La Terra non è espandibile

La Terra è un pianeta finito nel senso che non è espandibile. Lo spazio a disposizione dell’umanità, cioè le terre emerse, è quello che è. Cioè 148.939.063 di chilometri quadrati al lordo di deserti, poli artico e antartico, e delle zone “naturalmente” non abitabili. Di conseguenza più aumenta la popolazione, meno ce ne è per tutti.

Ma il problema non è questo. Sta piuttosto nel fatto che lo spazio che c’è viene continuamente mal utilizzato e maltrattato tanto da ridurne l’abitabilità e la conseguente qualità di vita per chi lo usa o vorrebbe usarlo. In questo senso sono “finiti”, quale più quale meno, tutti i continenti e i vari Paesi che ne fanno parte. Tuttavia, parafrasando Orwell e la sua Fattoria degli animali secondo il quale tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri,  potremmo dire che tutti i Paesi sono “finiti” ma alcuni lo sono più di altri.
Fra questi c’è l’Italia che è un Paese più finito (301.338 chilometri quadrati) e non espandibile perché il suo spazio è in buona parte non utilizzabile secondo il modo di intendere l’uso del territorio. Ciò non ostante il nostro paese ha un livello di consumo di suolo tra i più alti in Europa, malgrado  le peculiarità del territorio dovute alle caratteristiche orografiche e ambientali, che dovrebbero (o avrebbero dovuto) evitare l’espansione urbana in zone ad elevata fragilità ambientale e territoriale

Allora? Allora di quello che c’è e che c’è rimasto bisognerebbe fare un uso più attento e, come si dice, sostenibile. Sostenibile proprio nel significato che fu dato a questo aggettivo nel 1987 quando fu coniato dalla Commissione Bruntland nel suo rapporto (Our Common Future) alle Nazioni Unite. Cioè durevole, tanto da potere essere dato alle generazioni future almeno nel modo in cui oggi ne godiamo. Non è così né sarà così se si continuerà ad utilizzare il suolo per usi impropri e diversi da quelli ai quali la “natura” lo ha destinato.

Invece il  suolo, che una è parte vitale della tridimensionalità dello spazio, viene quotidianamente divorato da usi per così dire impropri. Ce lo ricorda l’ISPRA   (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) con i suoi precisi rapporti sul Consumo di suolo in Italia l’ultimo dei quali –il rapporto 2016- riferisce dati particolarmente preoccupanti. Una sintesi è costituita dalla spesa di oltre 800 milioni di euro l’anno che prevedibilmente gli Italiani potrebbe essere costretti a pagare da quest’anno in poi per far fronte alle conseguenze del consumo di suolo nel triennio 2012-2015.

Perché tanta preoccupazione? Perché il suolo è una risorsa fondamentale per l’uomo. In quanto è non solo una riserva di biodiversità, ma anche la base per la produzione agricola e zootecnica, per lo sviluppo urbano e degli insediamenti produttivi, per la mobilità di merci e persone, per il benessere ed il godimento dei valori estetici. Tuttavia – come ha ricordato nel precedente rapporto il presidente dell’Ispra Bernardo De Bernardinis- “è ormai noto che, soprattutto a causa delle attività antropiche e di scelte di uso poco sostenibili, il consumo di suolo avanza e continua a generare la perdita irreversibile di preziose risorse ambientali e funzioni eco-sistemiche, influendo negativamente sull’equilibrio del territorio, sui fenomeni di dissesto, erosione e contaminazione, sui processi di desertificazione, sulle dinamiche di trasformazione e sulla bellezza del paesaggio.”

Insomma si registra una continua espansione delle “aree artificiali” ad un ritmo calcolato in 35 ettari al giorno. Ciò significa che una parte, la restante parte di territorio ancora “naturale”, viene –suo malgrado- asfaltata e cementificata.  È l’urbanizzazione che avanza e che negli ultimi cinquant’anni ha comportato una trasformazione, mediamente, di 90 ettari al giorno che si traduce soprattutto nella sottrazione di spazio all’agricoltura. Fenomeno dovuto non più alla crescita delle città provocato dal massiccio inurbamento della popolazione che lasciava la campagna, ma, soprattutto, per il fenomeno opposto e, cioè, per il decentramento urbano, dalle grandi città alle città piccole e medie. È quello che si definisce sprawl urbano che si traduce in costante occupazione di spazio per la costruzione di nuovi quartieri residenziali, ville, seconde case, alberghi, centri direzionali e commerciali, spazi espositivi, strade, autostrade, parcheggi, serre, cave, discariche e via elencando. È in questo modo che  si va progressivamente  trasformando la campagna in città con una evidente trasformazione e imbruttimento del paesaggio e con l’ampliamento dell’area soggetta al rischio idrogeologico.

L’ISPRA ha documentato che in 15 regioni è stato superato il 5% di suolo consumato, con il valore più alto in Lombardia, Campania e Veneto (10%). In Friuli-Venezia Giulia, Puglia, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Toscana, Marche i valori sono compresi tra il 7 e il 10%. La Liguria è la regione con la più ampia percentuale (40%) di copertura di territorio entro i 300 metri dalla costa. Si salva la Valle d’Aosta dove si tocca “solo” il 3%. I comuni delle province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il 50% di cementificazione, raggiungendo in alcuni casi anche il 60%. Il record assoluto, con l’85% di “suolo sigillato” spetta al comune di Casavatore in provincia di Napoli.

Come era auspicabile, ma con grave ritardo, negli ultimi anni stanno crescendo le iniziative volte alla riduzione del consumo di suolo.
“I dati Ispra sul consumo del suolo raccontano un’Italia che esaurisce in maniera sempre più preoccupante le sue risorse vitali, mettendo a rischio tante aree del Paese e dunque anche i cittadini” ha dichiarato il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. Ma la legge, secondo il ministro, non basta: “Serve una nuova cultura di rispetto dell’ambiente e di cura del territorio che parta dall’insegnamento ai giovani per costruire un’Italia più sicura e quindi più civile”.

“È inaccettabile che in un paese come il nostro si continui a cementificare senza che ci sia una pianificazione con vincoli di inedificabilità sulle aree esposte al rischio idrogeologico”. È il commento di Erasmo D’Angelis, Coordinatore della struttura di missione di Palazzo Chigi #italiasicura contro il dissesto idrogeologico. I numeri del rapporto Ispra confermano questa preoccupazione e spiegano l’urgenza dell’approvazione della legge sul consumo del suolo. Perché, ad esempio, è assurdo che si investano 9 miliardi di euro in 6 anni per ridurre il rischio idrogeologico per poi assistere a cementificazioni in zone a pericolosità idraulica o di frana.

Al momento (giugno 2016) un passo avanti è stato fatto con l’approvazione alla Camera dei Deputati del disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e il riuso del suolo edificato tendente ad azzerare la cementificazione entro il 2050. Un’approvazione non condivisa da tutti i votanti per i contenuti che in parecchi auspicano siano rivisti e migliorati al Senato. Molti punti della legge approvata vengono considerati “contraddittori e pericolosi” da parte di Legambiente, WWF, FAI, Slow Food e Touring Club, ma questo primo passo è per lo meno un segnale. Perché sino ad oggi il Parlamento mai aveva affrontato il problema.

Un principio deve essere la regola ed è che qualunque risultato non si può raggiungere a prezzo del consumo di territorio e di superficie agraria. Perché se la terra agricola sparisce il disastro che può derivarne è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. A tutto danno soprattutto delle generazioni future.