi. Una singolare commistione di moduli: comico teatrale e narrativo umoristico, retorico oratorio e scientifico colloquiale. Un intreccio di registri retorici e stilistici differenti: dal serio al giocoso, dal drammatico al grottesco, secondo ritmi “musicali” che ad alcuni appare caotico, privo di un progetto letterario e filosofico. Ma esso, al contrario, esprime il caos della Vita-materia infinita: infinite espressioni ciascuna delle quali ha pari dignità e valore.
Bruno usa dunque il suo originale stile letterario perché è funzionale al suo progetto filosofico. Non a caso è in polemica anche con i sacri cultori delle regole grammaticali, come con ogni pedante “normativismo”:

I grammatici asservono il contenuto alle parole, noi asserviamo le parole ai contenuti: quelli seguono l’uso corrente, noi lo determiniamo.
Bruno, sostiene Michele Ciliberto, sul piano linguistico risulterà a lungo uno sconfitto. A vincere è quel modello che farà grande Galileo e che è imperniato su una forte selezione di piani linguistici e su un rifiuto programmatico di quella commistione tra “massimi” e “minimi” che teorizza Bruno.
Tuttavia il Nolano oggi appare come un autore moderno e innovativo. E infatti sarà rivalutato dagli innovatori moderni, come James Joyce o come Carlo Emilio Gadda.

 

  1. L’ipotesi dei molti mondi da Metrodoro di Chio a Giordano Bruno

Quando dice che la Terra è della stessa specie della Luna e che entrambe sono astri nell’immensità del cosmo, Giordano Bruno cambia semplicemente il posto dell’umanità nel mondo, togliendole ogni centralità. Ogni primato.
E questa detronizzazione è davvero totale, perché il Nolano popola molti e molti e molti degli infiniti mondi. L’uomo è definitivamente un accidente dell’evoluzione cosmica. Inserito come tanti altri infiniti accidenti nel ciclo della “mutazione vicissitudinale”, l’evoluzione incessante che modifica i composti mai la sostanza.
Siamo alla conclusione, non all’inizio, di un lungo percorso di ricerca, speculativa, di esseri fuori dalla Terra – un’autentica Search for Extra-Terrestrial Intelligence (SETI) – che da molti secoli impegna molte terrestri intelligenze, molti spiriti liberi, ma che, come rileva Miguel Granada, suscita scandali così gravi da costare la vita.

Ed è con una ricostruzione di questa libera ricerca, che potremmo definire di un (altro) senno sulla Luna, che vorremmo chiudere la nostra rapida incursione nel pensiero del piccolo, grande nolano.

«Non è possibile che vi sia un solo mondo abitato, nell’universo infinito». Invoca un criterio logico di impossibilità Metrodoro di Chio, discepolo di Democrito ed esponente illustre della corrente degli atomisti, nel IV secolo avanti Cristo, per sostenere che non siamo soli nell’universo. Secondo la scuola di pensiero, inaugurata da Leucippo e da Democrito, cui appartiene Metrodoro, infatti, «il tutto è infinito». E nel tutto, «in parte pieno, in parte vuoto», infiniti atomi si muovono componendosi e scomponendosi in un continuo divenire, che in ogni istante forgia infiniti mondi e altrettanti ne decompone. L’uomo non può essere il solo essere intelligente nel cosmo. Nell’universo infinito ci sono, in ogni istante, molti mondi come la Terra, abitati da molti esseri che per forza di cose devono essere simili all’uomo.

L’idea che non siamo soli nell’universo è piuttosto comune tra i filosofi dell’antica Grecia. Risale all’alba del pensiero razionale nella penisola mediterranea. Già nel V secolo a. C., per esempio, Anassagora di Clazomene, passeggiando per Atene, va spiegando che il Sole è più grande del Peloponneso e la Luna è butterata da montagne, alla cui ombra si riparano i suoi abitanti. Gente, incalzano da Crotone i discepoli di Pitagora, di certo superiore agli uomini che abitano la Terra.
Tuttavia è proprio nel secolo di Metrodoro, il IV secolo a. C., che il dibattito sulla solitudine cosmica dell’uomo diventa piuttosto acceso. Anche perché, contro le tesi dei molti mondi proposta dagli atomisti, scende in campo addirittura Aristotele. «Il cielo – dice – è di necessità uno solo, e non più d’uno». Se il cielo è uno, anche la Terra che è sotto il cielo è una e unici sono i suoi abitanti dotati di intelligenza autocosciente.

La tesi di Aristotele è destinata, come altre parti del suo pensiero, a dominare per un paio di millenni la cultura sulle sponde del Mediterraneo. Ma la Grecia è fucina di pensiero libero e antidogmatico. Così il giovane Epicuro, alla fine del IV secolo, non si fa remora di contrastarla. «L’universo è infinito – spiega Epicuro nell’epistola indirizzata a Erodoto, lo storico – e [in esso] vi è un numero assolutamente infinito di atomi … E ancora, i mondi sono infiniti, sia quelli simili al nostro, sia quelli dal nostro dissimili. Perché gli atomi, che abbiamo testé dimostrato essere infiniti, percorrono anche i più lontani spazi. E in verità quelli opportuni a dare origine ad un mondo o a costruirlo, non possono essere esauriti né da un solo mondo, né da un numero finito di mondi, né da quanti mondi sono simili, né da quanti sono ad essi diversi. Nulla dunque si opporrà a che i mondi siano infiniti» [Epicuro, ]. E se infiniti sono i mondi, infinite sono le comunità di esseri viventi dotati di un’intelligenza pari o superiore agli uomini che li abitano.

Anche l’astronomo Aristarco, nato a Samo come Epicuro, una trentina di anni dopo Epicuro, e influenzato, probabilmente, dal pensiero del suo concittadino, immagina un universo infinito. In cui né la Terra, né l’uomo occupano alcuna posizione privilegiata. Anzi Aristarco va sostenendo, insieme al suo discepolo Seleuco, che la Terra ruota, come un pianeta qualsiasi, intorno al Sole. Pochi gli credono, come peraltro capiterà diciotto secoli dopo a un astronomo polacco che, come lui, proporrà il modello elicentrico. Entrambi, Aristarco e il polacco, saranno accusati di empietà per aver osato rimuovere l’uomo dal centro dell’universo.

Aristarco non è un epicureo in senso stretto. Tuttavia la scuola epicurea riscuote successo per molte e molte generazioni. E, con essa, l’idea dei molti mondi. Ecco la versione poetica che di questa visione cosmica ci dà il giovane Tito Lucrezio Caro, nel I secolo a. C.:

Ora, di atomi la quantità è così grande, quanta
non potrebbe contarla tutta una vita di un essere vivo,
e forza e natura rimane la stessa che i vari principi delle cose
possa gettare nelle loro sedi, in modo simile
a come sono stati qui insieme gettati, occorre tu ammetta
che esistono altri mondi in altre parti dello spazio,<
e diverse razze di uomini e stirpi di animali.

Lucrezio è poeta famoso e intellettuale influente. Tuttavia non bisogna credere che siano solo gli epicurei a proporre questa immagine così poco antropocentrica dell’universo. Nell’immaginario e poliedrico salotto intellettuale della Roma del I secolo d. C., ricostruito da Plutarco nel Della faccia che si scorge nell’orbe lunare, trovano accoglienza (e pari dignità) le più svariate opinioni sull’universo. Tra queste anche quella, di pitagorica memoria, che attribuisce alla Luna e ai suoi abitanti qualità decisamente superiori a quelle della Terra e dei suoi abitanti. Naturalmente per possedere qualità superiori ai terrestri, gli abitanti della Luna devono possedere una primaria: l’esistenza in vita.
Insomma, lungo tutta la storia della cultura greca e, poi, romana, è sempre presente, anche se non è mai dominante, l’idea, basata su considerazioni razionali, che ETI – l’intelligenza extra-terrestre – esista. Che esistano, sparsi per l’universo, altri esseri dotati, come gli uomini, di intelligenza e autocoscienza.

Tuttavia un’ipotesi razionale, logicamente argomentata, non è ancora un’ipotesi scientifica. E se c’è un limite alla cosmologia, nient’affatto antropocentrica, degli atomisti, degli epicurei e di quant’altri immaginano l’universo infinito e la pluralità dei mondi, questa, come rileva Alexandre Koyré, è l’incapacità di legarla a dati osservativi e a teorie matematizzate. Ovvero l’incapacità di trasformare una brillante intuizione in solida scienza.
Nessun rimprovero a quegli antichi uomini di scienza. Ancora oggi la ricerca della vita fuori dalla Terra può contare su pochi dati e teorie incompiute. Ciò non toglie che SETI sia un autentico progetto scientifico.

Tuttavia anche l’altra idea, quella della solitudine cosmica dell’uomo, ha delle fondamenta razionali. Benché si nutra di un certa superbia antropocentrica. Non sosteneva, ancora qualche anno fa, il grande biologo francese Jacques Monod  che l’«uomo sa di essere solo nell’immensità indifferente del cosmo»? Fatto è che molti, nella Grecia antica, cominciano a considerare la Terra qualcosa di speciale quando si accorgono, con Anassimandro nel VI secolo a. C:, che la «Terra è isolata nello spazio». Che c’è una soluzione di continuità tra il pianeta su cui l’uomo vive e la volta celeste che interamente lo avvolge. Questa scoperta porta a una conseguenza logica difficile da smantellare. Se la Terra è isolata nello spazio, perché non cade? La prima spiegazione viene quasi spontanea: se non cade è evidente che si trova già nel luogo dove dovrebbe cadere. Si trova già al centro dell’universo. Per la verità questa soluzione non soddisfa Aristotele. Che, però, elabora la sua teoria sulla centralità cosmica del nostro pianeta sulla base di una seconda straordinaria scoperta effettuata dal pensiero razionale dei Greci: la «sfericità della Terra». Una scoperta che Aristotele avvalora sulla base di considerazioni puramente fisiche: è la Luna che ce lo dice. La forma dell’ombra che la Terra proietta sull’astro narrante nel corso delle eclissi è senza dubbio sferica. La narrazione della Luna è avvalorata dal fatto che, quando una nave si approssima all’orizzonte, a scomparire alla vista è prima lo scafo e poi gli alberi.

Queste, che secondo Livio Gratton sono due tra le più grandi scoperte della scienza greca, portano Aristotele a ipotizzare che i corpi cadono perché cercano di raggiungere il centro del mondo. Quando la Terra, in qualsiasi modo, si è formata, le sue prime componenti hanno raggiunto il centro universale. E le successive, trovando il posto occupato, si sono adattate in una posizione sempre un po’ più alta. Per questo motivo la Terra è sferica. Per questo motivo è al centro del mondo. Per questo motivo «deve» restare immobile al centro del mondo. Per questo motivo la Terra e lo spazio separato dalla Terra, il cielo, sono e non possono non essere che unici.

Aristotele non ha a disposizione una teoria della gravitazione universale per spiegare il moto dei corpi. Né la possibilità di osservare il moto della Terra rispetto alle stelle del cielo. Per quanto, ai nostri occhi, la sua cosmologia appaia errata, dobbiamo riconoscere che si basa su una logica rigorosa. La sua ipotesi è puramente razionale. E non è neppure venata da eccessivo antropocentrismo. Il filosofo di Stagira colloca, infatti, le sostanze pure e incorruttibili nel cielo sopra la Luna e le sostanze «sporche» e corruttibili sulla Terra.
La centralità della Terra comporta il modello tolemaico in astronomia: il Sole e i pianeti «devono» ruotare intorno al centro dell’universo. Solo  quando il modello viene assunto e fatto proprio dal Cristianesimo, diventa supporto e, insieme, spiegazione della centralità e dell’unicità dell’uomo. Che Dio ha posto al centro del creato e del suo progetto salvifico.

Così l’universo fisico e, potremmo dire, laico di Aristotele incontra il modello spirituale della religione dominante in Europa. Nel corso dell’intero Medioevo non si fa davvero un gran parlare di cosmologie alternative. Né di ETI.
Il dibattito che aveva animato le scuole di Atene e di Alessandria nonché i salotti (pochi in verità) di Roma viene dimenticato. Quando Nicola da Cusa, che lo storico della scienza Alexandre Koyré definisce l’ultimo grande filosofo del morente Medioevo, ne ravvisa le contraddizioni e respinge, nel XV secolo, la cosmologia tolemaica, per proporre l’immagine di un universo «interminato», ovvero senza limiti, privo di un involucro esterno e con larghi tratti di indeterminazione, non fa alcun riferimento né a Lucrezio né ai classici greci. Forse quella del Cusano non è una riscoperta. Ma una vera scoperta. Una nuova costruzione logica. Con la medesima genialità e i medesimi limiti della costruzione logica degli atomisti e degli epicurei. È, infatti, sulla base di un puro ragionamento, farcito qui e là di indimostrabili atti di fede, che Nicola da Cusa, nel 1440, scrive il suo De docta ignorantia e spiega che l’universo «interminato», benché non infinito, non può avere un centro. E che la Terra, come ogni altra sua componente, si muove «benché non appaia». Il nostro pianeta, oltre che «stella mobilis» è anche «stella nobilis», come il Sole o come la Luna: irradia nello spazio la sua propria luce.

La Terra, nella cosmologia di Nicola da Cusa, non perde, dunque, solo la sua centralità. Ma anche la sua unicità: essa non è né più perfetta, né meno perfetta del Sole, della Luna e del resto del cielo. È un luogo come gli altri. Nell’universo del Cusano ogni corpo materiale contiene e riflette tutti gli altri.
Nicola elabora dunque un immagine cosmica sulla base di un coerente «principio di mediocrità». Ci sono tutte le premesse e tutti gli elementi per dedurre che l’universo, «interminato» e privo di gerarchie, deve essere popolato da una pluralità di mondi, tutti uguali anche se tutti differenti, e, quindi, deve essere ovunque abitato. Ciò non significa che tutte le intelligenze cosmiche siano uguali. Al contrario, c’è una grande diversità. Per esempio, gli abitanti del Sole e della Luna, sostiene Nicola, sono più in alto degli uomini nella scala della perfezione. Essendo meno materiali e meno appesantiti dalla carne, hanno più spiccate capacità intellettuali e una più profonda spiritualità. Tuttavia, non bisogna disprezzare i terrestri. Perché non si può dire che: «questo luogo del mondo sia abitato da uomini, animali e vegetali di grado più ignobile di quelli che risiedono nella regione del Sole e delle altre stelle». Infatti, «anche se esistono sulle altre stelle abitanti di altro genere», con doti spirituali superiori: «L’uomo non desidera un’altra natura, ma soltanto di essere perfetto nella propria».

Nicola da Cusa, dunque, riapre alla fine del Medioevo, il dibattito su ETI. E anticipa molti degli argomenti utilizzati oggi a favore dell’esistenza di intelligenze extra-terrestri. In un universo illimitato, governato da un principio di mediocrità, devono esistere molti mondi simili alla Terra e, come la Terra, abitati da esseri intelligenti. Nicola, come molti studiosi contemporanei, sostiene inoltre che queste civiltà aliene debbano essere, mediamente, più progredite delle civiltà terrestri. Anche se il metro con cui egli misura il grado di sviluppo è la spiritualità, mentre noi tendiamo a utilizzare il metro, forse meno impegnativo, della tecnologia.

Nicola da Cusa è una voce rara, ma non isolata nella cultura europea che si appresta a uscire dal Medioevo. Ci sono altri che iniziano a maturare e ad ampliare le sue idee. Per esempio Marcello Stellato Palingenio, al secolo Pier Angelo Mauroli da La Stellata, che nel 1534 pubblica, a Venezia, lo Zodiacus vitae, un poema didascalico destinato a notevole fama e diffusione. Che sarà letto in tutta Europa: tradotto in inglese, francese e tedesco. Il poema avrà grande successo tra i protestanti e sarà messo all’Indice, nel 1558, quindici anni dopo la morte dell’autore, dai cattolici. «La terra e il mare contengono molti animali: e si deve credere vuoto il cielo?», chiede a chi sostiene l’unicità cosmica dell’intelligenza umana. «O menti vuote piuttosto voi, che credete questo!»

Palingenio, più che nell’infinità dell’universo, nega la finitezza della creazione di Dio. E invoca quella che Arthur Lovejoy chiamerà il «principio di pienezza»: ovunque è possibile nel cosmo nascono la vita e l’intelligenza. Così, sostiene Palingenio: «… anche l’etere ha i suoi cittadini, e le singole stelle sono le città del cielo, e le sedi degli dei. Colà si trovano re e popoli…». Anche Palingenio indulge a credere nella superiorità di ETI. E continua: «…ma re e popoli veri, ogni cosa vera: non, come costà, ombre e simulacri di cose…».

Il successo del libro e delle idee di Marcello Stellato Palingenio dimostrano che i tempi sono ormai maturi per la prima, vera spallata all’angusto universo geocentrico e per la nascita di una nuova cultura. Una cultura scientifica.
La dirompente novità giunge, come abbiamo detto, da Norimberga, il 24 maggio del 1543, quando Andrea Osiander accetta finalmente la sfida dello scandalo e, pur premunendosi contro le rabies theologorum decide di pubblicare il prezioso libro, De Revolutionibus Orbium Caelestium, scritto da un amico giunto proprio quel giorno al termine della sua vita, Niccolò Copernico da Toruń. Con quel piccolo saggio e con la sola forza della ragione, anche questo lo abbiamo già detto, l’astronomo polacco osa rimuovere, nientemeno, la Terra e, quindi, l’uomo dal centro del cosmo. Non sono il Sole e i pianeti a ruotare intorno alla Terra, sostiene Copernico, ma è la Terra, come gli altri pianeti, a ruotare intorno al Sole.
Si tratta di un evento davvero importante nella storia dell’umanità. Perché, come scrive Alexandre Koyré, la pubblicazione del libro: «segna la fine di un mondo e la nascita di un mondo nuovo. […] segna la fine di un periodo che abbraccia insieme il Medioevo e l’Antichità. Dopo Copernico, e solo dopo Copernico, l’uomo non è più al centro del mondo. L’universo non ruota più per lui».

Certo non è la prima volta che qualcuno propone questa rimozione che, di lì a un secolo, sarà considerata eversiva. Addirittura eretica. Ma è la prima volta che la rimozione viene proposta non solo sulla base di argomentazioni logiche, ma anche sulla base di dimostrazioni matematiche. Dimostrazioni che appaiono incomprensibili ai contemporanei: «Mathemata mathematicis scribuntur», lasciamo la matematica a chi la scrive, alzano le spalle i filosofi scolastici. Solo Filippo Melantone coglie, immediatamente, la portata storica e dirompente della tesi copernicana. Ma occorrerà attendere Giordano Bruno perché l’intuizione di Melantone diventi senso comune e le rabies theologorum cessino di essere una metafora e diventino una minaccia mortale. Ma di Giordano Bruno parleremo tra poco. Per ora constatiamo che, benché rivoluzionario, l’universo copernicano resta finito. E immutabile. Proprio come l’universo di Aristotele e di Tolomeo. Piuttosto stretto per ospitare ETI.

L’universo di Copernico sembra angusto anche ai copernicani. E, infatti, già nel 1576 l’inglese Thomas Digges immagina «… l’orbe delle stelle fisse [che] si estende infinitamente verso l’alto». Tuttavia Digges separa l’universo, infinito, delle stelle fisse da quello, finito, degli oggetti materiali. Cosicché occorre attendere il 1584, prima che qualcuno, facendo leva sul modello astronomico di Copernico, proponga l’infinità e l’isotropia dell’universo fisico. Questo qualcuno è il nostro Giordano Bruno da Nola. Che in quell’anno, a Londra, pubblica due libri, Cena delle Ceneri e De l’infinito universo e mondi, in cui sostiene che l’universo:
è un infinito campo e spacio continente, il quale comprende tutto e penetra il tutto. In quello sono infiniti corpi simili a questo [la Terra, nda], dei quali l’uno non è più in mezzo de l’universo che l’altro, perché questo è infinito, e però senza centro e senza margine; benché queste cose convengano a ciascuno di questi mondi.

Giordano Bruno immagina infiniti sistemi planetari. E più tardi, nel De immenso, preciserà:
Sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che similmente circuiscono quei soli, come veggiamo questi sette circuire questo sole a noi vicino.

Nell’universo, infinito e senza centro, dunque, tutto si muove:
compresa questa stella che è la Terra.
E infiniti mondi esistono simili alla Terra. La causa di questa necessaria infinità risiede nella potenza infinita di Dio. Solo un Dio dalla potenza finita avrebbe creato un universo finito e un numero di mondi finito. Per questa medesima ragion sufficiente gli innumerabili mondi contengono innumerabili individui e innumerabili modalità di intelligenza extra-terrestre.

L’idea che non siamo soli nell’universo trova, dunque, nel filosofo di Nola un grande sostenitore. Con Bruno l’idea di ETI fa leva, per la prima volta, su una base scientifica: il modello astronomico di Copernico.
«Io Zuane Mocenigo dinunzio…». Nel 1592 il nobile veneto denuncia alla Santa Inquisizione l’ospite che ha in casa perché gli ha sentito dire che: «il mondo è eterno, e che sono infiniti mondi, e che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole quanto che può». Anche per questo il nolano viene imprigionato, giudicato e condannato al rogo. Con la condanna eseguita in Campo dei Fiori, a Roma, il 17 febbraio del 1600 viene messo al rogo il primo e, forse, l’unico martire nella storia di SETI.